L'articolo è stato pubblicato su "Ricerche in Psichiatria" -Vol. II- n. 3 — 2005 e compare su gentile concessione dell’editore.
PREMESSA
Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo. […] La questione del bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti viventi che ci uniscono a uomini, cose, istituzioni e potenze, ovvero nella nostra vita storica. Il problema del bene è inseparabile da quello della vita e della storia (Opere di Dietrich Bonhoeffer — Edizione critica, vol. 6, Etica, a cura di A. Gallas, tr. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia 1995, p. 214 |
Lavorare bene, operare bene, vivere bene…. "dirigere" bene: è questo il principio che ci ha spinto alla presente riflessione, forse ardita. Partendo da una necessaria premessa che fa riferimento alla "gerarchia" presente nel manicomio, puntiamo la nostra attenzione sui ruoli, le funzioni, le organizzazioni, i sistemi complessi, per riflettere sui metodi di comando, le gerarchie, le professionalità, le autorità, nel complesso dell’istituzione all’interno della quale si definisce la nostra pratica quotidiana.
Tre sono le caratteristiche di un buon lavoro.
"Buono" è il lavoro che:
- è rivolto ad un fine buono (che non può essere evidentemente la ricerca esasperata di un profitto di breve periodo);
- costruisce relazioni buone, all’interno ed all’esterno dell’organizzazione, fatte di rispetto, ascolto, stima, fiducia, collaborazione;
- è svolto con passione e competenza in vista di fornire una prestazione eccellente.
L’impegno a svolgere un buon lavoro nel triplice significato sopra delineato presuppone, da parte del lavoratore, una precisa scelta di campo che lo porti a ripudiare sia impostazioni carrieristiche (incompatibili con la costruzione di relazioni positive con tutti), sia impostazioni di "minimo impegno" (o di massimizzazione del tempo di "non lavoro") e a sposare invece un’etica del lavoro volta alla ricerca di una "felicità di crescita o di movimento" (Teilhard de Chardin, Réflexions sur le bonheur, 1943) che lo motiva a far fruttificare l’insieme di attitudini e qualità di cui è dotato e a "crescere in umanità, valere di più, essere di più" (Paolo VI, Populorum progressio, 1967, n. 15).
La psichiatria viene da un’esperienza difficile, conflittuale, tormentata come quella del Manicomio, un po’ tutti abbiamo lottato per abbattere quei muri di cinta, quelle inferriate, quegli steccati: eppure il "nuovo" ci si presenta quotidianamente con tutta la sua vetustà e facciamo fatica a comprendere il valore di quanto abbiamo conquistato.
"Non c’è fatica nel mondo nuovo, ma solo sofferenza e patimento" recitava una vecchia lirica appresa sui banchi di scuola e lo sforzo di capire che questa sofferenza non è suscitata dai nostri pazienti, dalle loro "malattie", da quelli che, a volte, siamo "costretti" a chiamare sintomi, ma dal nostro modo di lavorare (disperso nella miriade di "posizioni", spesso prepotenti ed presuntuose, che ci impediscono di ragionare, di assumere una "posizione" nostra e, perfino, di lottare), talmente carico di conflittualità interiore da farci abbandonare "la presa"….
Gestire l’organizzazione, mantenendo l’impegno del "prendersi cura", diventa, così, un impresa ardua, spesso sovrumana, che, nella maggior parte dei casi, comporta frustrazione, demotivazione e un egoismo professionale, che ci affanniamo a definire "sano", sol perché ci consente di accaparrare le briciole di potere che il sistema, nel suo complesso, è disposto a lasciarci….
Non essendoci più nulla che duri, crolla la base della vita storica, cioè la fiducia, in ogni sua forma. Non essendoci più alcuna fiducia nella verità, il suo posto è preso dai sofismi della propaganda. Non essendoci più alcuna fiducia nella giustizia, si dichiara giusto quello che giova. Pure la tacita fiducia nell'altro, che poggia sulla coerenza, si trasforma in un perenne e sospettoso sorvegliarsi a vicenda. Alla domanda: che cosa rimane? Si può rispondere soltanto: l'angoscia di fronte al nulla? (Opere di Dietrich Bonhoeffer — Edizione critica, vol. 6, Etica, a cura di A. Gallas, tr. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia 1995, p. 104 e sgg.)
GERARCHIE E STILI DI COMANDO NEL MANICOMIO
Essendo la responsabilità un "correlato del potere" la nuova etica ribalta il detto Kantiano "puoi, dunque devi" nel "devi, dunque fai, dunque puoi" (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, Einaudi, p.9) |
In O.P. la gerarchia si strutturava formalmente in modo piramidale, ma tutti coloro che vi svolgevano, a qualunque titolo, una attività lavorativa, avevano modo di percepire, fin da subito, quanto la sostanza delle cose fosse essenzialmente diversa…. I molti "poteri" realizzatisi negli anni, all’interno di una cultura dell’istituzionalizzazione, protetta da omertà e interessi dei singoli e delle aggregazioni formali ed informali, avevano una trasversalità che in momenti diversi, metteva in pratica la propria autorità, quasi sempre in maniera subdola e nascosta da ipocrisie, finzioni e falsità.
Spesso le "verità" trasparivano nelle "confessioni" degli ammalati, nelle isolate prese di posizione dei parenti, negli casuali "operatori – Don Chisciotte", ma la "struttura" in queste occasioni si faceva forte del suo assolutismo, con reattività minacciose e intimidatorie che, almeno fino agli anni ’80, finivano per mettere a tacere, banalizzare, minimizzare e, in certi casi, ridicolizzare.
I manicomi, fatiscenti, ansimanti come grandi macchine sgangherate, incapaci di sostenere il connubio tra "ragione medica e ragione architettonica" sopravvivono anacronisti. In attesa che la legge ne sancisca la cancellazione. (F. M. Ferro da www.istitutoricci.it/introduzione.htm) |
L’ospedale, isolato dalle gradi mura come una fortezza, si nascondeva con notevole "perizia" alla "vista" del mondo: uomini e cose vivevano di "vita" propria e tutto si uniformava ad una spietata "normalità" che difficilmente riusciva a far breccia in quel muro di cinta fatto non soltanto di mattoni e calcestruzzo, ma soprattutto di silenzi, negazioni, depistagi e quant’altro.
"Il potere diventa oggettivamente responsabile per ciò che in quel modo gli viene affidato, e vi si impegna affettivamente mediante la presa di posizione del senso di responsabilità: nel sentimento ciò che è vincolante viene a legarsi alla volontà soggettiva. Ma la presa di posizione del sentimento non ha la sua origine nell’idea di responsabilità tout court ma nel riconoscimento della bontà peculiare della causa, nel modo in cui essa influenza il sentire e umilia il puro egoismo del potere. In primo luogo viene il ‘dover essere’ (Seinsollen) dell’oggetto, in secondo luogo, il ‘dover fare’ (Junsollen) del soggetto chiamato ad averne cura" (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, Einaudi, p. 117-118) |
Il modello gestionale del manicomio era quello di una gerarchia verticistica, che identificava nella figura del Direttore un elemento portante e giustificante l'intera istituzione. Il direttore avocava a sé ogni potere, anche amministrativo (donde contrasti cronici con gli amministratori e relative tensioni). Il direttore risiedeva in manicomio e non poteva allontanarsi. La sua figura era minutamente descritta nelle norme, ma soprattutto negli autorevoli pareri degli psichiatri dell’epoca. Scrive il Miraglia: "Il manicomio deve avere un Capo e niente più di un Capo; e questo Direttore capo dev'essere alienista sperimentato… imperocché l'ospizio è di natura sì speciale che ogni precetto ordinario non solo potrebbe raggiungere ma sconvolgerebbe ogni pratica del Manicomio… Il Direttore alienista ch'è il centro di movimento e di vita di sì interessante Instituto presiede al ramo medico e disciplinare che direttamente ne dipende… Pel primo il Direttore dà i precetti generali delle classificazioni, sorvegli le cure in massa, consiglia i precetti morali, passa la visita…"
Il modello gerarchico era, comunque, semplice e, a suo modo, funzionale: sulla base della cultura ottocentesca che voleva il Direttore come "primum et unicum movens", da questa figura derivava una organizzazione "a cascata" molto rigida e teoricamente definita: strutturalmente il manicomio era diviso in reparti e, dopo la riforma del ’68, ogni reparto aveva un medico responsabile (che poi divenne "il primario"), un numero diverso di altri medici (che poi divennero aiuti ed assistenti), un numero imprecisato di personale che potremmo chiamare di "assistenza" (che, in parte ed in epoche diverse, divenne infermieristico). Quando venne istituita la figura del capo-sala ci si dovette confrontare, in molti O.P., con il conflitto di competenze, tra questo ruolo e quello della suora, che, almeno nell’O.P. di RC, rimase gerarchicamente sovraordinata rispetto al personale infermieristico fino alla chiusura dell’ospedale.
Vi sono testimonianze di pazienti e anche di infermieri cui era severamente proibito "parlare con i matti", una sorta di gerarchia militare imposta da psichiatra e sorvegliante, in cui si dovevano solo eseguire gli ordini e in cui la comunicazione era un privilegio negato. (Nico Pitrelli L'uomo che restituì la parola ai matti, Editori Riuniti, Roma, 2004). |
Il personale che operava nei reparti aveva, però, un’altra figura gerarchicamente sovrastante e cioè "il sorvegliante": una specie di responsabile dei servizi infermieristici che, amato e temuto per i suoi poteri "disciplinari", rispondeva al direttore della gestione del personale.
Il Direttore aveva anche responsabilità amministrative che, in parte ed in epoca relativamente recente, delegava all’ "Economo", che di fatto gestiva il personale amministrativo e le attività economiche e tecniche della struttura.
L’Economo, inizialmente figura "di rimorchio" rispetto alla responsabilità del Direttore, nel corso degli anni, assunse sempre più le vesti di una vero Direttore Amministrativo, soprattutto dopo che la gestione degli O.P. passò dalle Amministrazioni Provinciali al Servizio Sanitario Nazionale.
Nell'Ottobre del 1945, il direttore dell'OPP riceve una lettera dalla Provincia di Trieste che ha come oggetto: Depositi di ricoverati di razza ebraica. Si prega di informare sulla situazione attuale dei depositi. L'Economo risponde prontamente, elencando gli averi dei deportati: orologi d'oro, anelli, spille d'oro, riservandosi, per depositi in denaro, di evidenziare la trattenuta dovuta per il ricovero (D. Barbina: Cenni storici sulla psichiatria triestina dal 1908 al 1970, da http://www.areas.fvg.it/psichiatria.pdf. |
L’economo gestiva in O.P. un potere che si estrinsecava in tutte quelle funzioni amministrative ed economiche che di fatto comprendevano le forniture per la cucina ed il guardaroba, le spese dei servizi tecnici, la gestione dei beni dei ricoverati, etc. Per motivi che sono chiaramente comprensibili, tale figura (iniziale interfaccia con l’Amministrazione del Manicomio), riuscì ad accaparrarsi spazi di autonomia gestionale sempre più ampi, realizzando legami forti con strutture ed organizzazioni di contorno, delle quali, per molti anni, il Manicomio ha rappresentato una vera fortuna in termini di guadagni e privilegi.
Anche in questo caso il "muro di cinta" faceva da scudo ad ogni intervento od iniziativa gestita da questa figura e non erano rari i casi in cui imprese, società o ditte tenute da prestanome degli stessi infermieri (quasi tutti svolgevano, più o meno clandestinamente, attività parallele alla professione sanitaria), si accaparrassero piccoli appalti, sub-appalti o forniture.
"Fino alla fine degli anni Settanta", ricorda infatti Pallotta, "gli infermieri erano relegati al ruolo di aguzzini. La nostra funzione all'interno dei padiglioni, severamente controllata dalle suore, era solo quella di evitare che i pazienti creassero problemi, scappassero o agissero con violenza". L'importante, racconta l'ex infermiere, era che i pazienti restassero dentro e che le notizie di fughe, omicidi e suicidi non venissero all'orecchio della popolazione esterna. (A. Carusi: Un laboratorio per la mente, da Magazine, 30 giugno – 6 luglio 2002 ) |
Le suore in O.P., più che un potere, erano una vera istituzione. Erano disciplinate da una gerarchia formale che discendeva dalla Superiora, a quelle destinate ai reparti (all’epoca solo a quelli femminili), fino alle religiose che si interessavano della gestione di alcuni servizi.
Queste figure, nell’O.P. di RC, pur nella diversità dei vari comportamenti e della gestione del potere, avevano tutte una modalità di rapporto che potremmo definire bidirezionale (nei confronti del personale femminile e nei confronti delle ricoverate): una marcata cultura custodiale sembrava aver lasciato, anche in queste religiose, un segno tangibile, quasi a sovrastare, se non ad occultare, il sacro Ministero cui avrebbero dovuto essere preposte.
Nei confronti del personale infermieristico e, prima ancora, di quello di assistenza in generale, le suore assumevano una modalità di rapporto che era sostenuta, anche formalmente, da un ruolo "forte" assegnato loro dalla gerarchia interna, anche, dopo che, con la creazione delle figure delle capo-sala (almeno nei reparti femminili) rimanevano, come detto, ad esse sovraordinate con indefiniti compiti di responsabilità superiore. Queste figure, insomma, tollerate e riverite un po’ da tutto il personale, compreso quello medico, di fatto gestivano a loro piacimento il personale infermieristico femminile con una modalità che non aveva mezze misure: o "pro" (ed in questo caso il personale godeva di ogni privilegio, dispensa o impunità), oppure "contro" (condizione rara, ma, a volte presente) con ritorsioni di ogni tipo e meccanismi di isolamento professionale e personale dal resto del gruppo.
Anche nei confronti delle pazienti il personale religioso esercitava spesso un potere reale, che non teneva in nessuna considerazione le condizioni psichiche delle ricoverate: la suora gestiva le ammalate con gli stessi meccanismi con cui disciplinava il servizio infermieristico, distinguendo "buoni" e "cattivi" ed attivando metodiche punitive o gratificanti nei confronti dell’una o dell’altra ammalata a seconda del suo inoppugnabile giudizio.
Mentre da una parte il lavoro all’interno degli ospedali psichiatrici era visto dagli stessi medici come un’attività squalificante e degradante la professione, senza alcun fine terapeutico, dall’altra si veniva evidenziando come il reale potere all’interno di queste strutture era detenuto da figure intermedie, quali le suore che operavano nei reparti e i funzionari. |
Ma la "vera gerarchia", all’interno del Manicomio, si sviluppava, come detto, trasversalmente rispetto a quella formale: sotto questo aspetto l’unica vera metamorfosi si ebbe con la trasformazione del manicomio in Ospedale Psichiatrico, nel quale, man mano che si realizzava un modello di stampo ospedaliero, il Direttore cominciava a perdere potere a favore dei Primari, soprattutto in termini di gestione del programma di cura e del personale assegnato alle divisioni.
Per molti anni, però, nonostante la riforma, sopravvissero i poteri trasversali che da sempre avevano, di fatto, governato in nosocomio: uno di questi era costituito certamente dal personale "cosiddetto" infermieristico e, soprattutto, dai vertici sindacali. La sindacalizzazione del personale è collocabile in epoca relativamente recente rispetto alla nascita del manicomio e, dal dopoguerra in avanti, il processo avviatosi in tutti i sistemi complessi all’interno del territorio nazionale, trova una sua estrinsecazione piuttosto tardiva in un sistema rigido come quello manicomiale. L’acme della concretizzazione di questo potere può collocarsi a cavallo degli anni ’70/’80, quando il personale di assistenza, quasi tutto ausiliario, fu equiparato, attraverso corsi di aggiornamento interni di varia durata, a quello infermieristico degli ospedali generali. Il sindacato gestì questo complesso processo di trasformazione con grande forza, consolidando il proprio potere soprattutto per i benefici, non solo economici, che venivano acquisiti dai dipendenti.
La modalità attraverso cui si espletava il potere dei vertici sindacali potrebbe definirsi assertivo/minacciosa: il sindacato entrava nel merito di qualsivoglia controversia tra vertice e personale e, utilizzando dinamiche perverse di tipo esplicito o sub-liminale, quasi sempre si poneva a scudo rispetto a inadempienze, omissioni, irregolarità, etc., accrescendo di volta in volta la propria autorità bidirezionale (vertice e personale) ed acquisendo, in questo modo, adesioni alla sigla sindacale che, di volta in volta, era interessata alla problematica.
Il sindacato, poi, costituiva il braccio operativo di un altro potere forte che agiva all’interno dell’O.P. in maniera quasi impalpabile: il sistema politico (di qualunque colore o estrazione) esercitava un ruolo preminente soprattutto in tema di forniture e fornitori, assunzioni, passaggi di grado, privilegi vari.
L’esempio del manicomio di Grugliasco, la sua edificazione prima e il suo ampliamento poi, la genesi stessa di tale costruzione, rappresentano un’importante indagine ‘microstorica’ che rivela quanto la cura del malato fosse relegata al fondo delle priorità e degli amministratori pubblici e dei medici. Rivela, altresì, quanto il discorso psichiatrico fosse strettamente legato a lobby di potere medico, socio-politico ed economico. |
LA LEGGE 180 E L’IMMEDIATO DOPO-MANICOMIO
Gli anni che trascorsero dal 1978 alla reale chiusura dell’O.P. furono caratterizzati da una profonda incertezza gestionale, che finì per ripercuotersi sulla assistenza ai ricoverati. Furono molti coloro che, in un primo tempo credettero che la legge non sarebbe stata applicata e che, come spesso accadeva in Italia, i manicomi sarebbero sopravvissuti, seppure con altre etichette.
Il potere, però, dapprima arrogante ed altezzoso, divenne sempre più insicuro, sentendo vacillare tutte le certezze di un passato ormai sepolto dalla storia: la chiusura ai nuovi ricoveri, poi il definitivo blocco di tutti gli ingressi e via via le dimissioni verso le strutture, erano il segno di un mondo che stava cambiando. La piramide vacillava dalle sue stesse fondamenta. Ma il potere, mai sazio, spostava i suoi "tentacoli" cercando "spazi" ed universi differenti che si celavano dietro quella parvenza di "nuovo": tutti ebbero una fetta, più o meno succulenta, Chiesa, privato sociale ed imprenditoriale, ma anche medici, infermieri, politici, etc…..
Questo nono numero di Adesso esce come contributo alla lotta contro l'apertura del "manicomio dorato" di Man/Madonna bianca a Trento, una struttura di duemila metri quadrati che l'Azienda sanitaria vuole aprire ai primi di ottobre……….. il progetto di Madonna bianca appare fin troppo chiaro: ritornare a forme sostanzialmente manicomiali di psichiatria………… nella sua storia, la psichiatria ha continuamente modificato i propri strumenti (a seconda del contesto politico e soprattutto del grado di indifferenza sociale su cui poteva contare), senza mai cambiare la propria logica. ………. Di fronte a certi conflitti (di ordine famigliare, morale, sociale, eccetera) si esclude una delle parti in causa, la si priva di ogni possibilità di spiegare le sue ragioni. ……….. La violenza diventa "terapia", i carcerieri dei "medici", e noi siamo tutti più tranquilli: siamo innocenti. Perdurano questa logica – la stessa che ritroviamo in tutti i luoghi, siano essi centri diurni, case-famiglia, comunità protette o altro, in cui qualcuno per professione o per ruolo "aiuta" in senso unilaterale gli altri – anche gli antichi strumenti ritornano in uso. ……… Il manicomio, insomma, è la psichiatria; è la definizione stessa di malattia mentale con tutte le figure che vi ruotano attorno. Si tratta di una gabbia che può chiudersi attorno a chiunque……….. Eppure, le altre violenze della psichiatria non sono per questo da trascurare. Partire da un obiettivo specifico (all'insegna del saggio principio di dare all'ingiustizia sempre nome e indirizzo) è per noi un'occasione significativa per portare la critica pratica alla psichiatria in tutta la società, per estirpare quanto più possibile le sue radici dalla nostra vita quotidiana. (Malati di normalità — Adesso: foglio di critica sociale — Rovereto 28 sett. 2001, n.9 ) |
Gli anni novanta possono essere considerati quelli del reale superamento della struttura in quasi tutto il territorio nazionale, anche se la nuova organizzazione si data un po’ più tardi e cioè dopo la promulgazione del I Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute Mentale e la realizzazione in quasi tutte le USL del Dipartimento di Salute Mentale.
In realtà non fu certamente una norma a disciplinare il profondo cambiamento culturale che stava alla base della "rivoluzione basagliana", e in tutti coloro che, come noi, avevano avuto modo di vivere il processo di superamento dell’O.P., governava l’incertezza e la perplessità di stare vivendo una esperienza professionale ed umana molto difficile, ma, soprattutto che si sarebbe dovuta realizzare con gradualità e senza eccessivi traumatismi soprattutto per i pazienti ricoverati.
IL CONCETTO DI OSMOSI: "teoria della pratica"
Almeno nella realtà dell’Ospedale di Reggio Calabria, ma molte altre esperienze nazionali dimostrano che la stessa situazione si sia verificata un po’ dovunque, il passaggio dalla organizzazione centripeta dell’O.P. a quella centrifuga della 180, determinò un movimento di personale medico e di assistenza in gran parte derivato dal Manicomio.
Gli aspetti più problematici, come era ipotizzabile fin dall’inizio, furono rappresentati dalla traduzione funzionale del concetto di residenzialità, dal modello asilare, proprio del manicomio, a quello "comunitario".
In merito, lo stesso Basaglia aveva percepito le difficoltà che la nuova organizzazione avrebbe potuto comportare ed in un suo scritto affermava:
"Se quello della comunità terapeutica può essere, dunque, considerato un passo necessario nell'evoluzione dell'Ospedale Psichiatrico (necessario soprattutto nella funzione che ha avuto e che tuttora ha di smascheramento di ciò che il malato mentale era ritenuto e non è e per l'individuazione dei ruoli prima inesistenti al di fuori di un livello autoritario) non può però considerarsi la meta finale verso cui tendere, quanto piuttosto una fase transitoria in attesa che la situazione stessa si evolva in modo da fornirci nuovi elementi di chiarificazione. Ciò che risulta importante, per il momento, è riuscire a mantenere, affrontare ed accettare le nostre contraddizioni, senza essere tentati di allontanarle per negarle. Per questo il compito della psichiatria attuale potrebbe essere quello di rifiutarsi di ricercare una soluzione della malattia mentale come malattia, ma di voler avvicinare questo tipo particolare di malato come un problema che – solo in quanto presente nella nostra realtà – potrà rappresentarne uno degli aspetti contraddittori per la cui soluzione si dovranno impostare ed inventare nuovi tipi di approccio e nuove strutture terapeutiche"
La posizione di Basaglia, anche se non esplicitamente, si connotava per una grande attenzione all’organizzazione, oltre che ai pazienti ed in particolare alla capacità del "sistema" di pianificarsi in maniera funzionale ad un modello gestionale molto difforme rispetto alla cultura di fondo che aveva contraddistinto l’epoca del manicomio.
I vari modelli realizzati nelle diverse realtà nazionali, sembrano contraddistinguersi, pur nell’originalità di ognuno di essi, per una conformazione abbastanza standardizzata che potremmo definire ancora alla "ricerca" di una tipologia, come, peraltro, Basaglia stesso aveva ipotizzato, dimostrando come, a fronte di una chiara definizione della gestione dell’acuzie (più o meno opinabile, ma normata in maniera chiara, almeno per il TSO), la disciplina della residenzialità e della semiresidenzialità (vero alter-ego del manicomio) abbia determinato in ogni realtà locale metodologie organiche e funzionali che potremmo definire "adattative", cioè molto legate al contesto nel quale sono state pensate e realizzate.
STILI DI COMANDO NEI DSM
Fatta questa lunga premessa, indispensabile per inquadrare il problema, la riflessione che proponiamo ha come obiettivo quello di studiare se e come sia possibile identificare e definire uno stile di comando nei DSM a fronte dei profondi cambiamenti culturali, normativi ed organizzativi che hanno contraddistinto il dopo-manicomio.
Il problema che si siamo posti è il seguente: è possibile individuare stili di comando credibili e condivisibili, in un sistema in continua evoluzione tecnico-gestionale, com’è quello costituito dai servizi per la salute mentale?
In premessa ci pare opportuno considerare gli aspetti generali del problema, che stanno alla base di una qualunque organizzazione.
L’organizzazione è una struttura sociale creata da individui per facilitare il raggiungimento di obiettivi determinati attraverso la collaborazione.
Si definisce "comunicazione organizzativa" l’insieme dei processi di creazione di messaggi ed informazioni all’interno delle diverse reti di relazioni che costituiscono l’essenza dell'organizzazione. Essa coinvolge i membri interni, i collaboratori interno-esterni e tutti i soggetti esterni in qualche modo interessati o coinvolti nella vita stessa dell’orga-nizzazione. Essa consente di definire e condividere la mission, la cultura e i valori di impresa (Kreps, 1986; Goldhaber, 1986).
Si definisce, invece, "competenza comunicativa" quella che fa riferimento alle abilità che consentono all’individuo che ha responsabilità di comando di emettere un messaggio facilmente comprensibile per i suoi interlocutori, quindi l’abilità di condurre le transazioni con l’ambiente che permettono all’individuo di crescere e migliorare (Argyris,1975)
"nuove regole di organizzazione dell’ospedale, la comunicazione libera e trasparente, le condizioni di vita degli internati sorprendentemente diverse, l’attenzione ai loro bisogni, persino la radicale messa in crisi di tutti i ruoli professionali, il fertile rimescolamento dei poteri e delle responsabilità, tutto questo non basta più, è straordinariamente innovativo ma non basta più…." (M. Colucci; P. Dell’Acqua; R. Mezzana: La comunità possibile — 1988) |
MODELLI ORGANIZZATIVI TRADIZIONALI ED EMERGENTI A CONFRONTO
Prof.ssa G. Alessandrini – Università degli Studi Roma Tre
Modelli organizzativi tradizionali
- Specializzazione gerarchico-funzionale (struttura verticale accentramento decisionale, rigidità organizzativa)
- Processi di decisione, comunicazione e controllo dominati dalla gerarchia (top-down)
- Status e autorità derivanti dal livello gerarchico, stile di direzione autoritario
- Formalizzazione delle procedure, dei compiti e delle responsabilità
- Cultura chiusa e conservatrice
Modelli organizzativi emergenti
- Snellimento e deburocratizzazione delle strutture organizzative e rivalutazione dei fattori soft (sistemi operativi, leadership, cultura…)
- Decentramento decisionale
- Ricomposizione dei processi e nuova ripartizione dei compiti fra line e staff
- Approccio proattivo e creativo al cambiamento
- Gerarchia fondata sulle competenze
Riesce difficile calare questi concetti generali nelle modalità organizzative e tecnico-gestionali del Dipartimenti di Salute Mentale: ciò perché in un contesto così articolato, dove il "prodotto" finale dovrebbe essere la "salute mentale", da un lato, il produttore si esprime con modalità disomogenee e dall’altro l’analisi del risultato finale vive in massima parte sull’osservazione "attraverso gli occhi", piuttosto che su linee di valutazione obiettive ed obiettivabili.
In questo contesto l’organizzazione, nel suo complesso, si mostra debole nei confronti della determinazione di processi di cambiamento e di crescita e sembra continuamente involversi nelle sue dinamiche settoriali, che conducono, frequentemente, a vedere il "servizio" non come un momento di un percorso di cura articolato e complesso, ma come un compartimento a sé stante che fa fatica ad integrarsi, arricchirsi e rinforzarsi nell’osmosi con gli altri elementi che costituiscono il sistema complesso che chiamiamo dipartimento.
Pianificazione, programmazione e controllo dovrebbero essere, pertanto, gli elementi portanti del Dipartimento di Salute Mentale, non diversamente da quanto avviene in tutte le organizzazioni complesse.
Numerosi sono gli elementi di analisi necessari, vediamo di considerarli in maniera dettagliata:
Fabbisogni organizzativi: molte caratteristiche delle organizzazioni sono universali. Esse sono presenti, in qualche misura, senza riguardo allo specifico prodotto o linea di servizi dell'organizzazione. Le caratteristiche universali comuni sono:
- Scopo – Una organizzazione senza uno scopo non ha motivo di esistere, anche se spesso lo scopo non è chiaro a tutti i componenti l'organizzazione stessa. Le imprese industriali hanno chiaramente lo scopo di realizzare profitto. Le organizzazioni pubbliche hanno lo scopo di fornire dei servizi, senza profitto. Questo fatto non esclude che l'organizzazione deve valutarsi in base alle perdite e profitti . Perciò il profitto, i beni o i servizi prodotti si possono definire "produzione".
- Persone – La seconda caratteristica di una organizzazione sono le persone. Anche se le macchine o i processi di automazione tendono a ridurre l'impiego delle risorse umane, una organizzazione deve per forza avere del personale, altrimenti si tratta di "automated factory". Comunque quando occorrono più di una persona per realizzare una certa produzione si è in presenza di una "Organizzazione".
- Gerarchia – La terza caratteristica di una organizzazione è la gerarchia. Alcuni sono capi, altri sono subordinati. Qualcuno ha maggiori responsabilità di altri. (Da:http://www.tenstep.it/Letture-particolari/L-04-lo-stile-manageriale.htm)
Il concetto di organizzazione assume nei DSM un valore decisamente elevato. Emerge, comunque, una forte difficoltà nella definizione delle alternative gestionali, come se fosse difficile, se non impossibile, stabilire in maniera chiara i tempi e le modalità attraverso le quali si possa esprimere la responsabilità nei vari momenti operativi. Ciò determina una laboriosità nella programmazione e nell’innovazione ed il processo decisionale non sempre si basa sulla motivazione, l’integrazione ed il coordinamento, finendo per arroccarsi su modalità di tipo gerarchico-formalizzato che, come si vede nella tabella ripercorrono modelli tradizionali di tipo top-down.
Modelli di pianificazione strategica: la nuova disciplina dei servizi per la salute in generale, richiede un approccio imprenditoriale tratto dall’azienda privata, basato sulle tre "E" (efficacia, efficienza ed economicità). Detta così la cosa sembra banale, mentre il vero problema è riuscire a coniugare il concetto di responsabilità con la struttura gerarchica dell’istituzione ed anche, in particolare, con la clinica nelle sue articolazioni pratiche, dalla gestione terapeutica alla gestione amministrativa. In realtà, la sola definizione degli obiettivi, nei servizi per la salute mentale, è molto complessa e variabilmente strutturata.
In questo senso potrebbero essere distinte quattro tipologie di obiettivi (che, in forme diverse, dovrebbero essere oggetto di concertazione in sede di definizione del budget):
OBIETTIVI DI CURA: i percorsi di cura, con responsabilità e scadenze di verifica; la risposta all’urgenza-emergenza, la riabilitazione ed il trattamento prolungato; i rapporti con cooperative, privato sociale e volontariato.
OBIETTIVI DI SALUTE: la prevenzione, l’analisi del sommerso, gli indici di morbilità, i centri di ascolto, le banche dati, le iniziative di informazione,
OBIETTIVI DI QUALITA’:, la "Quality Assurance"; l’accreditamento istituzionale, la carta dei servizi, gli indicatori, i progetti finalizzati, la formazione permanente, gli studi quali-quantitativi dei drop-out e degli insuccessi terapeutici, la riduzione delle liste d’attesa,
OBIETTIVI DI ECONOMICITA’: il sistema informativo, progetti finalizzati, l'"Evidence based medicine", la valutazione della sostenibilità organizzativa di programmi e progetti, il razionale utilizzo delle risorse umane e strutturali.
Responsabilità decisionale: un aspetto fondante è certamente rappresentato dalla coerenza tra delega, autonomia e responsabilizzazione; e tra numerosità e gerarchia. Il problema del decentramento decisionale e della definizione dei compiti tra le diverse UU.OO., contrasta con la necessità di individuare sempre il soggetto che deve decidere all’interno di variabili culturali, formative, strutturali che sono molto condizionate dalla estrazione dei singoli attori in gioco (non ultimi i pazienti e le famiglie). Il passaggio dall’accesso, alla presa in carico, al "contratto" di cura ed al successivo percorso di cura può, infatti, vedere coinvolti talmente tanti soggetti diversi, dal finire per rendere eccessivamente "parcellizzato" il cammino assistenziale del paziente, soprattutto in funzione di elementi culturali ed impostazioni di lavoro profondamente diversi tra i servizi e le strutture coinvolte.
E’ necessario, pertanto, ricercare un "modus operandi" comune che, da un lato, sia rispettoso delle autonomie e delle responsabilità e dall’altro, si sviluppi in maniera coordinata ed omogenea, al fine di evitare input diversi o addirittura contrapposti sui singoli operatori e sullo stesso paziente.
Sotto questo aspetto riveste molta importanza la capacità di lavorare in gruppo, dimensionando la propria area di autonomia in funzione delle relazioni funzionali che si realizzano nei sistemi aggregati formali od informali: "semplici regole, chiare e condivise, modalità comunicative assertive, che favoriscano un ascolto attivo attraverso processi di coinvolgimento e partecipazione, strategie decisionali concordate ed esplicite sembrano rappresentare il punto di partenza di un promettente percorso lavorativo in gruppo. La capacità di gestire i conflitti non negandoli ma affrontandoli con apertura e fermezza, un atteggiamento cooperativo e propositivo, la sollecitazione di un approccio ai problemi flessibile e creativo possono consentire al gruppo un significativo salto qualitativo" (G. Lucarelli: Lavorare in gruppo con efficienza e creatività — Franco Angeli Editore — 2005).
Stile manageriale: attori, fasi e strumenti di supporto.
Lo stile manageriale è il risultato delle caratteristiche personali di chiunque è preposto a dirigere il lavoro di altri, esso si esprime attraverso numerosi vettori tra cui citiamo:
- incentivare gli aspetti creativi, scientifici e umanistici di ciascuno, attraverso esplicite richieste di contributi estese a tutti i dipendenti;
- riconoscere gli errori a qualunque livello senza motivazioni punitive;
- chiarire e comunicare per iscritto le responsabilità dei singoli attori;
- incentivare e incoraggiare il lavoro in Team;
- elargire feedback positivi di riscontro, anche pubblici durante riunioni o altro;
- consentire a tutti i partecipanti di un progetto o qualsivoglia attività dipartimentale di contribuire con proprie idee al raggiungimento degli obiettivi prefissati;
- lavorare per obiettivi i quali devono essere comunicati per iscritto e sulla base del loro raggiungimento devono essere valutati i dipendenti e anche i Dirigenti;
- attivare un sistema di suggerimenti alla Direzione (botton up) e impostare un criterio di riconoscimento per quelli maggiormente significativi;
- consentire una aggregazione di persone che, pur non lavorando su uno specifico argomento, ne condividono l’interesse;
- capitalizzare le esperienze.
STRUMENTI:
Organismi collegiali di supporto: variamente definiti (Consiglio, Comitato, Nucleo di valutazione, ….del DSM), rappresentano l’espressione più tipica della Responsabilità collegiale. Nel P.O. 98/2000 gli organismi collegiali del DSM sono stati inseriti a pieno titolo nella struttura del Dipartimento stesso, ampliando ed arricchendo i contenuti del precedente.
Tutti, o quasi, i regolamenti del DSM diffusi prevedono almeno uno di questi organismi, con funzioni diversificate a seconda della maggiore/minore impronta gerarchica del Dipartimento.
L’aspetto più peculiare della loro funzionalità è costituito dalla effettiva capacità di tutto il sistema di gestire alcuni momenti della responsabilità con una visione "condivisa" che si può così riassumere:
- capacità di interagire nel rispetto reciproco di funzioni e ruoli;
- ricerca di procedure e strumenti che rendano effettiva la responsabilità collegiale, nel rispetto di quella individuale e professionale;
- volontà di condividere con altre professionalità l'assunzione di decisioni che riguardano l'organizzazione;
- progressiva verifica e messa a punto di procedure e strumenti secondo il mutare delle situazioni.
In questo senso ci pare sia opportuno ridefinire i termini della responsabilità collegiale soprattutto in funzione della cosiddetta "autonomia professionale": ci riferiamo in particolare alla necessità, per l’organizzazione di fissare regole fondamentali di funzionamento, all’interno delle quali l’iniziativa del singolo sia pienamente in grado di sviluppare diversità e competizione istituzionale, fondamentali per alzare il livello delle prestazioni in tutti i campi.
Al di là della specificità dell’organismo proponente (settore, unità operativa, progetto, perfino singolo operatore), il vettore attraverso il quale si dovrebbe esprimere la "decisione", vede, pertanto, coinvolti gli organismi collegiali di supporto sia in termini di valutazione e di fattibilità, che di congruenza con gli obiettivi del Dipartimento, con una penetranza che varia a seconda della "forza" che agli organismi stessi viene assegnata in sede di regolamento del DSM.
Si tratta, in fondo, di applicare, anche nella psichiatria, gli elementi più propri della "Clinical Governance" che può essere definita una "cornice al cui interno l’organizzazione sanitaria contabilizza il continuo miglioramento della qualità dei servizi e la salvaguardia di elevati risultati di cura" (A, Giangrande: 45° congresso nazionale della Soc. It. di Nefrologia, 2004), attraverso sei ambiti specifici:
- formazione
- gestione del rischio
- trasparenza
- ricerca e sviluppo
- efficacia clinica
- verifica clinica
Gli organismi collegiali che si muovono avendo come riferimento questi sei elementi portanti, dovrebbero riuscire a realizzare la confluenza tra responsabilità collegiale ed autonomia professionale, superando il paradosso (responsabilità collegiale = irresponsabilità individuale) che determina l’affollamento di soggetti titolari, il sovrapporsi di percorsi decisionali, aumentando a dismisura la confusione tra responsabilità "tecniche" e gestionali (chi fa che cosa) e l'ambiguità delle decisioni.
Sistemi di misurazione delle performance e controllo strategico – Balanced Scorecard: Le Balanced Scorecard sono uno strumento fornito al management per supportare e tradurre concretamente la strategia in azioni e risultati concreti. La metodologia trasla la missione e la strategia di un’organizzazione in una serie completa di misure di performance che forniscono un modello strutturato di misurazione dei risultati raggiunti.
La valutazione di tali risultati misura il successo dell’organizzazione attraverso quattro o più prospettive definendo i fattori critici di successo per ogni obiettivo scelto. Le prospettive di riferimento all’interno delle quali inserire gli obiettivi strategici individuati sono :
- prospettiva economico/finanziaria,
- prospettiva del paziente,
- prospettiva dei processi interni,
- prospettiva dell’apprendimento/crescita.
A queste quattro prospettive in relazione alle peculiarità dei servizi per la salute mentale, se ne possono aggiungere altre due:
- prospettiva etica,
- prospettiva del rischio.
Gli indicatori di performance individuati consentono di misurare non solo risultati economico-finanziari, ma anche progressi nelle competenze, nell’acquisizione di valori immateriali necessari per lo sviluppo e nel miglioramento continuo dell’attività erogata.
I benefici derivanti dall’introduzione della metodologia delle Balanced Scorecard possono essere così sintetizzati:
- allineamento degli indicatori chiave di performance alla strategia e ai vari livelli dell’organizzazione, conseguendo attraverso un processo di condivisione risultati concreti per ogni obiettivo prefissato,
- (di conseguenza) facilitazione nella comunicazione e nella comprensione della missione, della visione e della strategia.
Il processo di attuazione delle Balanced Scorecard segue gli step previsti dalla metodologia, con una prima fase di training e una successiva fase di discussione all’interno dei vari team per individuare gli obiettivi strategici, i fattori critici di successo e gli indicatori di performance relativi. Tra i risultati più attesi, oltre al coinvolgimento di varie figure professionali all’interno delle Unità Operative e alla loro responsabilizzazione nel raggiungimento dell’obiettivo prefissato, vi è l’emersione di fenomeni quantitativi ed organizzativi particolari e peculiari dell’organizzazione, che si potrebbero rivelare importanti per il miglioramento qualitativo dei servizi interessati e, quindi, delle prestazioni erogate.
La metodologia delle Balanced Scorecard può costituire lo "strumento" istituzionale di monitoraggio e valutazione dei progetti standard e di quelli più innovativi all’interno di un DSM, in quanto essa non si ferma ad una mera costruzione di un quadrante di indicatori, ma tende a permeare tutta l’attività dei sistemi complessi sovrastrutturali. In questo senso l’utilizzo più proprio di tale metodologia è caratterizzato da una implementazione della BSC a livello aziendale, con una ricaduta, a cascata, sulle organizzazioni complesse che la compongono.
Sistema premiante, come strumento per il raggiungimento degli obiettivi di efficacia, efficienza e qualità. Esso, sulla base di criteri prestabiliti e condivisi, consente ad ogni operatore di sentirsi attore e non spettatore dei processi di miglioramento e dei risultati raggiunti e si caratterizza per l’individuazione dei punti di "eccellenza" e di quelli di "debolezza", per la conseguente gratificazione dei primi e la correzione incentivata degli errori, con un meccanismo che, a cascata, interessa tutte le risorse umane dell’Unità Operativa o del gruppo di lavoro (in caso di progetti trasversali). Con sistema premiante si intende "l'insieme dei premi, non premi (ovvero dei premi non dati) e delle sanzioni, che vengono erogati alle varie figure […]" .Le organizzazioni realizzano il sistema premiante al fine di incentivare i comportamenti auspicabili e di scoraggiare i comportamenti non desiderati. Spesso il termine premio e punizione è sostituto dal termine di incentivo e disincentivo: il primo può essere definito come uno stimolo proveniente dall'ambiente lavorativo, esercitato sulle fasi del processo motivazionale, che soddisfa i bisogni dell'individuo e favorisce comportamenti funzionali all'azienda; al contrario, i disincentivi, pur avendo la stessa natura degli incentivi, determinano una spinta ad astenersi da comportamenti ritenuti non funzionali all'azienda.
L'efficacia del sistema premiante si definisce per mezzo di alcuni indicatori, tra cui:
- gradualità nell'erogazione dei premi, che deve essere sufficientemente differenziata, e tempo di erogazione, che deve essere sufficientemente lungo;
- durata nel tempo dell'effetto motivante;
- l'appetibilità del premio da parte della maggior parte dei membri dell'organizzazione;
- la chiarezza del rapporto fra comportamenti desiderati, comportamenti attuati e premi o sanzioni applicate."
L’utilizzo corretto di un sistema premiante presuppone la completa autonomia tecnico-gestionale del DSM, che consente di puntare alla integrale valorizzazione delle risorse umane e di attribuire a queste piena capacità operativa, nonché di disegnare un’organizzazione dipartimentale che riconosca il primato del merito e della capacità. In sede di accordi di budget verranno stabilite le caratteristiche quali-quantitative delle attività da realizzare, la quantità delle risorse a disposizione, i sistemi incentivanti o sanzionatori, gli eventuali meccanismi di revisione ed assestamento dei medesimi.
Carta dei servizi: la carta dei servizi del DSM costituisce uno strumento operativo molto importante sia nei confronti del cliente-utente, sia nei confronti dell’intero sistema dei servizi sanitari e sociali. Essa, però, non deve essere intesa come un semplice strumento di informazione, ma come un elemento portante della funzionalità dell’organizzazione dove vengono individuati gli elementi di raccordo tra modalità operative integrate, i contesti organizzativi e funzionali, nonché tutti i progetti integrati con modalità e tempi di realizzazione. Per questo motivo la "carta" necessita di un periodico e continuo aggiornamento, oltre ad un sistema di diffusione quanto più capillare possibile per consentire a chi ne abbia necessità di avere ogni informazione necessaria sia attraverso le reti formali che quelle informali. I vettori della diffusione più significativi sono costituiti, certamente, dal medico di medicina generale (vera interfaccia tra pazienti e DSM), dalle istituzioni non sanitarie (Comuni in primis) e dall’associazionismo. Per questo motivo è consigliabile una carta con doppia stesura: una, più semplice, di carattere informativo da distribuire direttamente ai pazienti ed ai familiari ed un’altra, più particolareggiata, di carattere organizzativo-funzionale dove vengono specificati modalità, percorsi, integrazioni funzionali, normative, etc…, che andrebbe invece diffusa alle istituzioni ed alle agenzie.
Etica nei servizi per la salute mentale: l’etica è una misura di valore, intendendo con questo "che non si possono descrivere in astratto comportamenti etici o non etici, l’etica è l’arte della convivenza e, in quanto tale, se ne può solo avere una esperienza olistica: osservare il proprio comportamento in una situazione data e sperimentarne il vissuto personale in relazione a valori che, in quanto tali, non possono che essere personali. (A. R. Ravenna. "La relazione d’aiuto: pratica etica e vincoli – "Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia", n°1 gennaio – febbraio 2003, pagg. 38-43, Roma)
L’impostazione "etica" di un DSM, oltre che rappresentare uno "strumento", costituisce una risorsa importante per lo stesso, definendo "il" modus operandi" di ognuno degli operatori che ad esso afferiscono.
Il vero processo di definitivo superamento dell’"istituzione" come logica di comportamento e sostrato culturale ed organizzativo, si fonda su principi generali di etica, attraverso i quali è possibile costruire una "carta etica" dei DSM.
In questo senso, un interessante elemento di riferimento può essere costituito dalle raccomandazioni e gli orientamenti proposti per la psichiatria dal Comitato Nazionale di Bioetica nell’anno 2000, di cui di seguito riassumiamo quelli di specifica competenza dipartimentale:
-dare maggior diffusione a informazioni semplici e corrette sulle malattie mentali anche nelle scuole ed evitare il rischio di interpretazioni riduzionistiche della malattia mentale; -concludere il processo di superamento dei manicomi pubblici e privati. -assicurare alla famiglia un supporto sufficiente ad assumere, in collaborazione con l’equipe curante, se indicato, un ruolo attivo nel programma terapeutico/riabilitativo del congiunto, in un percorso di autonomizzazione dello stesso. -garantire una organizzazione di riferimento, anche notturno e festivo, per le emergenze. -svolgere un’attività continua di prevenzione primaria e secondaria del disturbo e del disagio mentale/affettivo a cominciare dagli aspetti biologici e affettivo relazionali partendo dal periodo perinatale e per tutto il ciclo di vita, assicurando le migliori condizioni educative, lavorative, di sicurezza sociale, di assistenza sanitaria; -formulare una diagnosi precoce e presa in carico dei giovani dai primi sintomi significativi; -attivare qualificati programmi nelle scuole in collaborazione con le famiglie che, senza suscitare ingiustificati allarmi e rischi di "psichiatrizzazione", aiutino a riconoscere e a prevenire il disagio e il disturbo mentale; -garantire una particolare attenzione ai segnali diretti e indiretti del disagio mentale dei soggetti in età evolutiva, al fine di rilevare il disagio sommerso; dare garanzia di diversi livelli di assistenza delle situazioni acute e la riabilitazione per i quadri consolidati. Per l’età evolutiva, favorire le attività assistenziali di day hospital e di ambulatorio, limitando il ricorso alla degenza; -garantire un numero adeguato di posti letto per l’emergenza-urgenza psichiatrica e per le acuzie che richiedono assistenza continua e osservazione prolungata, in strutture, diverse dai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, idonee alle necessità assistenziali e di protezione, ma anche ai bisogni e ai diritti specifici di questa fascia di età; -garantire e mantenere la presa in carico dei casi più gravi e difficili anche quando il trattamento non viene accettato dai diretti interessati; -accrescere le conoscenze bioetiche di tutti gli operatori e definire alcuni obiettivi minimi affinché una formazione possa dirsi efficace ed eticamente fondata; -prevenire, attraverso strutture e interventi adeguati, il rischio che i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura reiterino la prassi manicomiale con la conseguenza di favorire la cronicizzazione e non il recupero della malattia; ……….In questo contesto di ragioni, i termini federalismo, regionalismo e localismo significano l’assunzione di responsabilità piena da parte degli amministratori e dei manager delle Aziende Sanitarie rispetto alle garanzie da dare per le attività di salute mentale in tutte, nessuna esclusa, le comunità locali. (Comitato Nazionale di Bioetica — 24 nov. 2000) |
Ma i principi generali debbono essere calati nella pratica quotidiana di ognuno, affinché non rimangano una bellissima dichiarazione di intenti che gratificano, forse, in sede progettuale, ma che non sono capaci di realizzare un processo di cambiamento di logiche e modalità di relazione. Noi crediamo che il solo fatto di porre il "problema" dell’eticità dei comportamenti di ognuno degli operatori dei DSM sia un fatto di fondamentale importanza: da questo dovrebbe derivare una complessiva impostazione del sistema "eticamente" orientato, in maniera che lo stesso possegga in sé quei principi di base cui tutti dovrebbero uniformarsi nel loro operare quotidiano. Come detto un primo passo potrebbe essere costituito dalla realizzazione di una "carta etica del DSM" (l’UUSL n.7 di Treviso ne ha pubblicato recentemente una versione on-line in http://www.salutementale.ulss7.it). Ulteriori momenti sono certamente rappresentati, dalla formazione, dall’inserimento nelle griglie di valutazione di indicatori specifici, dall’attenzione all’eticità dei comportamenti dei singoli operatori da parte dei dirigenti, etc.
CONCLUSIONI
All’interno di un contesto normativo confuso e molto generico, la gestione dei servizi per la salute mentale presenta un alto livello di complessità legato soprattutto alla atipica collocazione della psichiatria all’interno delle discipline mediche: dal dopo-manicomio in avanti è stato tutto un fiorire di "tentativi" normativi di realizzare un sistema di servizi che si dimostrassero adeguati alle diverse tipologie di utenti, rispettosi delle esigenze della società e delle famiglie, capaci di aver riguardo delle diverse professionalità.
Il ruolo degli attori coinvolti nel difficile processo di superamento del manicomio ha certamente posto in piena luce la necessità di ridefinire gli ambiti di responsabilità, nel passaggio dal modello gerarchico tipico dell’istituzione manicomiale, a quello organizzativo-funzionale proprio delle organizzazioni complesse.
L’evenienza che il DSM presenti fisiologicamente un altissimo grado di complessità, comporta la necessità di rivedere gli stili di comando, assumendo come principio base che è necessario che tutti gli attori sappiano e possano acquisire le competenze necessarie per fornire un apporto consapevole alle funzioni di programmazione, gestione e valutazione integrata delle attività.
Per fare ciò è necessario mettere in discussione modelli mentali consolidati, cercando vie e modi per superarli. Ci si riferisce in particolare, alle concezioni antagonistiche rispetto agli interessi di tutti i soggetti coinvolti nel sistema (primi fra tutti i pazienti); all’utilizzo di strumenti e modelli di tipo statico (come sono i modelli e i ragionamenti atemporali di ricerca di soluzioni massimizzanti il profitto), in luogo di approcci di tipo dinamico; ai modelli e stili di leadership del tipo "comando e controllo" (che sono tuttora diffusissimi e costituiscono una formidabile barriera alla costruzione di un "sistema del valore" imperniato sulla triangolazione "soddisfazione dei clienti-valorizzazione dei dipendenti-creazione di valore per l’azienda").
Purché non abbiamo dimenticato il principio base che il detto di Manfred Bleuler esplicita chiaramente: "….., ricordati sempre che sei un impiegato assunto dai tuoi pazienti." Alla fine sono essi che stabiliranno se o no la psichiatria sopravviverà nel mercato dei servizi.
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