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Otello e il suo delitto: violenza passionale e delirio di gelosia in un caso clinico

6 Feb 13

Di nanni.sabino

Si ritiene, comunemente, che un vero e proprio suicidio o un suicidio mancato per puro caso presentino dinamiche e motivazioni che li distinguono, in gran parte, da un semplice "tentato suicidio". Tra le altre caratteristiche, è molto probabile che i primi, nella loro maggior determinazione distruttiva, si avvicinino molto più del secondo all’omicidio. Può, quindi, costituire oggetto d’interesse per lo studio non solo dei suicidi, ma anche dei delitti passionali in genere, il caso di un suicidio mancato per ragioni fortuite, che ora presenterò.

 

Storia clinica Conosco da molto tempo il paziente, che ho chiamato Italo, su cui ho già scritto in due precedenti occasioni [8, 9]. Italo soffre da 24 anni di un "Disturbo Delirante cronico, Tipo di Gelosia" [1] esordito poco prima che c’incontrassimo. In questo periodo il paziente ha presentato tre episodi di riattivazione delirante, in occasione di relazioni sentimentali per lui significative, di cui ho avuto modo di seguire direttamente il primo e l’ultimo. Poiché, in rapporto ai progressi compiuti da Italo nella prima tranche di cura, egli non ha più manifestato né ideazione suicidaria, né tendenze violente di altro tipo, è sull’episodio iniziale che tornerò a soffermarmi, allo scopo d’individuare le specifiche caratteristiche della sua vita soggettiva di quel primo periodo che l’hanno portato a cercare la morte. Riporto qui, con poche modifiche, quanto scrivevo sugli inizi della sua malattia in una pubblicazione di qualche anno fa [9]:

"…Italo, prima del drammatico inizio della sua malattia, poteva sembrare una persona felice: giovane [aveva, allora, 27 anni], colto, economicamente agiato, dotato di notevole bellezza e grande fascino agli occhi delle donne, divideva il suo tempo libero fra attività sportive e innumerevoli conquiste di ragazze seguite da relazioni di breve durata. Il suo malessere iniziò a comparire quando, per la prima volta nella sua vita, nacque un rapporto sentimentale serio e duraturo. Questa ragazza gli appariva "perfetta" nell’aspetto, nei modi e nei "preziosi consigli ed insegnamenti" che presto iniziò ad offrirgli, di cui il paziente aveva cieca fiducia. Con lei Italo intravide, proiettandola nel futuro, una felicità che fino allora gli era rimasta sconosciuta e si accorse di quanto meccanico e sostanzialmente privo di piacere fosse stato il suo precedente rapporto, quasi esclusivamente sessuale, con le donne; ma, con la stessa fidanzata, Italo trovò ben presto un tormento per lui del tutto nuovo: una continua, apparentemente ingiustificata, ma indomabile inquietudine riguardo al suo futuro con lei. Avvertiva, all’inizio, una vaga insoddisfazione come se esistesse, nella vita della sua ragazza, un qualche aspetto del tutto irraggiungibile per lui. Talora la fidanzata gli pareva completamente fredda anche sul piano sessuale e questo, ogni volta, gli suscitava un intenso sconvolgimento. Gradualmente crebbe in Italo il sospetto che lei stesse riservando a qualcun altro quello stesso calore e quell’affetto che sembrava negargli. Non lo turbava tanto l’idea, di per sé, che la fidanzata potesse avere una relazione con un altro quanto, piuttosto, il non esserne a conoscenza. Per questo motivo Italo continuava a tormentare la ragazza insistendo perché gli confessasse i "tradimenti" e promettendole che non ci sarebbe stata alcuna ritorsione da parte sua. La fidanzata, già di per sé incline alla pseudologia fantastica, iniziò allora ad alimentare con le sue bugie il delirio di gelosia del paziente. Il principale "rivale" fu individuato nel miglior amico di Italo e l’aver "scoperto" (spostato) in costui la fonte della persecuzione che egli collegava alla freddezza della ragazza, gli restituì un temporaneo sollievo. Presto, però, fu chiaro che l’amico non tollerava l’aggressività (benché espressa in forma puramente verbale ed allusiva) del paziente e quest’ultimo ricadde, perciò, in una grande disperazione da cui era convinto di non potersi mai più risollevare.

Fu trovato del tutto casualmente in un bosco a qualche distanza dalla sua abitazione [in un luogo e ad un’ora in cui era impossibile prevedere il passaggio di qualcuno]; era in stato comatoso per aver ingerito veleno per topi da lui trovato tra le cose custodite dalla madre. Soccorso e ricoverato prontamente in ospedale, fu qui che lo conobbi e, appena ne fu in grado, iniziai con lui, in una serie di colloqui, a ricostruire la sua storia. Emerse subito una vita affettiva tormentata, soprattutto riguardo al rapporto con la madre. La donna, dedita in modo esclusivo alla gestione dell’azienda di proprietà della famiglia, non fu vista neppure una volta in ospedale durante la degenza di Italo. Il fratello maggiore mi confermò una completa assenza di contatto emotivo da parte della genitrice, descritta come "dura, aspra, mascolina": quando, ad esempio, ella nutriva col biberon il piccolo Italo di pochi mesi, non tollerando alcun contatto fisico col bambino, lo teneva a distanza. Nella sua ricerca d’affetto, il paziente aveva dovuto rivolgersi al padre (uomo dalla "dolcezza e tenerezza femminea", ma debole e spesso depresso, deceduto due anni prima) ed al fratello, piuttosto contraddittorio ed ambivalente verso di lui. Italo, fino all’epoca dell’adolescenza, era stato soggetto ad esplosioni di collera nei confronti della madre; esplosioni che, ricomparse all’epoca dell’esordio della malattia ed in rapporto al gesto autosoppressivo, egli riprodusse anche nel rapporto transferale alla vigilia di periodi di separazione dal terapeuta.

Nel corso della cura fu possibile chiarire il significato difensivo dei vari aspetti dello stile di vita del periodo precedente la malattia, il cui scopo era evitare un effettivo contatto con la propria vita affettiva e soprattutto le sue reazioni alla frustrazione, vissuta come persecuzione intollerabile. Gli innumerevoli, brevi rapporti con le ragazze avevano il duplice scopo di frammentare la sua dipendenza da loro (in modo che nessuna in particolare acquisisse valore per lui) e, nello stesso tempo, attuare un capovolgimento delle parti attraverso l’identificazione con l’aggressore. Italo, cioè, rendendo ciascuna ragazza "una delle tante", quindi non molto importante per lui, creava rapporti di forze più favorevoli alla seduzione; divenuto, perciò, "padrone" del rapporto, poteva, all’occorrenza, assumere il ruolo di chi frustra e delude e, quindi, far vivere all’altra, al posto suo, quelle stesse pene d’amore da lui tanto temute. Nelle sue attività sportive, piuttosto pericolose, Italo metteva in atto una sorta di sfida contro la natura, vissuta a livello profondo, al di là di una facciata idealizzata, come madre ostile; dimostratosi, quindi, padrone della situazione, egli si rassicurava per un certo periodo. Nello stesso tempo, l’attività muscolare produceva su di lui l’effetto di migliorare temporaneamente la cenestesi ed i rapporti, in genere difficili, col suo corpo.

Durante il trattamento, si alternavano e talora convivevano, a due distinti livelli, un rapporto transferale con un terapeuta-padre o fratello maggiore ed uno con un terapeuta-madre. Per lo più si trattava di traslazioni a carattere positivo: il terapeuta-padre vissuto come confidente e saggio consigliere capace di condurlo ad un rapporto più sicuro con le donne; il terapeuta-madre visto come persona capace di accudirlo e di prendersi adeguatamente cura del suo corpo. [Anche nelle successive occasioni, il rapporto transferale si mantenne del tutto simile]. Sotto il benefico influsso di queste due immagini genitoriali positive, quelle persecutorie (il rivale che insidiava la sua ragazza, la donna frustrante) passarono gradualmente in secondo piano. Italo riprese coraggio e, dopo aver allentato e poi sciolto il legame con la fidanzata, ripristinò uno stile di vita simile a quello precedente la malattia. Qualche importante differenza segnala l’influsso di una maggiore consapevolezza dei suoi problemi e di un miglior contatto coi propri affetti: il rapporto con la natura, nelle attività sportive, divenne meno pericoloso e si arricchì di una componente di piacere; le sue brevi relazioni con l’altro sesso acquisirono o accentuarono una sfumatura riparativa: prediligeva, ora, donne sfortunate e infelici, spesso belle, ma sul punto d’iniziare a sfiorire, e gli piaceva far loro dono, quale atto consolatorio, della gioia di sentirsi ancora ammirate e desiderabili. Molto importante è la consapevolezza, acquisita da Italo, della sua difficoltà (quasi certamente impossibilità) di amare "anima e corpo" una donna; questo gli consentì, in due successive occasioni [prima della comparsa della seconda riattivazione delirante], di cercare nuovamente il terapeuta e di fermare sul nascere un rinnovato malessere prodotto da complicazioni sentimentali. [La stessa consapevolezza gli consentì, nel corso dei due successivi episodi psicotici, di prevenire l’insorgenza di desideri di morte ponendo fine spontaneamente alla relazione sentimentale nel primo caso, e cercando il sottoscritto nel secondo: la sua coscienza di malattia, infatti, è limitata alla possibile comparsa di questi desideri ed esclude i sentimenti di gelosia] Dall’epoca della prima tranche di cura, [tranne alcuni tormentati amori episodici], gli affetti di Italo sono rimasti divisi tra le donne dei "flirt", gli amici e soprattutto la madre. Italo ha preso a dedicarsi a lei con tenerezza, come fosse una bambina, aiutandola [e, successivamente, sostituendola gradualmente e con grande tatto e delicatezza, per non umiliarla,] nel lavoro. [In epoca recente, essendo divenuta la donna invalida, egli l’assiste e sostiene, occupandosi affettuosamente di lei, con poco aiuto dagli altri parenti, senza chiederle nulla in cambio.]

Del resto, anche quando la genitrice era per Italo il prototipo della donna gelida e ostile, già allora egli riusciva a tratti a intravedere la povera bambina smarrita che aveva perso, a sua volta, la madre a pochi mesi di età…"

 

Evoluzione affettiva del paziente I vari settori della vita di Italo, nel periodo precedente la malattia, mostrano una sorta di disposizione "a scacchiera" con aree dominate dalla "addiction" ed altre in cui la stessa dipendenza estrema sembra essere accuratamente evitata. Alle prime appartengono le attività sportive e la ricerca continua di donne da sedurre quali mezzi per lui insostituibili per rassicurarsi ed alleviare le tensioni emotive. Nelle altre aree, al contrario, prevalgono le formazioni reattive o l’evitamento fobico riguardo a possibili oggetti o situazioni di dipendenza. In quest’ambito si collocano la sua rigorosa astinenza dall’alcol, dal tabacco e, in genere, dalle sostanze psicoattive, il suo rigido controllo sull’alimentazione, la sua paura di farmaci e cure, la sua preoccupazione, costante prima della malattia, di evitare relazioni sentimentali strette. In generale, in questo periodo, Italo si tiene lontano dalla possibilità di provare bisogno per altri esseri umani e da veri e propri rapporti interpersonali: con le donne egli cerca una conquista quasi esclusivamente sessuale e non una relazione approfondita, mentre dai conoscenti di sesso maschile, al di là di una facciata di affabilità e cortesia, lo tiene separato una tenace barriera di diffidenza. Nella prima fase, perciò, l’addiction si limita a quei settori della sua vita in cui egli si sente più in grado di padroneggiare la situazione e controllarla.

Con il destarsi dell’amore all’età di 27 anni, è evidente un momento di svolta nella vita affettiva del paziente: compare non solo un rapporto "a tempo pieno" con una ragazza, ma anche, più in generale, la prima relazione umana intensamente vissuta di cui Italo abbia memoria. Vedeva in lei, come s’è detto, "un’immagine di perfezione" ed accettava da lei, con "cieca fiducia", i "preziosi consigli ed insegnamenti" che lei sapeva offrirgli. In vivo contrasto con la diffidenza che caratterizzava i suoi precedenti rapporti, Italo dimostra, qui, una credulità, un’ingenuità ed una sottomissione del tutto infantili. E’ chiaro che, innamorandosi, il paziente era caduto in quella stessa addiction verso un essere umano che, sino allora, aveva accuratamente evitato. Che aveva evitato e temuto, ed a ragione: la sua ingenua certezza riguardo alla "bontà" dell’amata, la sua completa incapacità di dubitare su quanto da lei gli venisse detto o mostrato, il tipo di persona, cui lei apparteneva, e da cui Italo (come anche nelle due occasioni che seguirono) era selettivamente attirato; tutto ciò lo rendeva del tutto vulnerabile, completamente in balìa dell’altra. Con la piena collusione della ragazza, Italo aveva costruito di lei e del loro rapporto "un’immagine di perfezione" che, come tale, avrebbe potuto solo persistere indefinitamente oppure crollare del tutto, ma non modificarsi ed evolvere. Si trattava, perciò, di una situazione in ogni caso sfavorevole perché potenzialmente isterilente (se fosse persistita senza evolversi e senza consentire evoluzione) oppure, in caso di crollo (come effettivamente si verificò), pericolosa, soprattutto per Italo.

Con la comparsa del delirio di gelosia, il mancato suicidio e l’inizio del rapporto di cura con il sottoscritto, compaiono, nella vita affettiva del paziente, ulteriori novità. Innanzi tutto, Italo inizia a diffidare della fidanzata. Non lo fa con tutto il suo essere, ma è come se in lui coesistessero (e "disputassero", tormentosamente per lui) una parte ancora ciecamente fiduciosa ed un’altra dominata da sospettosità e malizia: una parte "Otello" ed una "Iago", come in molti malati dello stesso genere [2]. In secondo luogo, i rapporti con gli appartenenti al sesso maschile, che fino allora Italo aveva sostanzialmente evitato, divengono più vivi ed acquistano grande importanza: allo "amico-persecutore" che "insidia la sua ragazza" e che perciò il paziente (non senza conflitti) odia, egli, attraverso uno "splitting", contrappone il "terapeuta-padre" protettivo ed ispiratore di fiducia. Italo utilizza il primo allo scopo di salvaguardare (attraverso uno "spostamento della persecuzione") l’amata, ed il secondo al fine di proteggere il primo e se stesso dalla propria cieca distruttività. In terzo luogo, infatti, compare, dapprima nei confronti della fidanzata e dell’amico e poi della propria vita e di se stesso, quella collera cieca ed irrefrenabile che lo porta al (mancato per un caso) suicidio. Già manifestatasi in forma di accessi nei confronti della madre durante l’adolescenza, la sua collera compare anche nel rapporto transferale e costituisce, in questa prima fase, l’oggetto specifico e privilegiato del trattamento.

Nel periodo che segue la prima cura, la vita affettiva di Italo è caratterizzata dalle conquiste da lui acquisite nel trattamento, ma anche dai segni dei limiti del trattamento stesso. Tra questi ultimi, l’incompleto superamento dell’evitamento fobico di farmaci e cure. Diviene, sì, capace, richiedendo brevi interventi terapeutici sulla sfera corporea, di assumere temporaneamente una posizione difensiva "alexitimica", volta ad evocare il vissuto transferale di un intervento materno concreto, non simbolico (vale a dire privo di testimonianze di separazione) e, perciò, "buono"; ma si tratta solo di pause che il paziente interrompe prontamente appena ottenuto un poco di ristoro, perché subito torna a prevalere la paura. Ad esempio, non è ancora stato possibile aiutarlo ad accettare un trattamento farmacologico protratto e sistematico per l’ipertensione arteriosa di cui soffre, e questo costituisce forse l’aspetto più preoccupante della sua attuale situazione. Per lo stesso motivo, anche gli interventi del sottoscritto (quattro nell’arco di 24 anni) non hanno superato la durata di pochi mesi ciascuno. Non è stato, perciò, possibile analizzare approfonditamente lo splitting che caratterizza i suoi rapporti, la forza persistente dell’imago materna persecutoria, l’impossibilità di relazioni con l’altro sesso che non siano superficiali oppure tormentose. Tra i progressi, permangono migliorati rapporti con gli altri e con se stesso che portano Italo ad un seppur parziale superamento dell’addiction in cui era del tutto caduto all’epoca del suo innamoramento. Particolarmente importanti, a questo riguardo, il maggior controllo sulla collera ed il superamento dei desideri di morte, anche nei momenti più difficili. E’ soprattutto su quest’ultimo punto che mi soffermerò.

 

La rabbia primitiva Il lavoro terapeutico, nella prima tranche di cura, si è necessariamente focalizzato sulla cieca distruttività che, ricomparsa nei rapporti per lui più significativi (in un secondo tempo anche in quello transferale), aveva portato Italo al (mancato) gesto autosoppressivo. Al riguardo, riporto, qui, alcune sue associazioni di una seduta alla vigilia di un periodo di separazione dal terapeuta:

"…Oggi mi sento nervoso, tutto mi da fastidio e non so perché… sento che se mi pestassero i piedi potrei esplodere… A pranzo sono stato ben attento a farmi cuocere la bistecca da solo, prima che lo facesse mia madre, così ho evitato di esplodere con lei. [divenendo scuro in volto] Quella donna è tremenda: le ho detto mille volte che a me la bistecca piace ben cotta, non voglio vedere il sangue, non mi piace. Ma non c’è niente da fare: ogni volta se ne dimentica e non serve a niente che mi arrabbi e gliene dica di tutti i colori…Mi danno un fastidio enorme queste cose! Arrivo a non capire più niente dalla rabbia… Mi ricordo, da ragazzino, in collegio, c’era roba da mangiare che faceva schifo, e non c’era verso di farsene portare di meglio. Una volta mi sono infuriato, da non capire più niente, continuavo a urlare, a insultarli tutti, a tempestare di pugni tavoli e muri, tanto che si sono spaventati e sono andati a chiamare il direttore. Anche lui, vedendomi, si è impressionato e mi ha detto: "Va’ pure in cucina, ragazzo mio, prendi quello che vuoi, basta che ti calmi!"…Anche con la mia ragazza, a volte, mi arrabbio da non capire più niente, soprattutto quando facciamo l’amore e la sento fredda, e allora capisco che è andata con quell’altro…"

La situazione di separazione imminente evoca in Italo immagini di frustrazione orale: il sangue della bistecca sgradita (significativo del carattere lacerante del distacco e/o della sua stessa rabbia), il sapore repellente del cibo del collegio, luogo dell'esilio. Subito associa la frustrazione orale a quella sessuale e questa al "tradimento". Otello, per esprimere la sua furia cieca verso la "traditrice" Desdemona, usa anch’egli immagini di tipo orale: "I will chop her into messes…Cuckold me!" (La farò a pezzetti… Farmi cornuto!) [10, Atto IV, scena i, verso 196]; laddove "messes", significa più esattamente "porzioni di cibo".

E’ stata descritta, in pazienti esposti nell’infanzia a severa deprivazione affettiva e/o ad abusi (condizioni entrambe verificatesi nel passato di Italo, la prima ad opera della madre, la seconda da parte del fratello), una forma arcaica di aggressività definita, per il tipo d’immagini cui s’associa, "cannibalica" [11, pag. 86 e seg.]. Essa rappresenta la reazione primitiva ad una situazione estrema, in cui vengono a mancare traumaticamente le condizioni ambientali necessarie per la sopravvivenza del sé, con rischio di distruzione dell'identità separata e creazione di un legame irreversibile ai familiari "persecutori"; situazione denominata dagli Autori americani "soul murder" (assassinio dell’anima), termine coniato da von Feuerbach e ripreso da Ibsen, Strindberg e dal Presidente Schreber [12, pag. 2]. La vittima del "soul murder" può soccombere immediatamente, oppure sopravvivere sotto la minaccia di un "bisogno latente di auto-annientamento simile a quello della depressione anaclitica" [11, pag. 6]. Nei casi estremi, la rabbia "cannibalica", espressione di uno sforzo violento e primitivo di recuperare l’oggetto attraverso l’incorporazione, è descritta come "esperienza di divorare e, nello stesso tempo, d'esser divorato" (per simultanea identificazione con l'aggressore e con la vittima) che, "per l'intensità della proiezione e della scissione, minaccia di dissolvere i confini dell’io" [11, pag. 132]. Gli echi di questo vissuto si ritrovano, a mio avviso, nella "rabbia da non capire più niente" di Italo posto di fronte alla deprivazione affettiva, per lui sempre traumatica. Ancora più esplicito, a questo proposito, è Otello: "…Excellent wretch, perdition catch my soul, / But I do love thee, and when I love thee not, / Chaos is come again" (Straordinaria creatura! Ch’io sia dannato [perduto] / se non ti amo; e quando più non ti amerò / sarà di nuovo il caos) [10, Atto III, Scena iii, versi 91 – 93].

Le diverse, possibili manifestazioni cliniche degli esiti del "soul murder" riflettono la "tendenza a contenere oppure quella a ripetere il trauma, presenti in proporzioni variabili da caso a caso: psicosi, caratteropatia, criminalità, modalità ‘as if’ pseudo-normale" [11, pag. 6]. In Italo, le varie manifestazioni cliniche, espressioni di almeno tre aree distinte all’interno della sua personalità, riflettono modi differenti di affrontare o aggirare gli effetti del trauma. Una prima area "disaffettivo-alexitimica" riflette la resa e la sottomissione all’oggetto traumatizzante che implicano la rinuncia ad un’autentica vita soggettiva propria e l’addiction ad un oggetto o situazione del mondo esterno, necessaria per regolare le proprie tensioni emotive. Le altre aree: "fobico-ossessiva" e "psicotico-delirante", al contrario, riflettono lo sforzo di Italo di salvaguardare almeno alcuni aspetti del proprio mondo interiore attraverso l’evitamento della situazione traumatizzante e l’inibizione della tendenza a cercarla oppure, rispettivamente, la distorsione delirante della percezione del mondo esterno.

Schematicamente, l’area "fobico-ossessiva" predomina nel periodo anteriore all’innamoramento e alla comparsa della malattia manifesta. In questa fase, come s’è visto, l’addiction è limitata alle attività e situazioni che Italo riesce meglio a padroneggiare ed una forma d’equilibrio è, in questo modo, mantenuta. Un’addiction senza più freni verso l’oggetto d’amore caratterizza, al contrario, il periodo in cui Italo s’innamora della sua ragazza, come pure i due tormentati amori successivi. Predomina, qui, l’area "disaffettivo-alexitimica", caratterizzata da estrema dipendenza, con tutti i rischi che questa posizione comporta per la vita emotiva e corporea del paziente. L’intensità ed il carattere esclusivo dell’addiction, infatti, si rivelano le specifiche premesse di una devastante rabbia primitiva. L’insorgenza della gelosia patologica di Italo, sotto l’evidente influsso dell’area "psicotico-delirante", è da intendersi, a mio avviso, come tentativo estremo (in gran parte fallito) di reazione all’addiction ed alla sottomissione all’oggetto, ma soprattutto di controllo sulla rabbia primitiva. Qui autentiche esigenze interiori si manifestano come distorsione delirante della situazione. In sintesi: il lavoro terapeutico, focalizzato nella prima fase sulla collera incontrollabile di Italo, porta ad individuare, quale fattore scatenante, soprattutto la relazione d’amore qual era prima che si manifestasse la gelosia patologica ancor più che quest’ultima. Questo tipo di rapporto, da tempo individuato quale premessa della gelosia morbosa [5], merita, quindi, particolare attenzione anche nel caso di Italo.

 

L’amore patologico: il delirio di "amore e fedeltà" Da sempre Italo aveva fondato la propria notevole abilità di sedurre sulla capacità di cogliere nella donna, al di là della frequente facciata di spregiudicatezza e cinismo, le più tenere attitudini materne. Ponendosi come "creatura" idealizzata di una "mamma" anch’essa idealizzata, egli non mancava mai di suscitare un’attrazione irresistibile. Ma, con l’incontro della prima ragazza di cui s’innamora, Italo, come un’Armida in versione maschile, rimane vittima della sua stessa "magia": da "incantatore" egli diviene "incantato", completamente in balìa della ragazza. Costei, molto più delle precedenti, presentava "un’attitudine altamente materna", sentendo "come vocazione il compito di salvare l'uomo-bambino in difficoltà" [5, pag. 336], cioè le caratteristiche tipica della partner prediletta dal candidato alla gelosia patologica. Anche Otello, del resto, trova con Desdemona una partner del tutto simile: "Othello:…(…)…She loved me for the dangers I had passed / and I loved her that she did pity them…" (lei mi amò per le mie traversie passate ed io l’amai perché ne provò pena) [10, Atto I, Scena iii, versi 167 — 170]. Si tratta di un rapporto sbilanciato, dove i bisogni sono tutti da una parte, mentre le capacità di soddisfarli stanno dall’altra; un rapporto, quindi, regressivo. Regressivo e anomalo: non si tratta, infatti, di una relazione madre-bambino sana, capace di soddisfare i bisogni maturativi del piccolo e, quindi, di evolversi e far evolvere, ma di una situazione statica, sostanzialmente frustrante e isterilente. Innanzi tutto, per il tipo di idealizzazione che vi domina sovrana: quella di Italo nei confronti delle donne che ama, vale a dire dei sostituti materni, è uno degli esiti del "soul murder" della sua infanzia. Da bambino, egli non aveva la possibilità d’idealizzare la madre in modo sano, cioè isolando dai vari aspetti della genitrice quelli effettivamente a lui favorevoli ed accentuandoli; egli, al contrario, si aggrappava ad un’immagine materna resa "buona" da un’idealizzazione priva di basi reali, vale a dire da una mistificazione a carattere già allora delirante. Questo atteggiamento emotivo, divenuto reciproco nel rapporto con la fidanzata, priva entrambi delle possibilità di quell’arricchimento interiore che caratterizza un amore sano: vale a dire un "mirroring" e/o un contatto con un oggetto-sé idealizzato che, riferendosi ad aspetti autentici della personalità, ne favoriscono l’espansione e lo sviluppo. Al contrario, Italo, nel rapporto di una "creatura" idealizzata con una "mamma perfetta", trova solo la prigione di un "falso sé". Questo anche perché il rapporto con la fidanzata si rivela privo della capacità d’integrare quei "difetti" delle due personalità che inevitabilmente emergono in relazione alle vicende della convivenza: la "perfezione" non può tollerare "macchie" che inquinino la "purezza del rapporto". I difetti vengono sistematicamente disconosciuti, come pure vengono scotomizzate le "manifestazioni marginali d’infedeltà" [4, pag. 369] di entrambi, vale a dire quelle espressioni di rapporti con terzi (agite in una dimensione ludica o simbolica) cui, in una relazione amorosa sana, viene data poca importanza, pur essendo riconosciute nel loro significato. Tutte le manifestazioni, spesso le più spontanee ed autentiche, della sessualità maschile e femminile (gli sguardi, le espressioni, i gesti di fronte a una persona "che piace") vengono rigorosamente censurate. La stessa sorte subiscono i "doppi sensi" dei discorsi e ciò contribuisce a creare in Italo, come in Otello, una sorprendente, ottusa credulità. Egli, in questo primo periodo, appare completamente incapace di una visione critica della fidanzata e, quindi, del tutto vulnerabile di fronte alla parte "Iago" di lui stesso. Italo non sa a cosa attribuire l’insoddisfazione sessuale, che pure avverte vivamente, anche se i motivi di frustrazione dei desideri eterosessuali sono davanti ai suoi occhi. Lo stesso vale per i turbamenti omosessuali che la fidanzata gli sta provocando: la ragazza entra in tutti gli ambiti della sua vita (senza che Italo ne abbia fatto richiesta) risolvendo, con la sua maggior decisione ed al posto di lui, tutti i problemi, lo dirige, ha, nei suoi confronti, un ruolo attivo, protettivo, mascolino; ma Italo, che pure descrive tutti questi fatti, sembra non comprenderne l’importanza emotiva. Allo stesso modo, Otello pare accorgersi (negandone, nello stesso tempo, il significato) di un che di mascolino nell’indole e nel comportamento di Desdemona: "…she might lie by an emperor’s side, and command him tasks" (potrebbe stare al fianco di [giacere con] un imperatore e comandarlo a bacchetta) [10, Atto IV, Scena i, versi 180, 181]. Egli stesso aveva sperimentato la sicurezza con cui Desdemona ritiene di poter comandare anche lui "a bacchetta", come sottolineato, da parte di tutti, dalla ripetuta definizione di "forte" degli atti della donna. Già all’inizio della loro relazione, Otello si era espresso in modo significativamente ambiguo riguardo alla futura sposa: "…yet she wish’d / That heaven had made her such a man…" (… tuttavia ella desiderava / …) [10, Atto I, Scena iii, versi 163, 164] dove l’ambiguità di quel "her" (inteso come dativo, significherebbe: "che il cielo avesse fatto per lei un tale uomo"; come accusativo: "che il cielo avesse fatto di lei un tale uomo") rimanda a qualcosa di maschile che il Moro pareva già aver intuito nella fidanzata. Eppure, nemmeno una volta Otello sospetta che un suo turbamento, di fronte a questa mascolinità continuamente evocata, possa contribuire a creare in lui malanimo verso la moglie.

Riassumendo: il rapporto patologico d’amore di Italo con la fidanzata, come quello di Otello con Desdemona, si fonda su di un modo reciproco di considerarsi che, per la rigidità e l’impermeabilità all’evidenza dei fatti, può essere definito già a carattere delirante: più esattamente un delirio di "amore e fedeltà" da cui emerge successivamente quello di gelosia. Questa relazione si situa ad un livello regressivo, suscita nel paziente attese grandiose di appagamento di desideri bisessuali e di bisogni narcisistici profondi, ma, nello stesso tempo, lo frustra e lo relega nel carcere di una rappresentazione di sé completamente falsa, divenendo egli come un bambino incapace di comprendere la situazione e di difendersi. Questi molteplici motivi di frustrazione alimentano la rabbia di Italo, una rabbia di tipo primitivo perché viene ad essere evocato dalla regressione e, nello stesso tempo frustrato, un bisogno di controllo onnipotente e totale del rapporto. La rabbia "cannibalica" di Italo, quindi, si configura come variante particolare della "rabbia narcisistica" arcaica, come la delinea la psicologia del sé [6].

 

Aspetti terapeutici: critica di un’impostazione "perbenista" Si è già parlato della comparsa in Italo, con il delirio di gelosia, di una parte "Otello" e di una "Iago". Accogliendo il suggerimento di un’Autrice francese recente [2], proviamo a considerare anche gli altri personaggi della tragedia shakespeariana quali personificazioni di parti di un unico mondo interno e a vedere quanto tutto ciò si applica al nostro paziente. Secondo questa analista, si tratta, con la sola eccezione di Iago, di parti sane del paziente o di rappresentazioni di altre persone con cui il paziente ha rapporti sani. In particolare, Otello, prima del "plagio", è considerato personificazione di un "io-realtà" evoluto, capace di percepire la moglie qual è veramente e quindi d’amarla senza ingiusti sospetti [2, pag. 145, 149]. Desdemona, infatti, è vista dall’Autrice come persona dotata dell’equilibrio e della capacità matura d’amare di chi ha superato i conflitti e le angosce dell’esperienza edipica [2, pag. 142]. In questa visione anche Cassio è animato da una devozione filiale priva di conflitti verso Desdemona ed Otello, in quanto considerato "personificazione della parte adolescenziale sana [del paziente] capace di elaborare l’esperienza edipica attraverso la rinuncia al rapporto incestuoso" [2, pag. 150]. Iago, al contrario, è visto come personificazione del settore narcisistico della personalità; si tratta di un "narcisismo ferito che nulla può sanare e che rifiuta d’essere sanato" [2, pag. 145]; egli, quindi, è animato dalla stessa, micidiale "rabbia narcisistica" arcaica che abbiamo visto in Italo. L’aggressione che egli compie ai danni di Otello e Cassio sarebbe, secondo l’Autrice, la rappresentazione drammatizzata del meccanismo patogenetico che conduce al delirio di gelosia: un "attacco intrapsichico all’io-realtà e, con esso, ad un mondo esterno capace di ferire con la gelosia e l’incertezza" [2, pag. 145, 146]. Infatti Iago, a differenza degli altri personaggi, non ha superato il conflitto edipico e, quindi, non tollera la gelosia e l’incertezza che caratterizzano tale fase evolutiva. Per lo stesso motivo, la dimensione simbolica e ludica in cui l’infedeltà può esprimersi sarebbe per lui completamente inaccessibile.

La strategia terapeutica che l’Autrice pare implicitamente suggerire è di rafforzare le parti "sane" (la parte Otello quale "io-realtà", quella Cassio "adolescenziale sana" e quella Desdemona quale rappresentazione "veritiera" dell’amata), mentre la parte Iago, legata ad un "narcisismo ferito che nulla può sanare e che rifiuta d’essere sanato", non può che divenire oggetto di auto-riprovazione e di repressione cosciente. Proviamo ad immaginare questa strategia terapeutica applicata su Italo. Innanzi tutto la parte Otello: si è visto come, all’epoca della nascita del suo primo amore (come dei due successivi), fossero comparse in lui credulità, ingenuità e sottomissione in misura tale da renderlo estremamente vulnerabile di fronte alla situazione e facile preda della parte Iago di lui stesso. Non diversamente accade al vero e proprio Otello della tragedia, caratterizzato da una "…free and open nature too, / That thinks men honest that but seems to be so: / And will as tenderly be led by the nose / As asses are…" (…indole franca e leale, / che crede onesto chiunque tale appaia / e si farà docilmente menare per il naso / come un asino…) [10, Atto I, Scena iii, versi 397 — 400]. E’ da sottolineare che Iago, con la sua consueta perspicacia, ha qui colto tutta la debolezza di Otello dovuta al carattere regressivo dei suoi affetti: non solo la credulità infantile, ma anche la vulnerabilità riguardo ai sospetti nei confronti della moglie, la totale impreparazione ad affrontarli. Quella del Moro, è infatti una "unbookish jealousy" (gelosia ingenua, da scolaretto) [10, Atto IV, Scena i, verso 101] che lo rende del tutto incapace di tollerare l’incertezza: "Othello:…No, to be once in doubt, / Is once to be resolved…" (Otello: No, essere una volta in dubbio è essere già convinto) [10, Atto III, Scena iii, versi 183, 184]. Anche per lui, quindi, "trifles light as air / Are to the jealous, confirmations strong / As proofs of holy writ…" (inezie impalpabili come l’aria / sono per il geloso prove inoppugnabili / come testimonianze del Vangelo) [10, Atto III, Scena iii, versi 327 — 329]. E’ chiaro che Otello, prima del "plagio", fonda la propria fiducia sulla moglie, non su un superamento, ma su una massiccia repressione o rimozione della propria gelosia edipica. Egli non riesce ad includere, nella sua percezione cosciente della coniuge, i segni d’infedeltà espressi in modo simbolico; perciò non ne può valutare la reale importanza e, di conseguenza, non riesce a crearsi di lei un’immagine convincente e inattaccabile. Un "io-realtà", quindi, del tutto inattendibile e che non viene affatto aiutato dall’immagine che Desdemona e la fidanzata di Italo offrono di se stesse.

Desdemona, esattamente come le partner di cui Italo s’innamora, sembra incapace di presentarsi in altra veste che quella della "mamma" che soccorre, consola ed accudisce lo "uomo-bambino" in difficoltà e questo non solo nei confronti di Otello, ma anche degli amici. Questo stesso fatto, paradossalmente, la porta a trattare in modo non empatico e inadeguato ogni nascente moto di gelosia del suo uomo [7]: avendo allontanato dalla coscienza la parte più strettamente sessuale di lei stessa, non sa comprendere né la sua stessa attrazione per Cassio, né la conseguente gelosia di Otello; tanto più che questi (un negro straniero e "parvenu") è facilmente intuibile che possa vedere in un bianco, aristocratico veneziano qual è Cassio (in una civiltà razzista e classista) un pericoloso rivale. Afferma Desdemona: "…my noble Moor / Is true of mind, and made of no such baseness / As jealous creatures are…" (…il mio nobile Moro è puro di cuore / ed immune dai meschini sospetti dei gelosi…) [10, Atto III, Scena iv, versi 22 — 24]. E’ questa una delle numerose occasioni in cui la donna dimostra tutta la sua cecità di fronte alla passione che sta così palesemente sconvolgendo il marito: tra gli altri motivi, qui è chiaro che l’immagine assolutamente idealizzata che ella si è creata di Otello, mette in ombra la reale natura dell’uomo, le impedisce di capirlo e di difendersi da lui. Quando il Moro, ormai chiaramente fuori di senno per la gelosia, insiste sempre più adirato che Desdemona gli mostri il fazzoletto (la cui perdita egli crede sia prova del tradimento), la donna non intuisce minimamente lo sconvolgimento del marito e, senza rendersene conto, lo alimenta sempre più rispondendogli con ripetute richieste di occuparsi del "povero" Cassio [10, Atto III, Scena iv, versi 82 — 95].

Un "dialogo tra sordi" dello stesso genere, ma un poco più complesso, si svolge tra Italo e la sua prima fidanzata. Costei, seguendo il principio di "assecondare il pazzo", gli raccontava di sue relazioni con altri. Ma quelle che la ragazza riteneva "pietose bugie" offerte al fidanzato (insieme alla rassicurazione che "tutto adesso era finito") per calmare l’inquietudine di lui, non facevano che esasperarla. In realtà, queste pseudologie fantastiche corrispondevano abbastanza chiaramente alle fantasie sessuali inconsce della ragazza (tra le altre cose, gli aveva accennato ad una relazione con il padre di lei!): credendo di raccontargli bugie, ella non faceva che rivelargli la verità circa il suo mondo interno. Come accade a tutti i paranoici, anche le proiezioni deliranti di Italo "non avvengono ‘nel vuoto’, dove non c’è nulla di somigliante a ciò che è proiettato, ma nelle manifestazioni esteriori dell’inconscio delle altre persone, verso cui il paziente ha stornato dal proprio la sua attenzione" [4, pag. 370, 371]. Le "bugie" della fidanzata, perciò, non facevano che confermare le proiezioni di Italo ed accentuare la sua certezza delirante di un tradimento ancora in corso; nello stesso tempo, le attenuazioni e le reticenze nei resoconti, dovute all’azione delle forze rimoventi della ragazza, creavano nel paziente la sensazione di non poter conoscere pienamente, e quindi porre del tutto sotto il suo controllo, ciò che avveniva tra l’amata e "l’altro". Anche Italo, come Otello, avrebbe potuto affermare: "Othello:…O curse of marriage, / That we can call these delicate creatures ours, / And not their appetites!…" (O maledizione del matrimonio / che noi possiamo chiamare nostre / queste delicate creature, ma non le loro voglie!) [10, Atto III, Scena iii, versi 272 — 274]. E’ qui rappresentata molto efficacemente la natura di questi rapporti fondati sul delirio di "amore e fedeltà": la moglie, come una madre ideale col suo bambino, "gli si da" completamente, mentre gli "appetiti", le pulsioni sessuali-genitali (potenzialmente adulte) della donna, per azione della rimozione, sfuggono al controllo cosciente di lei e, di conseguenza, anche di lui. Si tratta di una contraddizione insanabile: Desdemona, per presentare al Moro l’immagine di madre idealizzata ed "immacolata" che lui vuole, deve soffocare la parte donna "sessuale" di se stessa; ma questo stesso fatto esaspera l’avidità regressiva inappagata ed inappagabile del marito-bambino, in quanto gli fa avvertire che c’è qualcosa di lei che sfugge al suo possesso.

Quanto all’autenticità dell’equilibrio esteriore di Cassio e del superamento delle rivalità e dei conflitti che l’Autrice summenzionata gli attribuisce, è sufficiente una breve considerazione: come può questo personaggio (e, con lui la parte di Italo corrispondente, capace di trattare in modo affabile e cortese gli amici) essere considerato "sano", nel momento in cui bastano pochi bicchieri di vino per scatenare in lui una litigiosità irrefrenabile? Iago, del resto, aveva previsto molto bene questo fatto, vale a dire si era reso conto perfettamente del carattere inautentico dell’immagine esteriore del "damerino".

E veniamo, ora a Iago: nessun dubbio che questo personaggio (come la parte Iago di Italo) è molto aggressivo, ma, viene da chiedersi, da dove trarrebbe la sua forza se non dalla vulnerabilità delle sue vittime? Vale a dire, se si accetta il suggerimento dell’Autrice francese, dalla debolezza di quelle stesse parti del paziente che ella ritiene "sane". La stessa Autrice accosta Iago al Satana di Milton, capace di volgere "il bene in male" [2, pag. 145]. Ma di che "bene" si tratta? La funzione grandiosa di Satana non è sempre stata, nella Religione, nella Mitologia, nell’Arte, di smascherare la corruzione e le meschinità umane quando esse si travestono da virtù e da amore? Cioè di far emergere il male sottostante un "bene" fragile ed inautentico?

Se la parte Iago-Satana di Italo fosse stata completamente zittita (magari anche tramite un trattamento farmacologico antipsicotico non integrato in un intervento più ampio), al paziente non sarebbe rimasta che un’alternativa al delirio di gelosia: soffocare la contraddizione insanabile del rapporto con la fidanzata irrigidendo il proprio falso sé, vale a dire rafforzando la propria area disaffettivo-alexitimica ed il delirio di "amore e fedeltà". Sono note le complicazioni psichiatriche e mediche generali che tale condizione comporta: possibile ripiegamento del paziente dall’addiction nei confronti del(la) partner ad altre, in particolare a quella per una sostanza (se si tratta di alcol – anche grazie agli effetti disinibitori e deterioranti di questo tossico – possibile ritorno al delirio di gelosia) e/o possibili somatizzazioni: a quest’ultimo proposito, segnalo che l’ipertensione arteriosa "essenziale" è comparsa in Italo in concomitanza con una delle riattivazioni deliranti, nella fase di delirio di "amore e fedeltà". Si tratta, con ogni probabilità, di un modo in cui frequentemente si somatizza una rabbia narcisistica latente [6, pag. 652] che in Italo, purtroppo, non si è ancora riusciti ad analizzare compiutamente e a porre sotto il controllo della sua coscienza.

Se si pensa all’azione combinata delle somatizzazioni, delle addiction più diffuse (alcol, tabacco, eccessi o disordini alimentari) e del falso sé (che, privando della possibilità di attribuire all’esperienza un significato valorizzante, conferisce un carattere stressante ad attività e situazioni che sarebbero altrimenti sopportabili) si può facilmente intuire quanto pericolosa possa essere la permanenza protratta in una condizione disaffettivo-alexitimica che un delirio cronico di "amore e fedeltà" comporterebbe. Una pericolosità non minore, o almeno non molto minore, di quella che comporta il delirio di gelosia.

Ma cerchiamo di valutare più esattamente la fonte della pericolosità nel delirio di gelosia di Italo. Si è detto che l’aver "trovato", nell’amico, colui col quale la ragazza lo tradisce, produce su di lui un temporaneo sollievo. Fin qui, i vari aspetti del delirio sembrano attenuare la sua aggressività, ammansirlo. Vediamoli: innanzi tutto, l’attribuire alla fidanzata una relazione con una persona altamente valutata dal paziente nella sua sessualità maschile, restituisce a lei la sua piena femminilità. Questo costituisce, per Italo, un primo elemento di sollievo: più esattamente dai turbamenti omosessuali che la ragazza gli aveva sinora provocato. Se una presenza femminile è necessaria come protezione dall’omosessualità, è altrettanto vero che una presenza maschile preserva Italo dai rischi che per lui comporta un rapporto troppo intimo ed esclusivo con la donna. Come si riscontra tipicamente in questi casi [3, pag. 105, 106], l’appagamento voyeuristico del paziente di fronte alla fidanzata ed all’altro, lascia spazio ad un’identificazione proiettiva dei propri desideri femminili sulla ragazza come espressione del ripudio di essi, ma simultaneamente come fonte di soddisfacimento "per procura"; allo stesso modo, l’identificazione con l’amico appaga i desideri maschili edipici di "tradimento". Tramite la situazione, il mondo interno di Italo si riordina, essendo ristabilita una chiara distinzione tra i sessi (i due componenti della coppia) e le generazioni (da un lato la coppia, dall’altro il "bambino che guarda"): esattamente ciò che la famiglia d’origine non gli aveva offerto.

Unico punto debole della costruzione delirante, nella sua funzione difensiva e "protettiva": essa richiede che il paziente mantenga il senso di un controllo onnipotente sulla situazione. L’imbarazzo dell’amico e la reticenza della fidanzata ne producono il crollo e questo scatena nuovamente in Italo una rabbia narcisistica irrefrenabile. A far sì che essa si riversasse sul paziente stesso e non sugli altri due, credo sia stata l’assenza, da parte di questi, di veri e propri atteggiamenti espulsivi; ma il carattere irrefrenabile di questa forma d’aggressività rende probabile che, di fronte ad un passo falso di queste persone, essa avrebbe anche potuto volgersi in furia omicida.

Il trattamento, astenendosi dal porre in discussione il contenuto del delirio, si è incentrato sulla distruttività che, da un certo momento in poi, l’aveva pervaso. La successiva evoluzione del paziente conferma che "la trasformazione della rabbia narcisistica non è ottenibile tramite incitamenti diretti all’io ad aumentare il suo controllo, ma indirettamente, tramite graduale trasformazione della matrice narcisistica dalla quale essa nasce" [6, pag. 652 e seg.]. Nel caso di Italo ciò si è ottenuto soddisfacendo, almeno in parte, il suo bisogno di contatto con un oggetto-sé paterno idealizzato, capace di fargli da guida al "continente sconosciuto" del sesso femminile e con uno materno capace di accudirlo. Questo si è attuato accogliendo, tra i vari tentativi di idealizzare la persona del terapeuta, quelli che avrebbero potuto servire all’evoluzione del paziente. Nello stesso tempo, dimostrando sufficiente empatia soprattutto alle reazioni del paziente ai distacchi, si è potuto offrire ad Italo l’esperienza di un contatto con una persona affidabile abbastanza da non richiedere un controllo totale e "onnipotente". Sebbene incompleto, il lavoro psicoterapico è stato sufficiente a rendere la violenza di Italo non più cieca ed irrefrenabile perché unita abbastanza saldamente alla consapevolezza del suo bisogno narcisistico frustrato.

A questo punto, il paziente, alle due alternative di proseguire con un rapporto di gelosia oppure tornare ad un delirio di "amore e fedeltà", ne ha preferito una terza, la più sana: porre fine alla relazione patologica con la fidanzata. Quanto tale scelta sia sana ce lo dimostra, questa volta per contrasto, Otello: "…If it were now to die, / ‘Twere now to be most happy, for I fear / My soul hath her content so absolute, / That not another comfort, like to this / Succeeds in unknown fate" (…Se fosse l’ora di morire, sarebbe / il momento più felice; così completa / è, temo, la mia gioia, che nulla d’eguale / può avere in serbo l’ignoto destino) [10, Atto II, Scena i, versi 189 — 193]. Si tratta del momento in cui, all’arrivo a Cipro dopo un pericoloso viaggio che li ha divisi a lungo, Il Moro ritrova la sua Desdemona. Egli, in sostanza, dice: "Poiché l’ignoto destino può riservarci altre separazioni, allora, se la morte sopravvenisse ora che ci siamo ricongiunti, essa sarebbe un evento felice perché non ci lasceremmo mai più". La morte qui non è vista come separazione ineluttabile e definitiva, ma come definitivo e totale ricongiungimento. Si tratta di un’altra, importante caratteristica patologica che differenzia il delirio di "amore e fedeltà" dall’amore sano: mentre per quest’ultimo è possibile, almeno in casi estremi, porre fine a se stesso, cioè portare a compimento il lavoro del lutto e terminare, al contrario, nel tipo descritto di amore patologico la separazione non è possibile, nemmeno con la fine della vita. E’ questa la fonte maggiore della pericolosità di questo delirio: esso può essere causa di morte non solo per il tramite della gelosia patologica (da considerarsi come una delle sue possibili complicazioni), ma anche nel "suicidio a due", frequente negli adolescenti quando una forza esterna si oppone all’unione della coppia; oppure nel suicidio di uno dei due amanti se l’altro muore, come Romeo e Giulietta.

È fondamentalmente l’incapacità di cogliere nella morte l’aspetto tragico, proprio dell’esistenza di ciascuno, di una separazione ineluttabile, che fa compiere ad Otello l’atto finale della sua tragedia. Uccidendosi, dopo aver assassinato la persona che più amava, egli pronuncia le sue ultime parole: "I kissed thee ere I killed thee, no way but this, / Killing myself, to die upon a kiss" (Ti baciai prima d’ucciderti, non c’è altro modo, uccidermi e morire su di un bacio) [10 , Atto V, Scena ii, versi 359, 360]. Qui, chiaramente, vediamo le conseguenze estreme di questa forma patologica d’amore: produrre la morte anziché il perpetuarsi della vita.

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