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L’anziano e la sua famiglia: dimensione dello spazio e del tempo di U. Cammeo-G. Ferrigno-G. Nuvoli

3 Dic 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

 

Le patologie psichiche connesse all'invecchiamento si manifestano con disturbi psichiatrici, quali il delirio, la depressione e l'ansia e disturbi del comportamento, ad esempio l'aggressività fisica e verbale, le fughe da casa, il vagabondaggio, alterazioni del ritmo sonno-veglia, condotte alimentari o sessuali inappropriate.

I sintomi comportamentali, così frequenti nel paziente con demenza, si associano ai deficit cognitivi nel determinare la grave disabilità della persona, ma più dei deficit cognitivi provocano disagio sia nel paziente che nei familiari, causando una marcata riduzione della qualità di vita, e determinando spesso la decisione di istituzionalizzare il paziente.

Nella pratica clinica con il paziente anziano, osserviamo come i disturbi che più comunemente portano alla richiesta di valutazione psichiatrica siano le manifestazioni aggressive, più in generale le alterazioni del comportamento che portano l'anziano ad infrangere le regole di vita della famiglia, del reparto o della Casa di Riposo in cui vive, i disturbi dell'alimentazione, nella stragrande maggioranza dei casi rappresentati dal rifiuto di alimentarsi o da una alimentazione insufficiente.

In accordo con Gala e Chiesa (1) osserviamo come l'inevitabile riduzione delle capacità sensoriali, cognitive e prestazionali crei la premessa perchè nell'interiorità psichica della persona anziana si verifichi una peculiare modificazione della percezione spaziale e dell'esperienza integrata di spazio e tempo.

Lo spazio, inoltre, non deve essere inteso astrattamente, ma come spazio vissuto, caricato di significati emozionali e di ricordi, sperimentato attraverso le azioni ed il proprio corpo.

Sempre con Gala e Chiesa (2) osserviamo come l'anziano si chiuda allo spazio esterno ed assista alla senescenza del proprio corpo, derivandone una esperienza modificata di corporeità e di spazio-temporalità nella quale il tempo appare accorciato e gli spazi ridotti.

Vivere in uno spazio non vuol dire solo appartenervi fisicamente, ma modificarlo, determinarlo, in sostanza appropriarsene, realizzandosi nell'incontro con gli altri.

La spazialità deve quindi avere un " carattere affettivo " e permettere una possibilità relazionale.

Risulta quindi facilmente comprensibile la difficoltà della persona anziana ad adattarsi ai cambiamenti di abitazione, agli spostamenti d'ambiente od anche a semplici modificazioni della organizzazione della vita quotidiana.

Questa difficoltà nei confronti del cambiamento rivela il bisogno di abitare uno spazio familiare, non anonimo, circondato da consuetudini, usi ed oggetti che definiscano l'area di sicurezza ed il rispetto di sè stesso e della propria storia.(3)

Lo spazio è quindi anche spazio di relazione ed interazione, particolarmente evidente nelle situazioni comunitarie, dove esiste un continuo confronto tra il personale ed il paziente geriatrico.(6)

L'atteggiamento nei confronti della persona anziana, anche da parte di chi è deputato a funzioni di assistenza, tende spesso a metterne in evidenza la parte deficitaria e malata, generando un rapporto poco paritario e di necessità causa di frustrazione e di risentimento. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al disinvolto uso del " tu " da parte del personale ed alla eccessiva, dolorosa familiarità e disinvoltura con la quale vengono affrontate situazioni e tematiche emotivamente coinvolgenti, riguardanti il rispetto del proprio corpo, dell'intimità o dei propri segreti.

Osserviamo peraltro, come esista una analogia straordinaria nell'atteggiamento abitualmente mantenuto nei confronti dei soggetti disabili o dei pazienti psichiatrici e comprendiamo, quindi, come il ricovero in Istituto Geriatrico venga spesso vissuto e, di conseguenza rifiutato, come un esproprio totale della propria vita e della propria capacità decisionale, perdendo in maniera non reversibile la possibilità di autodeterminarsi e decidere rispetto al proprio codificato sistema di valori.

A scopo esemplificativo riteniamo utile proporre un episodio derivato dalla nostra attività clinica.

Vengo chiamato urgentemente in un reparto di Medicina dove un paziente di 80 anni, ricoverato per un acuto scompenso cardiaco, ha sferrato un pugno al volto di una infermiera che gli stava praticando le terapie.

L'ambiente di cura reagisce sempre, comprensibilmente, negativamente all'aggressività fisica, anche se a metterla in atto è stato un anziano. Il paziente, che alterna momenti in cui appare confuso ad altri in cui è lucido e critico, mi dice : " Preferisco morire a casa, tra le mie cose, piuttosto che essere perfettamente curato in un posto, come questo ospedale, che mi è estraneo."

Mi racconta, inoltre, di essere vedovo e che ritiene di " …avere la giusta età per morire; potrò scegliere dove o mi direte che ragiono poco, per cui deciderete al mio posto? "

I familiari, due figli ormai più che cinquantenni, convocati urgentemente, dopo aver discusso con i curanti i rischi ed i benefici derivanti sia dalla prosecuzione del ricovero che dal rientro a casa, decidono per la seconda scelta, organizzando una assistenza che li aiuti e, contemporaneamente, li sollevi dal prendersi cura del genitore a tempo pieno.

Anche nel lavoro con pazienti affetti da ritardo mentale e con le loro famiglie, si rileva la centralità del problema del trascorrere del tempo, in quanto sembra impossibile parlare di invecchiamento: questi pazienti non invecchiano perchè non crescono, le dimensioni dello spazio e del tempo sembrano subire una peculiare distorsione, lasciando le persone alla soglia dell'età adolescenziale.

La realtà invece è diversa, nel corpo infatti, luogo in cui inevitabilmente si compie il tempo, vediamo i segni di crescita ed invecchiamento: prima o poi, per le pazienti donne, si verificherà la comparsa di un ciclo – così come, prima o poi, questo scomparirà – più in generale in tutti i pazienti nasceranno domande, dubbi, desideri adulti….E tuttavia, un pò tutti continueranno a considerarli " ragazzi ", ed a chiamarli in questo modo, vestendoli come " bravi bambini " ed ignorandone la sessualità che nasce, che li turba e li agita…

Per questa via si costruisce una grande confusione di spazi, di tempi e di luoghi; a casa, dove spesso i pazienti non possiedono un luogo proprio, o dove i genitori continuano a dormire " con i loro bambini " cercando di non accorgersi che ormai sono grandi, che il tempo è passato, ma anche nelle comunità-alloggio, dove qualcuno penserà a scandire le giornate al loro posto, a sistemare le loro stanze, a scegliere i vestiti….Separarsi, accettare che i pazienti conducano la propria vita in una comunità alloggio spesso è un evento doloroso, rimandato quanto più possibile, a volte fino all'inevitabile momento di una ben più profonda separazione.

Anche per gli operatori può essere difficoltoso far crescere, nei loro pensieri, il paziente e giungere a considerarlo un adulto prima ed un anziano poi, senza stupirsi se un " ragazzo " di sessant'anni non ha voglia di sentirsi dire come vestirsi e cosa mangiare.

Così, non ci sono nè lo spazio nè il tempo per progettare una vita che cresca il più possibile verso l'autonomia, verso il riconoscimento dei pazienti come individui.

L'incontro con problematiche tanto complesse e coinvolgenti, quali quelle connesse all'invecchiamento, alla acquisizione ed alla perdita delle proprie capacità di autonomia, di necessità richiede, per gli operatori impegnati nel settore, grande sensibilità, ma anche la consapevolezza di operare tenendo profondamente conto delle esigenze e delle progettualità dell'altro, anche quando queste paiano poco condivisibili, od addirittura francamente patologiche, adoperando, quindi, empatia e rispetto ed arrogandosi il meno possibile decisioni gravi, qualche volta in grado di sconvolgere la vita degli individui.(4)

A questo proposito abbiamo ritenuto opportuno illustrare brevemente un secondo esempio tratto dalla nostra attività clinica.

 

Matilde e la mamma: una coppia inseparabile, due donne vissute sempre insieme, autonome e forse un po' isolate, in una vita di stretta relazione madre-figlia, a loro sufficiente.

La figlia, Matilde, è una donna voluminosa, quasi obesa, dal carattere duro ed autoritario, abituata a comandare ed a giudicare, che ha svolto per lungo tempo la professione di caposala. Non si è mai sposata nè fidanzata e parla degli uomini con superiorità.

Eleonora, la mamma, è dolce e remissiva, curva sotto il peso degli anni, con un sorriso bonario ed accattivante immancabilmente scolpito sul viso.

Quando Matilde va in pensione, Eleonora comincia a perdere le energie e le capacità necessarie alla gestione domestica, in questo scarsamente aiutata dalla figlia, per la quale i lavori di casa sono inutili e noiosi.

Lentamente, quasi senza accorgersene, le due donne vedono ridursi la propria autonomia, mentre la casa ed il loro tenore di vita decadono. Pian piano cominciano ad accumulare oggetti e la loro abitazione si riempe delle cose di tutti i giorni, che non vogliono o non possono buttare via.

Ecco quindi che gli spazi si riducono, alcune stanze non sono più utilizzabili, nel corridoio si passa a malapena tra due pareti di riviste e giornali accatastati.

A chi fa loro notare, garbatamente, la situazione, Matilde risponde immancabilmente che appena troverà un pò di tempo realizzerà una bella ripulita; ma questo tempo Matilde non lo troverà mai, finchè un nipote, esasperato, propone alle due donne di andare a vivere in una Casa di Riposo.

La figlia si ribella, si oppone con forza pensando di doversi separare dalla mamma ( " la mia piccolina ") e la situazione rimane cristallizzata per diverso tempo, cioè fin quando l'improvviso ricovero in Ospedale di Matilde per una urgente condizione medica , comporta il ricovero contemporaneo di Eleonora e svela ai protagonisti l'instabilità della situazione.

Intervengono nuovamente i nipoti ed in tempi brevi le due donne accettano di ricoverarsi in una Casa di Riposo, disponibile ad accoglierle entrambe.

Gli spazi tornano ad ampliarsi e la loro vita appare di nuovo senza fine, in una situazione dove riprendono il loro rapporto esclusivo, sempre insieme, alla notte in due letti vicini.

Le due donne, pian piano, conquistano il loro spazio in reparto ed il personale e le altre ospiti imparano a non intromettersi troppo nel loro mondo e nel loro rapporto.

Sembrano dividersi con facoltà diverse il tempo e lo spazio a loro disposizione; Eleonora, a cui sfugge ormai completamente il senso ed il ricordo del fluire temporale, cammina senza stancarsi per il reparto, avanti ed indietro, apparentemente senza meta, con il solo risultato di occupare col il suo incessante movimento lo spazio disponibile e lo sguardo attento della figlia.

Matilde, infatti, ormai non cammina quasi più, sovrastata dal peso e segue dal letto l'incessante andirivieni di Eleonora, ma conserva per entrambe la " funzione tempo " che consente loro di mantenersi in rapporto con la vita e gli orari scanditi del reparto; gli spazi non li usa praticamente più, sono di Eleonora quelli, ed a lei va bene così.

 

Pensare allo spazio per l'anziano vuol dire, secondo noi, pensare soprattutto ad una spazialità affettiva, nota, riconoscibile da parte della persona che ne fruisce, che consenta di mantenere viva la propria storia ed le proprie relazioni.

Istitutizzare, nel senso peggiore del termine, vuol dire, al contrario, negare il tempo passato, fermarsi su un presente spesso senza senso nè collegamento, facendo perdere alla persona anziana, con il suo mondo e con la sua storia, la propria identità.

L'atteggiamento degli apparati istituzionali, utili e spesso indispensabili, deve connotarsi per flessibilità e delicatezza nell'offrire aiuto ed accoglienza alle persone anziane, accettando l'estrema multiformità e diversità di storie e situazioni, avendo la necessaria consapevolezza del fatto che i progetti per la propria vita possono essere diversissimi, che la richiesta di inserimento in una Casa di Riposo, quand'anche perfettamente consapevole, risponde a domande ben più complesse che non il semplice accudimento, domande spesso poco consapevoli per la stessa persona anziana.(5)

Parlare del tempo è come parlare della vecchiaia, la funzione tempo la definisce, dolorosamente o fecondamente, in maniera diversa, qualche volta poco percettibile, ma sempre importante.

La vecchiaia è tempo che passa, anzi che è passato, oppure tempo che manca, oppure è tempo perduto nel senso di non partecipato o ricordato, quasi non vissuto, ma è anche tempo scandito, determinato, rigido in certe organizzazioni di vita istituzionali.

Il tempo è tuttavia anche una delle possibilità della vecchiaia, tempo per riposare e per ricordare, per meditare, tempo per insegnare, per testimoniare, quindi non solo tempo come perdita, malinconia ed oblio, ma come ricchezza, potenzialità e sviluppo.

Pensare, o meglio ripensare al tempo ed allo spazio nella senilità, consente di scoprire e di riappropriarsi di forme e dimensioni di vita in altro modo inevitabilmente perdute, necessarie e feconde anche per chi si occupa di terapia ed assistenza alla persona anziana.

Consentire ai pazienti di mantenere le proprie residue capacità decisionali, non espropriandoli in quanto anziani od anziani istitutizzati, permetterà anche agli operatori di non vivere in maniera totalizzante, onnipotente ed alla lunga eccessivamente gravosa, il rapporto con la persona anziana e con il suo bisogno di cura.

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