Ci eravamo già occupati del concetto di pseudodemenza insieme al Prof. Rossi, e siamo tornati volentieri ad occuparcene perché è in corso un interessante dibattito sull’argomento, che riguarda soprattutto l’appropriatezza dell’uso del termine pseudodemenza e il destino a lungo termine dei pazienti che ricevono una diagnosi di pseudodemenza.
Il discorso merita una introduzione terminologica, di definizione e di storia: con il termine di pseudodemenza in psichiatria si suole fare riferimento ad una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di sintomi simili a quelli presenti nelle demenze organiche (deficit cognitivi, riduzione delle capacità mnesiche, ipoprosessia, appiattimento affettivo e inerzia psicomotoria) tali da proporre seri problemi di diagnosi differenziale con i quadri di demenza, soprattutto nel paziente anziano al primo episodio. L’interpretazione tuttora prevalente chiama in causa la sottostante presenza di una depressione con disturbi cognitivi (pseudodemenza depressiva o depressione geriatrica con demenza reversibile; quest’ultimo termine è stato usato da Alexopulos) caratterizzata da prevalente rallentamento sul piano psichico, che si traduce nell’apparente compromissione delle funzioni psichiche superiori; tale compromissione tuttavia risulta del tutto reversibile (e questa è la più importante differenza con le demenze organiche), con la risoluzione del disturbo dell’umore. Le funzioni cognitive, in caso di pseudodemenza, non sono in realtà propriamente deteriorate, ma solo non esercitate, particolarmente l’attenzione e la memoria. In questo senso la pseudodemenza viene considerata come una modalità prevalentemente cognitiva di espressione della depressione (Demenza come artefatto della depressione secondo la Andreasen). L’importanza del termine di pseudodemenza sta quindi nell’assunto che la demenza non è effettiva o tuttalpiù è reversibile, e dunque trattabile. Vedremo che non sono la stessa cosa, pseudodemenza e demenza reversibile, in quanto demenza reversibile può anche essere un quadro organico, per esempio causato da ipotiroidismo e reversibile, che non corrisponde al significato fondamentale di pseudodemenza. La differenza più rilevante tra un disturbo organico e una depressione alla base di una sintomatologia di tipo demenziale è fondamentalmente prognostica. Mentre nel primo caso la prognosi è pessima e le possibilità terapeutiche sono ancora modeste, nel caso di un episodio depressivo la prognosi è in generale buona e le possibilità terapeutiche, sia farmacologiche che psicoterapiche, rilevanti. Risulta a questo punto evidente quanta importanza abbia una corretta diagnosi differenziale tra le due condizioni: la depressione può infatti essere curata farmacologicamente in tempi relativamente brevi, mentre, in caso contrario, l’errata diagnosi di demenza può per esempio indurre a confinare il paziente in luoghi meno idonei, e fare assumere ai familiari e anche ai terapeuti comportamenti inadeguati, rinunciatari, di resa, incongrui nei confronti del paziente stesso, situazione che può a sua volta aggravare la depressione e, talora, favorire il suicidio. La diagnosi differenziale della pseudodemenza deve prendere in considerazione anche altre condizioni cliniche che, sebbene meno frequentemente della depressione, possono rendersi responsabili di disfunzioni cognitive simildemenziali, quali l’isteria (Pseudodemence Isterique di Wernicke), i disturbi fittizi del DSM (Sindrome di Ganser, Sindrome di Munchausen) e la Simulazione di Malattia Mentale, la Schizofrenia e anche i Disturbi d’Ansia. Non bisogna poi trascurare il fatto che la demenza può manifestarsi inizialmente proprio con sintomi depressivi. E questo è un punto su cui la letteratura recente ha molto insistito. I due processi morbosi, demenza e depressione, negli anziani, possono facilmente sovrapporsi, per esempio in comorbidità, e non di rado la depressione è secondaria ad un sottostante processo psicoorganico, configurando una sorta di "copertura affettiva" depressiva o, meno di frequente, maniacale, di sindromi di deterioramento mentale (Giberti).
Da un punto di vista generale il termine di pseudodemenza è rimasto una entità nosologica abbastanza stabile in letteratura per più di cento anni; il concetto che condizioni neuropsichiatriche reversibili possano mimare disturbi irreversibili è acquisito dalla metà del XIX secolo. Tuttavia continuano a permanere controversie circa la validità e l’appropriatezza clinica di questo termine: ad esempio, il DSM IV chiaramente esclude fin dalla definizione la depressione come causa di demenza propriamente detta, mentre sono numerosi gli psichiatri che collegano i deficit cognitivi di questa condizione clinica alla stessa disfunzione cerebrale responsabile dei disturbi depressivi, sindrome demenziale depressiva, considerando dunque la pseudodemenza una vera sindrome demenziale anche se reversibile, oppure, ultimamente, una sindrome predemenziale. Può risultare utile ripercorrere alcune tappe della evoluzione storica del concetto, soffermandoci sui diversi quadri sintomatologici che i clinici hanno ritenuto più caratteristici del disturbo. Confidiamo in tal modo di dare un’idea della complessità dell’argomento e soprattutto di evidenziare gli aspetti clinici peculiari e i punti di contatto e di diversità con altre patologie neuropsichiatriche, con le quali la pseudodemenza può facilmente venire confusa: Demenze su base organica, Depressione, Disturbo di Conversione, Disturbi fittizi, Simulazione. Già Aristotele si occupò della melanconia, che riteneva una "disfunzione della struttura corporale" non patologica ma naturale, in accordo con alcune considerazioni di Ippocrate e precorrendo l’impostazione biologica della psichiatria. In seguito Rufo di Efeso, che descrisse la melanconia in termini non molto distanti da quelli utilizzati dalla moderna semiologia, introdusse l’importante concetto di "pseudodemenza malinconica", in cui i sintomi della demenza sono sostenuti esclusivamente da una disfunzione dell’umore. Alessandro di Tralle (526-606 D.C.), che ritenne le psicosi raggruppate con il nome di melancolia originate da una medesima disfunzione situata a livello ematico, parlò anche di "melancolia con cogitazio profunda" e di "melancolia reattiva", dovuta all’infelicità per la perdita dell’oggetto amato. Molti secoli dopo, Pompeo Sacco di Parma (1634-1718) descrive diversi casi di "melancolia con pseudodemenza", e Pinel, analizzando la "mania intermittente" che compare in alcune forme psicotiche ed epilettiche, parla di un meccanismo di "fuga nella malattia mentale", del desiderio cioè di diventare malati. "Solo l’infermità di mente potrebbe toglierli dalla loro situazione, e allora vanno soggetti a ciò che essi immaginano per infermità di mente" (ciò è riportato da Bumcke). All’inizio del nostro secolo alcuni medici e psichiatri militari, al fronte nella Grande Guerra, nell’analizzare le conseguenze psichiche dei traumi cerebrali, "sindromi psichiche da commozione", si accorsero di casi in cui, oltre alle turbe della memoria e ai quadri confusionali classicamente conseguenti ai traumatismi cranici, comparivano alterazioni caratteriali permanenti e/o un indebolimento mentale progressivo, Kraepelin le definì "demenza traumatica", mentre altri preferirono parlare, in questi casi, di "pseudodemenza traumatica" (Bumke, 1929), ritenendola un disturbo di natura psicogena. La reazione psicogena si andrebbe concretizzando attraverso l’elaborazione interiore del danno presunto e dell’indennizzo desiderato, con la finalità di raggiungere un beneficio: si tratterebbe cioè di una "simulazione incosciente" (Maglie, 1940), concetto analogo all’attuale Disturbo Fittizio, contrapposta alla Simulazione cosciente. Il rapporto con i traumi bellici, e più in generale con gli infortuni, ripropose le affinità con la Sindrome di Ganser e la pseudodemenza di Wernicke, avvicinando la cosiddetta "pseudodemenza infortunistica" (Bonhoffer) agli stati crepuscolari che si osservavano nella più ampia cornice dell’isterismo. Ganser (1898) descrisse la patologia che avrebbe poi preso il suo nome come una specie di "parodia della demenza": si trattava di detenuti in attesa di esecuzione, che si esprimevano con un linguaggio assurdo, evasivo, che evidenziava la perdita delle più importanti acquisizioni, anche le più elementari, a fronte di coscienza, comprensione ed orientamento apparentemente conservati. Se interrogati essi rispondevano in modo irragionevole, compiendo errori grossolani, fornivano risposte di traverso e a rovescio, apparivano disorientati con difetto della memoria retrograda, specie per i fatti che avrebbero potuto aggravare le loro responsabilità, e assumevano spesso un atteggiamento infantile, il "puerilismo isterico", irridendo gli altri pazienti o gli stessi sanitari; un esempio di questo classico meccanismo regressivo ci viene da Mc Dougall (1926) che, nel suo "Outline of abnormal psichology", cita il caso di un soldato australiano il quale, a seguito di un trauma occorsogli durante un bombardamento aereo, aveva perso il linguaggio e si alimentava come un poppante. In questi contesti spesso non mancava la caratteristica querulomania a colorito ipocondriaco presente in tanti traumatizzati. Ganser ritenne che l’origine di questo insolito quadro fosse da ricercarsi nell’angoscioso desiderio di trovare da parte del paziente una scappatoia, che però comportava una partecipazione affettiva tale al ruolo di malato, che egli finiva per vivere realmente in maniera incosciente, come in uno stato onirico, come se avesse perduto il raziocinio, quella condizione di infermità mentale che con tanta pervicacia aveva tentato di simulare. Diversi autori segnalano come sia di frequente riscontrabile tra i ganseriani un livello culturale ed intellettivo ai limiti inferiori della norma, se non francamente al di sotto, come a dire che il salto all’indietro potrebbe non essere in tali casi troppo impegnativo, partendo già essi da una posizione svantaggiata. I sei sintomi classici della sindrome di Ganser sono: risposte di traverso o alla rovescia o approssimate; coscienza alterata o obnubilata o stati sognanti o crepuscolari; sintomi somatici o di conversione; stretto rapporto con un recente trauma cranico, febbre tifoide oppure grave trauma emotivo; allucinazioni; amnesia per l’episodio. La sindrome di Ganser rispetto al DSM: nel DSM III R la sindrome di Ganser potrebbe corrispondere al Disturbo Dissociativo NAS o al Disturbo Fittizio con Sintomi Psichici. Nel DSM IV potrebbe appartenere ai Disturbi Fittizi con Sintomi Psichici Predominanti oppure a quello con Sintomi Fisici per via della presenza abbastanza frequente di sintomi di conversione. Un tentativo di classificazione dei quadri pseudodemenziali da parte di Lishman include Sindrome di Ganser, Pseudodemenza Isterica di Lishman, Demenza Simulata, Pseudodemenza Depressiva e altre forme (ipomania, schizofrenia, parafrenia, grave ansia, disturbo ossessivo). Ultimamente l’attenzione degli studiosi si è concentrata sulla pseudodemenza depressiva e sui suoi rapporti con la demenza di Alzheimer. Si parla di "interfaccia" tra depressione e demenza, si parla di demenze reversibili, ad esempio da ipotiroidismo, e ho trovato un articolo interessante che presenta un caso di pseudodemenza epilettica, in cui, curando l’epilessia è guarita l’apparente demenza. Diagnosi differenziale tra m. di Alzheimer preclinica e depressione: qui entriamo nella problematica attuale. Si tratta dei problemi di diagnosi differenziale tra la pseudodemenza depressiva e la malattia di Alzheimer. Questo editoriale di Reifler si presta a sintetizzare molto bene la discussione che c’è in questo momento tra gli studiosi della pseudodemenza. Vedete che già il titolo che vi sto mostrando è estremamente significativo: "Un caso di identità erronea, la pseudodemenza è in realtà una predemenza". Reifler ha una grande esperienza, e dice che anni fa aveva visto parecchi pazienti con alterazione mista delle funzioni cognitive e dell’umore, e osservandoli a lungo termine nella loro evoluzione, li aveva poi visti diventare dementi e questo dato sarebbe confortato da numerosi studi. Osservazioni fatte da altri a diciotto anni di distanza dicono che una consistente quantità di pazienti diventano dementi veri. Però Reifler ci fa sopra un ragionamento discutibile, e io ve lo propongo per discuterlo: dice che la depressione, anche con lievi deficit cognitivi, è meno spesso un imitatore che un predittore della malattia di Alzheimer. Cioè è più spesso un predittore che un imitatore. Fa riferimento ad un lavoro del 1989 di Kral che aveva notato come in un gruppo di 44 pazienti che avevano avuto una diagnosi di pseudodemenza depressiva, 39 di questi avevano sviluppato, nel follow up a lungo termine, una vera e propria demenza diagnosticabile. Quindi, continua Reifler, "in certi casi il trattamento potrebbe iniziare ben prima che la malattia di Alzheimer si manifesti in modo conclamato, come in oncologia, dove certe lesioni o situazioni vengono considerate precancerose, permettendo ai pazienti di ricevere un trattamento precoce". Reifler conclude che la pseudodemenza si è guadagnata il diritto di essere eliminata dalla nosografia e propone che il concetto di "predemenza" venga dichiarato il suo logico successore.
Questo è lo stato dell’arte.
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