Ho letto con una certa preoccupazione le dichiarazioni del ministro Sirchia e dell’onorevole Fini a proposito della futura riorganizzazione del sistema di cura per i tossicodipendenti, per gli individui portatori di disturbi del comportamento alimentare, per i malati di mente e per i bambini con problematiche comportamentali.
Mi sembra che queste dichiarazioni vadano contro un’organizzazione, di cui sono dotate tutte le Aziende USL d’Italia, complessa e articolata, per effetto dell’applicazione di leggi dello stato, con aspetti di specificità rispetto ai diversi settori implicati.
Mi sembra molto difficile che, a meno di provocare un massiccio appiattimento di culture mediche molto specialistiche che si sono consolidate ed affinate nel corso degli anni, si possa procedere nella direzione indicata dal ministro Sirchia: a meno che non si voglia passare da una dimensione della medicina in cui le scelte operative si effettuano secondo scienza e coscienza ad un’incultura del sistema sanitario in cui si pretende che scelte di metodo e orientamenti clinici siano normati per legge o a colpi di decreti.
Vorrei qui ricordare che, se è vero che alcune problematiche della salute mentale, della neuropsichiatria infantile e delle tossicodipendenze sono correlate perché tutte quante ricadono all’interno del grande ombrello delle neuro-scienze, ciononostante ciascun campo possiede delle proprie ineludibili specificità, richiedendo approcci clinici profondamente diversi e la convergenza di saperi specialistici non sovrapponibili né intercambiabili.
Piuttosto, le diverse strutture specialistiche che hanno già consolidato nel corso degli anni culture d’intervento molto sofisticate, dovrebbero potere sviluppare più efficaci livelli d’integrazione allo scopo di potere intervenire sinergicamente in tutte quelle problematiche per così dire al confine delle diverse discipline.
Da questo punto di vista, esiste già un dispositivo ben specifico nell’attuale organizzazione del sistema sanitario nazionale, che è costituito dal Distretto Sanitario, al cui interno Unità Operative diverse, afferenti alle diverse organizzazioni specialistiche dell’Azienda USL, devono integrarsi in rete allo scopo di poter dare risposte più funzionali ai cittadini bisognosi di cure sanitarie.
Infine, per quanto riguarda un mio punto di vista più specifico, vorrei dire — come medico psichiatra, Dirigente Responsabile di un Ser.T — che, se compito primario di un medico è certamente quello di guarire, là dove ciò non sia possibile per molteplici ragioni, subentra l’imperativo di prendersi cura, per evitare ai pazienti inutili sofferenza e per garantir loro un livello accettabile di qualità di vita.
Non credo che si possa pretendere che medici dei servizi pubblici rinuncino ai principi deontologici derivanti dal giuramento ippocratico, abdicando alla necessità di compiere le proprie scelte terapeutiche secondo scienza e coscienza, per seguire invece rigidamente norme ed indicazioni restrittive emesse da politici che viceversa s’ispirano a pregiudizi e a ideologie, ma non alla deontologia medica.
Direi che, in questa materia, bisognerebbe in prima istanza dare campo alle ragioni della clinica, smorzando il più possibile – con un severo esercizio d’autocritica – quelle dell’ideologia; in più, bisognerebbe anche essere in grado di distinguere tra le ragioni della clinica e il livello delle politiche sanitarie, livelli che non sempre sono necessariamente coincidenti.
Imporre, per i tossicodipendenti dall’eroina, la linea della disintossicazione forzata e della "riabilitazione totale" — come si è sentito dire in questi giorni — sarebbe l’equivalente del rifiuto opposto al malato oncologico inoperabile e terminale di tutte le necessarie cure palliative per mantenere la sua qualità di vita ad un livello accettabile, così come della mancata prescrizione di un trattamento con insulina ad un diabetico (eventi entrambi assolutamente impensabili nella pratica medica, così come persino l’opinione comune se la raffigura).
Occorre lasciare ai medici la libertà di svolgere le terapie più idonee per i propri pazienti, utilizzando come criterio discriminante le evidenze cliniche e non quello delle false convinzioni dei politici, tenendo presente che i tossicodipendenti non sono individui portatori di un vizio morale che deve essere corretto, costi quel che costi, ma – per la maggior parte — degli individui malati, che come tali vanno trattati. Persino negli Stati Uniti, in cui si praticano politiche sociali a tolleranza zero nei confronti delle tossicodipendenze, nessun politico entra nel merito di come i medici debbano usare i farmaci più idonei per trattare i tossicodipendenti.
E dunque sarebbe auspicabile che i politici — prima di pretendere di normare, si sforzassero di conoscere con serenità e senza pregiudizi come funzionano i servizi pubblici per le tossicodipendenze e cosa abbiano prodotto, sia in termini di lavoro clinico capillarmente condotto nel territorio, sia in termini di rilevanti contributi nell’approfondimento della clinica delle tossicodipendenze, che andrebbero il più possibile divulgati attraverso i mass-media: non dimentichiamo che in Italia, allo stato attuale, possediamo un sistema di cura delle tossicodipendenze, ricco di risorse e professionalità, che persino paesi ben più avanti nell’assistenza sanitaria e nelle qualità delle cure erogate, c’invidiano.
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