RELAZIONE DI FRANCO GIUDOTTI: L'universo delle emozioni dell’equipe medica nel rapporto terapeutico

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28 novembre, 2012 - 20:19

 

A pensarci bene il titolo "L’universo delle emozioni dell’equipe medica nel rapporto terapeutico" appare un po’ presuntuoso, eccessivo, se consideriamo che un autore della statura del Prof. E.Borgna si è fermato all’"Arcipelago". Corrisponde di più alle nostre possibilità ed alle nostre capacità l’immagine del "Campo" nel senso di K Lewin, o, meglio ancora della "Trama" che, in maniera duplice, può essere riferita alla trama di un discorso, di una storia ed alla trama di un tessuto, di una stoffa. Come è noto, Lewin ha riassunto la concezione del campo con la formula C=f(P.A), dove si afferma che ogni evento psicologico è funzione sia dei fattori personali (P) sia di quelli ambientali (A). A sua volta A=f(P), nel senso che per ambiente non si intende quello fisico-geografico-sociale, ma quello fenomenico, ossia il modo in cui la persona lo percepisce.

Egli iniziò le sue esperienze osservando i bambini di una scuola durante la ricreazione, per studiare l’influenza psicologica dell’ambiente. Cercava di individuare la convergenza tra le forze di gioco dei bambini e le forze dell’ambiente educativo. Il risultato di questo scambio dinamico (conflitto di forze e costellazione di forze) si traduce strutturalmente nella delimitazione di un campo., Lewin introdusse allora la nozione di campo di forze. Indicò qual è la tensione, quali sono le forze esistenti in un dato momento e in un dato punto del campo.

Una nozione interessante è quella della influenza reciproca, diretta o indiretta, che si esercita tra gli oggetti costitutivi di un campo.

Nel nostro lavoro ci occupiamo di ricostruire storie (le famose narrative), e Gianni Tognoni (2002), Farmacologo dell’Istituto "Mario Negri", ci ricorda che (in Psichiatria) le ricerche epidemiologiche dicono che le storie complessive delle persone — che comprendono i loro contesti di vita e l’incontro scontro con le istituzioni — sono più importanti delle loro diagnosi cliniche nel determinare la prognosi in termini di esito (morbi-mortalità, autonomia di vita).

Ma l’ immagine della trama ci evoca la tessitura, l’intreccio di fili (emozioni) tra i partecipanti la relazione, quindi questa immagine è più congeniale alla nostra esposizione.

Un autore francese, di cui, purtroppo, non ricordo il nome, anni fa, per spiegare la differenza tra nevrosi e psicosi (allora le categorie diagnostiche erano queste) fornì l’esempio di una stoffa, di una tela. Più o meno diceva così: " Vedete la nevrosi è come una tela lacerata sulla quale un’abile sarta, con un paziente lavoro di rammendo, riallaccia i fili spezzati e ricostruisce la trama; la psicosi è invece come una tela su cui qualcuno ha fatto un buco, per esempio con una sigaretta."

Ora che il buco si chiami difetto, o lacuna narcisistica o aree di morte è solo questione di riferimento concettuale.

Il punto è che noi insieme al paziente, attraverso il fermento delle emozioni suscitate dall’incontro, riusciamo ad alimentare il germe della condivisione della sofferenza, della dualità che, crescendo piano piano, aiuterà il paziente a ricostruire la trama della sua vita e della sua individualità fino a portarlo ad avere una qualche cura di sé.

Come questo avviene lo vedremo poi.

 

Il discorso sulle emozioni è ben articolato da E.Borgna (2001). Egli richiama l’attenzione (citazione)…."sul valore (sull’importanza) delle emozioni nel creare una relazione terapeutica: nel creare uno sfondo esistenziale (che, al di là delle diverse forme di articolazione terapeutica, rivaluti fino in fondo l’orizzonte di senso dell’intersoggettività [della dualità , direbbe G.Benedetti, n.d.r.] aperta e non chiusa). Senza questa corrente emozionale, senza questo fluire di risonanze emozionali significative fra chi cura e chi è curato, non è possibile realizzare strategie terapeutiche finalizzate a modificare e a risanare esperienze nevrotiche ed esperienze psicotiche che hanno, comunque, bisogno di questo: al di là di ogni farmacoterapia e di ogni socioterapia".

 

Su un versante psicoanalitico G.Lo Verso (1987) scrive:

… - a differenza di quanto afferma il senso comune l’emozione non è un fatto "ingenuo" né "spontaneo", ma il modo di viverla è intricato con la storia affettiva del soggetto e ciò determina il simbolizzare, ovverosia "il senso" (in tutti i suoi significati). E’ quindi necessario, perché essa possa svolgere una reale funzione, che la relazione psicoterapeutica sia insieme il luogo dell’emozione-senso e la ricerca di senso. ….Il problema diventa quindi quello di poter tollerare, senza edulcorarla, anche la parte più distruttiva dell’emozione e della relazione, ciò può consentire alla sofferenza psichica la possibilità di esserci, di manifestarsi. Forse le patologie più dolorose sono proprio quelle in cui vi è una sorta di assenza della possibilità di provare dolore e quindi di sperimentare emozione e relazione.

 

Anche se l’importanza degli autori citati ci pone al riparo da critiche, parlando di emozioni, di passioni, di sentimenti, si rischia di evocare una "psichiatria romantica", "una psichiatria che ha poco lume in sè", direbbe Lombroso, proprio di questi tempi in cui si assiste alla grande espansione delle ricerche biologiche sulla malattia mentale. Ma da un canto convinti farmacologi recuperano concetti quali ansia di separazione, pattern di attaccamento, terapie combinate, attenzione alla relazione, dall’altra psicoanalisti ortodossi pongono l’attenzione a fenomeni neurofisiologici.

E’ un fatto che un neurologo di fama mondiale come A.Damasio (2001) sottolinei l’importanza delle emozioni sulla funzione della coscienza. Secondo questo autore la riduzione selettiva delle emozioni così come l’eccesso, nuoce alla razionalità. E’ probabile che l’emozione appoggi il ragionamento specie quando si tratta di questioni personali e sociali che implicano rischi e conflitti. I suoi risultati e la sua interpretazione fanno dubitare dell’idea di liquidare l’emozione come un lusso o un inconveniente o un mero vestigio evolutivo ed offrono lo spunto per considerare l’emozione come una manifestazione palpabile della logica della sopravvivenza.

 

G.Gabbard ci segnala:

"Gli psicoterapeuti sono spesso delusi dalle risposte che i loro ex pazienti forniscono alla domanda che cosa essi ritengono sia stato loro di maggior beneficio nel corso della psicoterapia. Gli psicoterapeuti si accorgono infatti con sgomento che i loro ex pazienti spesso non ricordano niente delle formulazioni psicodinamiche o delle interpretazioni che il terapeuta ha costruito con cura per cercare di fornire insight (consapevolezza) al paziente. Si ricordano invece di una battuta scherzosa fatta dal terapeuta, di una risata di cuore fatta insieme, di un momento di contatto emozionale commovente, di uno sguardo scambiato in una condizione di particolare vicinanza. Lyons-Ruth et al. considerano questi momenti della terapia - nei quali si verifica qualcosa di riparativo dal punto di vista delle emozioni, che non coinvolge però il regno dell’insight o della comprensione cognitiva — come una forma di conoscenza relazionale implicita. Essi ritengono che momenti come questi svolgano un ruolo cruciale in quanto fattori terapeutici".

 

 

Vediamo il riflesso sull’equipe terapeutica delle emozioni del paziente.

(G.Adler 1975) Studi ospedalieri di pazienti psicotici, borderline sono interessanti perché vedono un tipo di interazione che non è possibile apprezzare nella pratica della psicoterapia individuale. Essi sottolineano il fatto che l’ambiente psichiatrico del paziente viene influenzato dalle proiezioni, nel senso di identificarsi con esse. Quegli individui considerati cattivi dal paziente, per esempio alcuni infermieri, finiscono per comportarsi in modo aggressivo verso di lui. La scissione fatta dal paziente fra oggetti buoni ed oggetti cattivi provoca talora, secondo le osservazioni di Adler, una scissione fra i membri dello staff "cattivi" e quelli "buoni", con difficoltà di comprendersi fra loro e di lavorare in comune nei riguardi del paziente.

Adler sottolinea implicitamente il fatto che il paziente psicotico tende a scindere la società intorno a sé. Nei reparti psichiatrici, il personale di assistenza appare spesso scisso in un partito che protegge il paziente e ne vede tutto l’aspetto regressivo ed indifeso, e in un partito opposto che si irrita per i suoi continui acting out, la sua aggressività, le sue pretese eccessive. Tale scissione della società viene operata, secondo Adler, dal paziente stesso, è, cioè, una conseguenza della scissione intrapsichica. Il paziente proietta l’oggetto parziale cattivo su alcuni infermieri o medici e l’oggetto parziale buono su altri.

(tra l’altro coinvolgimenti emotivi, nei confronti di particolari tipi di pazienti che suscitano nello staff risposte controtransferali, si possono apprezzare anche il altri reparti. Per esempio, nei reparti di terapia del dolore, nel caso di pazienti ustionati direttamente o indirettamente a causa dell’abuso di certe sostanze — i "drogati e gli "alcoolizzati" — alcuni membri dello staff riescono a malapena a nascondere una propria reazione istintiva, secondo la quale questi pazienti meritano di soffrire, o almeno non devono rimanere impuniti per i loro crimini rimanendo completamente senza dolore. All’altro estremo, vi sono gli eroi — come i vigili del fuoco — dai quali ci si aspetta una stoica sopportazione di ogni dolore e che quindi rimangono, persino durante la malattia, figure altamente idealizzate.

Perché queste persone non si difendono sufficientemente dalle proiezioni del paziente, ma si adattano ad esse, si comportano, quindi come il paziente inconsciamente vuole? Questo Adler non lo dice.

G.Benedetti (1980) propone, anche sulla base delle sue esperienze cliniche, i seguenti quattro meccanismi interpersonali che non si escludono a vicenda, ma si sommano insieme:

  1. L’accettazione — da parte del personale — delle proiezioni del paziente è un modo di mettersi in rapporto con lui, un modo di conoscerlo. Esiste un tipo di percezione dell’altro attraverso il transfert, e questo è un potente mezzo di conoscenza del paziente che viene usato inconsciamente prima di qualsiasi riflessione psicodinamica.
  2. Adattarsi alle proiezioni di un paziente significa spesso due cose: farsi sedurre da lui, ma anche e soprattutto entrare in contatto con lui. Quando un paziente è francamente schizofrenico ed apostrofa il medico come Cristo o Satana, il medico, a meno che sia in contatto profondo con lui attraverso la psicoterapia, non lo prende alla lettera. Il paziente è un povero matto, questo è quello che dice l’inconscio di ogni persona sana, ospedaliera ed estranea. E’ solo quando noi entriamo dentro le proiezioni del paziente che ne sentiamo tutto il peso umano. E’ proprio questo bisogno di entrare in contatto con l’altro e di prenderne il peso umano è un bisogno psichico non meno importante del bisogno di difendersi dalle proiezioni dall’altro. Non esiste nell’individuo normale solo il bisogno di difendersi dalle proiezioni del malato di mente, come è stato detto tante volte, esiste anche il bisogno di entrare in contatto con lui finchè ciò è possibile.
  3. Un terzo meccanismo sta nel fatto che ogni proiezione vissuta come realistica tende ad evocare in colui che ne è oggetto emozioni congruenti ad essa. Chi è oggetto di una proiezione cattiva tende ad essere cattivo, chi è oggetto di una proiezione buona tende ad essere buono. Vediamo questo fenomeno già nei bambini: la pecora nera della famiglia si identifica con la proiezione dei genitori che ha provocato queste difese.
  4. Il quarto caso è che il paziente non distribuisce a caso le sue proiezioni. (Mentre nella psicoterapia individuale una proiezione negativa non dice nulla riguardo la personalità del terapeuta, perché quest’unico evento evoca necessariamente tutta la gamma emotiva del paziente,) nell’ ambiente ospedaliero gli oggetti della proiezione cattiva sono in realtà non individui cattivi, ma individui percepiti empaticamente dal paziente nella loro latente avversità contro di lui. La proiezione è un mezzo non solo per nascondere, ma anche per scoprire la realtà. In altri termini, senza proiezione non c’è conoscenza; il problema è solo di grado; se la proiezione finisce con l’essere assoluta, rappresenta un muro delirante fra sé e l’altrui, oppure può essere un mezzo per conoscere un aspetto latente dell’altro.

 

Un autore che lavora quotidianamente a contatto con pazienti psichiatrici gravi è S.Resnik. Nel suo libro "Glaciazioni"(2001) parla delle emozioni dei pazienti e dei terapeuti (citazione):

" Nella psicosi cronica, come nel caso di nostri pazienti, l’assenza di emozioni, lo stato di a-mozione, non significa mancanza di affetti, ma al contrario una grande affettività, una grande affettività che soffre di essere.

Con l’immobilità affettiva e l’apatia gli psicotici cercano di evitare non solo la sofferenza, ma anche la capacità di godere. In una parola lo psicotico è troppo fragile, troppo sensibile; deve dunque evitare ogni sentire. Paradossalmente il prezzo per esistere è non vivere la propria vita, congelare i propri affetti, paralizzare il proprio spazio mentale.

Per coloro che lo circondano e che sono testimoni di un tale dramma, lo spettacolo della morte in vita risulta intollerabile. La morte in vita produce queste emanazioni. Infatti ciò che è intollerabile per l’altro, per lo psichiatra, per lo psicoanalista, e per la famiglia, è l’angoscia psicotica che inconsciamente viene distillata. Il vero specialista degli psicotici non è quello che capisce tutto, ma piuttosto quello che tollera di non capire quasi niente e che è capace di respirare il clima dell’angoscia psicotica. In queste condizioni diviene possibile una comprensione del sentito, apparentemente nascosto o troppo eloquente".

 

 

Ora vediamo come si articolano e si intrecciano le emozioni nella relazione tra l’equipe ed il malato.

Abbiamo scelto tre momenti, tratti da osservazioni durante la pratica.

  • Emozioni ed immagini positivizzanti,
  • Rilevanza delle emozioni dell’equipe e dei pazienti sulla prescrizione farmacologica,
  • Emozioni ed avvenimenti traumatici (es. suicidio).

 

Emozioni ed immagini positivizzanti.

Prendiamo ad esempio il delirio come paradigma della malattia mentale.

Il paziente delirante ci mette a confronto con delle assurdità che la nostra logica rifiuta. Il rifiuto, la repulsione nei riguardi del delirio è di natura cognitiva, prima che emotiva, perché noi non possiamo fare a meno della razionalità, seppur per amore del paziente.

Questo nostro vissuto reattivo fa parte della malattia mentale e rappresenta il muro di divisione (o il solco) tra noi e lui. Ma questo stesso fenomeno può trasformarsi nel ponte verso il paziente se noi abbiamo la pazienza di rimanere a lungo nel dilemma tra l’amore per il malato e l’impossibilità di venirgli incontro come lui esige, cercando di dare voce e spazio dentro di noi al dolore ed alla solitudine del vuoto.

Quando noi siamo posti di fronte alle emozioni suscitate da un vissuto psicopatologico, noi cerchiamo di rispondere ai messaggi negativi del paziente onde ribaltarli sempre in vissuti che confermino il valore della sua esistenza.

Esempi di immagini positivizzanti

Il paziente riferisce di trovarsi su una stella distante dalla terra , il terapeuta gli svela la sua passione per astronomia, spesso la sera scruta il cosmo con il telescopio di casa, per osservare un mondo a lui sconosciuto e si chiede come sarebbe la vita su uno di quei mondi.

Al paziente che, schiacciato per la colpa di non rovinato un lavoro (un pavimento), sopravvive ad un tentativo il suicidio compiuto gettandosi contro i fili elettrici dell’alta tensione, noi poniamo sul piatto della bilancia i valori del pavimento e della sua vita.

 

Anche se la situazione descritta della positivizzazione è sorta ed utilizzata nella psicoterapia individuale, essa contiene, come principio, il fermento di ogni riabilitazione, mediazione, negoziazione ed integrazione che vengono formulati in tanti procedimenti terapeutici diversi, nelle varie strutture psichiatriche.

Le emozioni ed i sentimenti ci appaiono come fili di una relazione "arcaica", perché costituita ancora da meccanismi regressivi, immaturi, privi di una logica consensuale, ma pur attraverso questi meccanismi è possibile la trasmissione e la ricezione (lo scambio) di messaggi significativi, che vengono assimilati, integrati nella personalità del malato.

Per un estraneo che ascolta essi appaiono come un discorso surreale, che a volte è l’unico strumento contro l’evidenza del delirio, dell’allucinazione, della perdita di sé.

Questo modo di fare è essenzialmente operazionale, ha valore solo come strumento di azione, che è azione di aiuto al sofferente.

 

Rilevanza delle emozioni sulla terapia farmacologica .

M.Balint (1957) "quando un medico prescrive un farmaco, prescrive se stesso".

(S.Freni, 1988, 2000) L’illusione di disporre di una molecola che possa manifestare proprietà altamente specifiche volte a controllare i singoli sintomi con estrema precisione e stato definito da T.G.Gutheil (in S.Freni 1988) un "delirio di precisione". E’ stato dimostrato che anche gli psicofarmaci producono modificazioni verso direzioni non esclusivamente predeterminate dal principio attivo contenuto in essi.

C’è da osservare che sia la fase della psicofarmacologia empirica fondata su valutazioni cliniche soggettive, sia la fase della psicofarmacologia clinica fondata su misurazioni con rating scales e correlazioni dose-livelli plasmatici e risposta clinica, hanno sempre trascurato il "fattore umano" implicito nelle manifestazioni psicopatologiche, nella relazione psichiatra-paziente, nella stessa misurazione dell’effetto del farmaco che alla fine è fondata sul comportamento e sulla verbalizzazione del paziente.

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G.J.Sarwer Foner (in S.Freni 1988) enfatizza molto i meccanismi extrafarmacologici con cui gli psicofarmaci sembrano spesso interagire. In altri termini, le proprietà di un farmaco non sempre necessariamente esita nel "curare" un disturbo (non ci forniscono sempre la risposta attesa). Alcuni pazienti i cui sintomi maggiori sono stati controllati o parzialmente controllati dal farmaco, possono rapidamente migliorare. Altri pazienti migliorano inizialmente e cercano nell’ambiente circostante conferma sul loro effettivo miglioramento. Se l’ambiente risponde riconoscendo il cambiamento, il paziente può continuare a reintegrare le sue difese, proseguendo nel miglioramento. Al contrario, se l’ambiente circostante segnala ancora l’esistenza della malattia e dell’incapacità a controllarla da parte del paziente, questi può ricadere prontamente o addirittura non beneficiare della terapia anche in fase iniziale. La reazione del paziente agli effetti del farmaco è inoltre spesso determinata dai sentimenti controtransferali* del medico. Il farmaco infatti può venir dato sulla scorta di sentimenti di paura o antipatia per il paziente; in particolare quando viene presentato come primo atto, può esprimere il rifiuto ad un coinvolgimento maggiore, più profondo, da parte del medico che in tal modo mantiene a distanza il proprio paziente. Questi a sua volta, inevitabilmente, percepirà l’oggetto farmaco ed il suo effetto come ostile, estraneo ed anche minaccioso.

Fenomeni transferali** sia positivi che negativi si evidenziano sia nella prescrizione dei farmaci che nella non prescrizione; analogamente in entrambi i casi si evidenziano fenomeni controtransferali. I pazienti possono stabilire un transfert positivo nei confronti del medico che prescrive i farmaci associando la prescrizione alla credibilità e serietà del medico nei loro confronti. Al contrario i pazienti possono vivere la prescrizione come un atto degradante ("mi crede più malato di quanto non sia in realtà"), come un allontanamento del medico dalla loro sofferenza, come un’ingiuria narcisistica ("non mi ritiene in grado di superare da solo il problema") o come un tentativo di privarli di un’esperienza valida. Il paziente può interpretare la non prescrizione farmacologica come un rifiuto del medico ad essere distratto dalla "persona" del paziente o come un atteggiamento fideistico (di troppa fiducia) nelle risorse del paziente che, così, si sente responsabilizzato oltre misura.

Fenomeni transferali nei confronti del medico che non prescrive farmaci si evidenziano nelle fantasie che il medico sia sadico, non voglia (accetti) richieste di aiuto, che dubiti della serietà e della genuinità della malattia. I fenomeni transferali positivi e negativi nei confronti del farmaco appaiono evidenti negli effetti terapeutici o collaterali del placebo.

Per quanto riguarda le dinamiche controtransferali, innanzitutto, molto spesso "una prescrizione segnala la fine di una visita piuttosto che l’inizio di un’alleanza", può cioè costituire un mezzo per non essere coinvolti nei problemi del paziente. Sia la prescrizione che la non prescrizione possono essere un agito degli elementi aggressivi della relazione medico-paziente e dei conflitti relativi ad essi; possono rappresentare la volontà del terapeuta di contenere, localizzare o trascurare valenze controtransferali conflittuali, ad esempio varie forme di gratificazione regressiva circa il controllo autoritario, il potere, l’impotenza.

 

Emozioni ed eventi traumatici

Come sottolinea Weiss "il suicidio di un paziente (…) è probabilmente l’esperienza più terribile che può accadere ad uno psichiatra nella pratica professionale". Così, citando A.Merini (1993) non appaiono sproporzionati i meccanismi psicologici quali il diniego*** , la rimozione, comprendenti, a volte, il non considerare l’ evidente natura della morte , il dimenticare i dettagli, nonché omettere e distorcere i fatti, tutti questi meccanismi tendono ad eliminare dalla coscienza l’avvenimento luttuoso e gli effetti ad esso correlati.

Sinteticamente l’evento suicidio può attivare nell’equipe:

  • una colpa persecutoria in cui intervengono emozioni quali il risentimento, la rabbia, la disperazione, la paura, gli autorimproveri;
  • o la colpa depressiva caratterizzata da preoccupazione per l’oggetto e per l’Io, la pena, la nostalgia e la responsabilità.

Questa distinzione ricorda quella proposta da Kernberg (1978) a proposito della depressione in rapporto alla integrazione del Super-Io. Kernberg osserva che più quest’ultimo è strutturato, più la depressione si collega ad autentici sensi di colpa, rimorso e preoccupazione per se stessi, mentre, nel caso contrario, la depressione assume l’aspetto di rabbia impotente o di disperazione-impotenza.

Grinberg non ne fa solo una questione di patologia, ma anche della qualità dei rapporti fra il soggetto e l’oggetto perso. Questa si accentua grandemente quando la perdita è legata al suicidio, per tutte le valenze auto ed eteroaggressive implicate con l’ambiente. La proporzione con cui interviene questa colpa e il suo carattere persecutorio o depressivo, determineranno la qualità e l’intensità della reazione di fronte alla perdita.

Si può ritenere che rapporti fortemente ambivalenti dell’equipe con un paziente che, ad esempio, ci mette continuamente in scacco, è fonte di preoccupazione e di emergenza, ecc., sono la base per l’istaurarsi nell’equipe di una colpa persecutoria. Quest’ultima compare, al momento del suicidio, soprattutto se l’odio per il paziente non è stato sufficientemente evidenziato ed elaborato. Vi possono essere pazienti così distruttivi da rendere particolarmente difficile tale elaborazione. Sotto la pressione dell’odio, la morte del paziente è percepita inconsciamente come trionfo, come vittoria e liberazione, sentimenti che comportano intensi sensi di colpa persecutoria che, a loro volta, impediscono un lutto normale e possono essere proiettati creando un clima di attesa persecutoria (l’arrivo dei carabinieri, l’avviso di garanzia, il licenziamento).

Un’altra situazione, quale quella di un paziente meno distruttivo, mostra come l’equipe riesca, pur attraverso sofferte vicissitudini, ad affrontare il lutto della perdita.

Merini ci segnala il caso in cui nei momenti che seguirono il suicidio di un paziente era presente un diffuso sentimento depressivo che si esprimeva nel ricordare il paziente, la sua incapacità di vivere, i momenti trascorsi con lui, ecc..Si può dire che dominava un sentimento di perdita e di colpa depressiva.

Occorre sottolineare come in questo caso si arrivò a vari aspetti riparativi, intesi come possibilità di utilizzare per il futuro l’esperienza che il gruppo aveva avuto con il paziente ed il suo suicidio. E’ da notare come, per elaborare il lutto, l’equipe abbia avuto bisogno di un tempo e di uno spazio: la riunione di equipe rappresenta entrambi. Questo è un aspetto non secondario che sottolinea la necessità di riunioni, organicamente previste, fisse e regolari. In questa occasione si può ritenere che la riunione di equipe abbia assunto le valenze delle antiche veglie funebri in cui la collettività si riuniva per partecipare al lutto.

 

Da ultimo si accennerà ai rischi anche fisici che può comportare per noi operatori il confronto con situazioni complesse, globalmente e violentemente distruttive. Questa situazione ripropone la questione del contagio della trasmissione di materiale altamente patogeno dal paziente al terapeuta (qui si può citare G.Benedetti (1980) quando parla dei "buchi neri" nella psicosi, come l’astrofisica ci insegna, essi attraggono, risucchiano ogni forma di energia che passa loro vicino) …..

…Un terapeuta che seguiva il suicida con grande passione e professionalità, a distanza di pochi giorni dall’evento luttuoso, ha un collasso con svenimento protratto e quindi, per motivi inspiegabili, esce fuori strada con la propria macchina procurandosi gravissime lesioni. (in un altro caso un collega riferiva che dopo la morte di un paziente che aveva avuto contatti con il Servizio dove lavorava e che aveva colpito tutti per la modalità dell’atto mortale e della giovane età, si accorgeva con stupore di attraversare larghi viali senza fare attenzione al sopraggiungere delle macchine, solo a metà strada o dopo l’attraversamento si rendeva conto di cosa stava facendo, così pure gli capitava, lui scrupoloso nell’attendere alle norme, di passare al semaforo con il rosso).

Tradizionalmente in questi casi si invoca un movimento identificatorio che rappresenterebbe il tentativo di collocare l’oggetto perduto nell’Io (il terapeuta prende su di sè il paziente ), al fine di annullare la perdita. Cospargersi di polvere, vestirsi di nero, ecc. sono aspetti ben noti che indicano la diffusione e la necessità di questi movimenti identificatori.

In conclusione del nostro discorso.

Come hanno sempre sottolineato i nostri maestri già molto era stato scritto nei classici antichi.

Proprio al centro della scena di riconoscimento nell’Elettra di Sofocle c’è un significativo scambio di battute fra i due protagonisti.

Nel momento culminante della tragedia ci sono due frasi che fanno precipitare l’agnizione* tra fratello e sorella. Oreste, che era apparso senza dire chi fosse, decide di rivelare tutto e si fa definitivamente riconoscere mostrando ad Elettra l’anello del padre, Agamennone. Tuttavia, il riconoscimento sarebbe impossibile senza le due battute "Perché vedo su di te i segni di molti patimenti", e "L’unico che ti avvicina soffrendo i tuoi dolori come i suoi". Quel che le due battute significano è che Oreste riconosce Elettra a causa delle sue sofferenze e che lei dovrebbe riconoscere lui perché egli le condivide. L’agnizione, insomma, affonda le sue radici nell’esperienza comune del paschein: del soffrire, del patire, del dolore.

Il riconoscimento dell’Altro avviene attraverso l’emergere e la condivisione delle emozioni.

 

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