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Terza giornata – Giovedì 21 febbraio

23 Nov 12

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Effectiveness of antipsychotic drugs in first-episode Schizophrenia and Schizophreniform Disorder – W.W.Fleischhacker
Il relatore pone l' accento sulle evidenti discrepanze tra gli studi scientifici e la pratica clinica quotidiana. Ciò è dovuto sia alle metodologie utilizzate sia all' interpretazione soggettiva degli studi stessi, derivante dall' individualismo degli psichiatri legati più alla esperienza personale che alla ricerca scientifica. Vengono mosse critiche alle metodiche con cui sono confrontati i diversi farmaci: riguardo all' outcame i pazienti scelti corrispondono ai "soliti sospetti" e non alle persone visitate giornalmente nella clinica. Quindi viene messa in discussione la metodologia degli studi eseguiti con placebo: si tratta di un problema etico-metodologico in cui i soggetti che assumono il placebo sono molto numerosi ma tendono ad abbandonare con elevata frequenza, portando ad una difficile applicazione dei risultati nei trials. Altro parametro opinabile è la scala PANSS, i cui items spesso non rispecchiano il reale benessere del paziente e il suo adattamento alla terapia. 
È quindi necessario un trial clinico pragmatico, che cerchi di evitare il BIAS nella selezione del campione e il cui obiettivo sia misurare non l' efficacia ma l' effective-ness, reale parametro del rapporto rischio/beneficio e in alcuni casi anche dei costi.
A questo punto vengono citati diversi studi clinici in cui è stato studiato il primo episodio schizofrenico. Innanzitutto il relatore sottolinea l' importanza dell' intervento farmacologico all' esordio: migliorano sia la risposta sia la prognosi. D' altro canto vi è una bassa compliance in quanto è stimato che i 3/4 dei pazienti abbandonano precocemente il trattamento.
Nello studio "CAFE" ( Comparison of Atypicals in First-Episode psychosis ) sono stati messi a confronto Olanzapina-Quetiapina-Risperidone in pazienti di età compresa tra 14 e 40 anni al primo episodio psicotico, non trattati da oltre 4 mesi. Gli esiti sono stati una sostanziale egualità nelle percentuali di abbandono tra i farmaci e una risposta di tutti pazienti rispetto alla PANSS.
Lo studio "EUFEST" ( European First Episode Schizophrenia Trial ) è in aperto randomizzato a 1 anno in cui sono stati paragonati Aloperidolo-Amisulpride-Olanzapina-Quetiapina-Ziprasidone in 500 pazienti. Alla fine dello studio il 62% continuava a prendere il farmaco, quindi solo il 38% ha soddisfatto l' outcome dello studio, cioè l' abbandono della terapia.
L' intervento si conclude con alcuni suggerimenti per l' interpretazione degli studi clinici: non aspettarsi la risposta migliore da un unico studio, leggere attentamente la metodologia utilizzata, interpretare con attenzione le metanalisi, non scartare prematuramente risultati inusuali.
Report a cura di Davide Prestia e Serena Puppo 

SESSIONE PLENARIA
PATOFISIOLOGIA PSICHIATRICA: L'ANELLO MANCANTE

Il Prof. A. Troisi affronta il problema della diagnosi in psichiatria, tuttora inevitabilmente ancorata alla dimensione sindromica, senza la possibilità di ricondurre i sintomi clinici ad un livello eziopatogenetico, basato su fattori biologici specifici (come avviene invece, ad esempio, nello studio delle malattie infettive, dove una sindrome clinica è originata da uno specifico agente eziologico, determinante alterazioni organiche dimostrabili da esami di laboratorio e strumentali).
Allo stato attuale, non disponendo ancora di strumenti specifici per documentare le alterazioni biologiche sottostanti i disturbi mentali (nonostante i costanti progressi delle neuroscienze), è necessario individuare strumenti alternativi per effettuare diagnosi precise ed efficaci: da un lato risulta fondamentale tentare di immergersi quanto più possibile nell'esperienza psichica del paziente e nel suo vissuto soggettivo (tenendo presente il contributo della fenomenologia), dall'altro non trascurare la raccolta dei sintomi oggettivi, con particolare attenzione a quelli più sottili e significativi, come il comportamento non verbale del paziente. La psicopatologia, in questo senso, si propone come un ponte ideale tra la clinica e la genetica: il suo obiettivo potrebbe essere proprio quello di rielaborare e dare un senso a presentazioni sintomatologiche eterogenee e multiformi, costruendo così le basi per il successivo passaggio alla dimensione biologica. Un segno di questo tentativo di integrazione è l'obiettivo degli autori del DSM-V di associare le categorie diagnostiche (basate sulla presentazione clinica dei sintomi) a corrispondenti ipotesi eziologiche e patogenetiche.
Risulta anche essenziale distinguere la validità scientifica di una diagnosi dalla sua utilità clinica: lo sviluppo delle neuroscienze ed i progressi nel campo della clinica dovranno procedere in modo parallelo, ma non confusivo, per poter interagire in modo costruttivo ed efficiente.
Il Prof. A. Serretti propone la genetica come possibile anello mancante nello studio dei rapporti tra mente e cervello. Il genoma umano dispone di circa 6 milioni di differenze tra i vari organismi, senza contare le varianti dei geni, le piccole sequenze ripetute, le metilazioni del DNA ecc.
Tra le differenze genetiche che contraddistinguono i singoli individui rientrano inevitabilmente i fattori di vulnerabilità alle alterazioni cerebrali ed allo sviluppo dei disturbi mentali. Spesso, infatti, anche minime modificazioni, strutturali o funzionali, di proteine codificate da geni variati, possono avere un ruolo fondamentale nel determinare una costituzione a rischio di sviluppi psicopatologici.
Paradigma delle influenze genetiche sulla psiche è il funzionamento del gene per il trasportatore della serotonina, situato sul cromosoma 17 . Esistono, come noto, due varianti di questo gene: quella "short" (S), presente nel 50% dei casi, codificherebbe per un trasportatore meno efficiente di serotonina nella giunzione sinaptica.
La variante S del gene per il trasportatore della serotonina influenza in modo determinante la neuroanatomia cerebrale, con conseguenti alterazioni del comportamento: l'ippocampo risulta di dimensioni ridotte (questo predispone allo sviluppo della sintomatologia depressiva), l'amigdala evidenzia maggiore reattività (causando aumentata suscettibilità all'ansia). Esiste quindi in questi pazienti un aumentato rischio di presentare nel corso della vita un disturbo depressivo (unipolare o bipolare), e di sviluppare comportamenti suicidiari. Un alterato trasportatore per la serotonina causerebbe inoltre una diminuita risposta alle terapie farmacologiche (come noto, infatti, la depressione, se accompagnata da ansia, è più resistente al trattamento con antidepressivi). 
Gli individui con la variante S del gene avrebbero tuttavia anche dei vantaggi: avrebbero infatti un funzionamento lavorativo più efficiente rispetto alle persone senza la variante genica. La variante S sarebbe associata, inoltre, ad un'aumentata attività sessuale di tali individui (che quindi sono più attivi e si riproducono di più: per questo tale popolazione è così numerosa).
Gli studi sul gene per il trasportatore della serotonina sono soltanto un esempio di quanto la genetica influenzi la psiche umana, dalla dimensione biologica a quella comportamentale. La genetica si rivela quindi un campo molto promettente, anche se apre scenari piuttosto problematici in campo etico e legale, che si dovranno valutare con attenzione.
Il terzo intervento della sessione si focalizza sulla fisiopatologia dei disturbi psichiatrici, con particolare riferimento ai disturbi psicotici e ad una interpretazione originale dei dati della neurobiologia. Il prof. A De Bartolomeis propone infatti una riflessione sulle evidenze a favore di una rivalutazione dell'ipotesi eziopatogenetica dopaminergica delle psicosi. 
Una disfunzione della neurotrasmissione dopaminergica è necessaria per spiegare i disturbi psicotici e forse è anche sufficiente per farlo, senza ricorrere a complesse interazioni molecolari. Ci sono dati sull'azione dei sistemi dopaminergici nell'interpretazione di eventi esterni e nell'associazione tra eventi esterni e interni all'individuo. Inoltre la dopamina è coinvolta nelle attività cerebrali che hanno a che fare con i processi di pensiero predittivo. E' possibile in quest'ottica, che, in assenza di una primitiva e diffusa alterazione del sistema, piccoli, ma costanti eventi stressanti il sistema e attinenti le funzioni associative e predittive possano portare ad un grave squilibrio. L'effetto finale è un aumento della sensibilità dei recettori D2, sia pre che post-sinaptici. Studi condotti su gemelli monozigoti, hanno dimostrato che il gemello sano di un paziente schizofrenico mostra una maggiore responsività dei recettori D2.
Per quanto riguarda i sintomi cognitivi della schizofrenia, la dopamina non sembra essere direttamente coinvolta, ma si può ipotizzare che i deficit siano più diffusi di quanto appaia e potrebbero essere coinvolti anche i recettori D1 corticali (come dimostrato in modelli animali).
Alterazioni del sistema dopaminergico possono spiegare anche le modificazioni strutturali sinaitiche osservate nei soggetti schizofrenici. L'aumento della trasmissione dopaminergica, infatti, determina la produzione di una forma inducibile di una proteina codificata dal gene Homer e coinvolta nei meccanismi di formazione delle sinapsi.
Chiude la sessione l'intervento del prof. M. Biondi, che affronta il tema della biologia della psicoterapia, riferendosi ad un modello psicosomatico del cervello secondo cui si può identificare un principio organizzatore comune di psicoterapia e farmacoterapia che prevede una matrice finale comune su cui agiscono determinando gli effetti clinici. In quest'ottica le possibilità di valutare sia il processo che l'esito della psicoterapia si arricchiscono di potenziali marcatori funzionali e bioumorali. Tra questi si segnalano alcuni che hanno la caratteristica di basso costo e buona affidabilità: l'EEG che mostra aumento dell'attività alfa dopo psicoterapia per disturbi d'ansia, l'EMG effettuato durante le sedute e che indica aumento della tensione legato ai temi trattati, la GSR nei pazienti fobici in psicoterapia, le variazioni di ACTH, cortisolo e prolattina in situazioni stressanti. Ulteriore elemento di studio è relativo al terapeuta, su cui sono state studiate le reazioni emotive con EMG e GSR e si sono viste rispecchiare quelle del paziente.
Tutti questi dati mostrano che la psicoterapia ha correlati biologici, spesso studiabili con metodiche relativamente economiche e accessibili che forniscono sia marcatori di processo che di esito e consentono di effettuare anche valutazioni sul terapeuta.
(A cura di W. Natta e G. Giacomini)

L'altra faccia della depressione: apatia e anedonia.
Bupropione: il nuovo approccio terapeutico dopaminergico e noradrenergico

Il Prof. E. Sacchetti apre il convegno mostrando le caratteristiche ideali che un antidepressivo dovrebbe possedere:
– Basso numero di sintomi depressivi residui dopo somministrazione a lungo termine: spesso durante il trattamento con SSRI, pur essendovi una significativa diminuzione della maggior parte dei sintomi depressivi, possono persistere appiattimento affettivo, apatia, anedonia ed una persistenza dei disturbi della sfera cognitiva. La presenza di sintomi residui, inoltre, è correlata significativamente ad una ricaduta, più ancora che una storia anamnestica di depressione ricorrente.
– Basso rischio di suicidio: i fattori di rischio principali sono il sesso maschile e la presenza di un episodio depressivo grave, con sintomi psicotici. Allo stato attuale, tuttavia, non sono state ancora studiate adeguatamente le relazioni tra l'uso di un determinato antidepressivo e l'incidenza di suicidio.
– Efficacia sui sintomi somatici della depressione: almeno 2/3 dei pazienti depressi presenta disturbi somatici significativi. Gli SNRI sembrano più efficaci nel controllo di questi sintomi rispetto agli SSRI.
– Regolarizzazione dei ritmi circadiani: quest'area, alquanto complessa, deve ancora essere approfondita adeguatamente.
– Efficacia sui sintomi cognitivi della depressione: questi sintomi sono parte integrante della sintomatologia depressiva, essendo anche inclusi negli item del DSM-IV per l'episodio depressivo maggiore. Le alterazioni cognitive sembrano essere più frequenti nella depressione unipolare che in quella bipolare. Anche in questo caso i farmaci ad azione multipla (SNRI) appaiono più efficaci degli SSRI.
– Bassa tendenza a switch verso la mania: gli SSRI diminuiscono il rischio di viraggi in senso maniacale rispetto ai triciclici.
– Buona tollerabilità: gli SSRI sono generalmente meglio tollerati dei triciclici e presentano minor tasso di drop-out.
– Scarso aumento di peso e basso rischio di sindrome metabolica: mirtazapina e paroxetina sono gli antidepressivi che più spesso provocano aumento ponderale, a differenza di bupropione e nefazodone, che influenzerebbero minimamente il peso corporeo. Gli effetti sul metabolismo sono sempre più oggetto di studio nelle terapie a lungo termine con antidepressivi: circa il 15% dei pazienti presenta sintomi inquadrabili nella sindrome metabolica.
– Bassa incidenza di disfunzioni sessuali: gli effetti collaterali sessuali sono molto frequenti durante il trattamento con SSRI e condizionano negativamente la compliance del paziente a lungo termine.
– Effetti favorevoli sul sonno: Gli SSRI tendono ad aumentare la frammentazione del sonno. Viceversa, i pazienti che riferiscono un sonno ristoratore sembrano meno a rischio di ricadute depressive.
– Assenza di sindrome da sospensione: soprattutto gli SSRI, ma anche i triciclici, possono provocare, all'interruzione del trattamento, una sindrome caratterizzata da insonnia, tremori, vertigini, dolori muscolari, nausea e diarrea.
– Bassa tossicità in overdose: come noto, gli SSRI sono più sicuri dei triciclici e meno tossici dopo un'intossicazione, come testimonia il fatto che dopo un'assunzione incongrua da SSRI sono necessari meno giorni di ospedalizzazione rispetto a quanto avviene per i triciclici (con significativa diminuzione della spesa sanitaria).
Il Prof. P. Girardi, a proposito del profilo di efficacia del bupropione, sottolinea come questo farmaco abbia un'azione favorevole su tutti i parametri elencati precedentemente: l'azione combinata dopaminergica e noradrenergica (senza influenze sui sistemi serotoninergici) rende il bupropione efficace su sintomi quali anergia, abulia, anedonia e demotivazione, che tendono a residuare dopo il trattamento con SSRI. Questo farmaco, inoltre, essendo ben tollerato ed efficace sui sintomi cognitivi della depressione, appare particolarmente indicato per il paziente anziano.
Il bupropione avrebbe inoltre bassa incidenza di disfunzioni sessuali, non influenzerebbe in modo significativo il peso corporeo e sarebbe privo di sindrome da sospensione.
Il rischio di viraggi maniacali non appare superiore rispetto agli SSRI, per cui il bupropione appare un'utile opzione nel trattamento della depressione bipolare resistente.
Nella depressione non complicata e in quella in comorbilità con disturbi d'ansia, il bupropione avrebbe un'efficacia paragonabile a quella degli SSRI.
Questo farmaco, secondo le recenti linee guida, risulta quindi in prima linea nel trattamento della depressione non psicotica.
Il Prof. G. Perugi, nel suo intervento, intende valutare la tollerabilità del bupropione, confrontandola con quella degli altri antidepressivi.
Il concetto di tollerabilità ha sempre svolto un ruolo chiave nella scelta del farmaco antidepressivo: la migliore tollerabilità, e non l'efficacia, è il fattore che attualmente fa preferire gli SSRI ai triciclici.
Gli SSRI, pur essendo generalmente ben tollerati a lungo termine, tendono a provocare, nel corso degli anni, alcuni sintomi indesiderati, la cui presenza andrebbe sempre indagata: possono insorgere, in particolare, appiattimento affettivo, distacco emozionale, anedonia, astenia, sintomi cognitivi e aumento dell'impulsività. Questo potrebbe dipendere da un'azione indiretta degli SSRI sul sistema dopaminergico e sui centri della regolazione edonica. Tali sintomi sembrano rispondere in modo significativo al trattamento con bupropione.
In generale, il bupropione ha un profilo di tollerabilità paragonabile a quello degli SSRI. Rispetto ad essi, il bupropione tende a provocare più raramente astenia, insonnia e disfunzioni sessuali. Gli effetti collaterali più frequenti sono invece irritabilità e xerostomia.
Anche in overdose, il bupropione appare relativamente sicuro. Il rischio principale , in questi casi, è quello dell'insorgenza di crisi convulsive, che si possono presentare a dosi maggiori di 450 mg/die. A dosi inferiori a 300 mg/die il rischio è invece trascurabile, soprattutto nella formulazione a rilascio controllato, che permette il mantenimento di una concentrazione ematica del farmaco sufficientemente stabile.
Il profilo farmacodinamico particolare del bupropione (NDRI) induce a ritenere che questo farmaco possa essere una valida opzione per i disturbi depressivi resistenti al trattamento con SSRI. Altri impieghi potenziali del bupropione, per i quali saranno necessari ulteriori studi, potrebbero essere il trattamento dell'ADHD, dei disturbi sessuali e dell'obesità.
A cura di Gabriele Giacomini

ATTACCO AL CORPO: psicopatologia, significati psicodinamici, relazionali e provvedimenti terapeutici
Il Professor F. Gabrielli introduce l'argomento del simposio che nonostante l'apparente eterogeità degli interventi vuole apportare un contributo comune all'argomento della disintegrazione tra mentale e corporea, istanze che dovrebbero essere intimamente congiunte. Pone l'accento in particolare ai pensieri di onnipotenza del sé che sopravvive al suicidio.
Tentato suicidio nella depressione e vissuti del paziente – Dott.ssa E. Zanelli
L'intervento inizia con dati epidemiologici della WHO che stima 800.000 suicidi nel mondo, con incrementi stimati nel 2020 fino a 1 milione e mezzo. Dati della NIHN riportano che 10 persone su 100 hanno avuto ideazioni suicidi arie almeno una volta nella vita e 3 su 100 hanno tentato il suicidio. Le patologie più spesso associate sono la depressione maggiore uni e bipolare (soprattutto nella stato misto) e l'abuso di sostanze e schizofrenia (soprattutto nei giovani pazienti maschi, in fase di remissione). Lo studio presentato è stato eseguito presso la Clinica Psichiatrica di S.Martino di Genova è un Focus Group il cui scopo è fare emergere il parere dei partecipanti, che hanno vissuto un'esperienza di tentato suicidio, su alcune aree tematiche: cause e emozioni correlate, fattori di rischio e protettivi, percezione della validità delle cure ricevute. Il suicidio è percepito come una fuga dal dolore, spesso è vissuto in modo magico (suicidio-metamorfosi, suicidio-esecuzione), le modalità utilizzate sono molteplici e anche se le idee suicidiarie non vengono manifestate esistono nei giorni precedenti all'agito dei campanelli d'allarme. Spesso è presente rabbia, delusione e in caso di suicidio mancato, senso di colpa per i familiari. Un fattore di rischio fondamentale è il pregresso TS, inoltre il periodo più pericoloso è quello immediatamente dopo un TS. Altri fattori coinvolti sono l'alcolismo, la solitudine, la mancanza di empatia, la conflittualità e l'intollerabilità della perdita. Fattori protettivi sono la presenza dei familiari e dei curanti. Dal Focus Group emerge un certo grado di soddisfazione da parte dei pazienti coinvolti, anche se c'è un certo livello di stigmatizzazione. La sopravvivenza al TS è un'esperienza "catartica", un momento di riflessione. La vicinanza dei curanti è un'esigenza per i pazienti. È necessario una figura che faciliti il contatto e l'ascolto. Inoltre è importante, per la prevenzione del suicidio, favorire gruppi di auto aiuto analoghi a questi Focus Group.
Comportamenti autolesivi e adolescenza: significati e programmi terapeutici. Una metodologia psicoterapica psicoanalitica operativa con figli e genitori – Prof.ssa S. Penati 
Il lavoro presentato fa riferimento all'attività ambulatoriale della Clinica Psichiatrica di S.Martino è stato valutato un campione di 170 giovani tra 14 e 21 anni divisi tra pazienti con in amnamesi un TS e pazienti con comportamenti marcatamente autodistruttivi (abuso di sostanze, comportamenti a rischio..). Le diagnosi maggiormente rappresentate nei due gruppi sono quelle di disturbi dell'umore, disturbi della condotta e abuso di sostanze. Un dato particolarmente significativi costituito dall'elevata percentuale di genitori separati in entrambi i gruppi. Il corpo nell'adolescente è oggetto di attacco, simbolizza il legame con i genitori, è scisso e non integrato, è un nemico di cui liberarsi. Gli agiti sul corpo sono spesso preceduti da sintomi fisici, impulsività, scarsa fiducia, bassa autostima, fragilità narcisistica, estrema sensibilità alla perdita. Viene esposta la metodologia operativa dell'ambulatorio. I pazienti spesso giungono su richiesta dei medici di base o pediatri, le problematiche più descritte sono insuccessi scolastici, cattivo rapporto col cibo, paura di esami, inadeguatezza,� un dato emergente è la difficoltà di traduzione dei sogni e delle aspettative in realtà. Altro aspetto importante nella terapia sono i colloqui con i genitori, realizzati per allearsi alle parti sane di essi e promuovere le loro capacità genitoriali.
Le scarificazioni: tra esperienza culturale e manifestazioni di autolesionismo – Prof. G. Del Puente
Tatuaggi scarificazioni automutilazioni sono stati indagati sia sotto l'aspetto sociologico sia antropologico. Lo scopo dell'intervento è di investigare il significato simbolico che viene dato al corpo. Sono state usate sia interviste che diverse esperienze raccontate in siti internet. La differenza tra tatuaggi e scarificazioni e autolesionismo è data dal fatto che i primi hanno come obiettivo la costituzione dell'identità mentre nel secondo lo scopo è di inibire il pensiero. Quest'ultimo è socialmente considerato in modo negativo. Chi lo pratica vuole tentare di ridurre l'ansia e regolare la rabbia, mettere dei confini alla sensazione di derealizzazione e depersonalizzazione. Tatuaggi e scarificazioni sembrano solidificare un sentimento mentale che sarebbe effimero, si vuole, in questo caso, non affidare un'emozione alla fragilità della memoria. La scarificazione è un messaggio mitico, scelto dalla storia personale che viene legato in qualche modo alla storia collettiva. Con queste metodiche si va alla ricerca di un'identità a fior di pelle. Il (di)segno del tatuaggio e della scarificazione in cui c'è la volontà di comunicare un messaggio, volontariamente; nella scarificazione autoprovocata inizia invece ad apparire un sintomo, involontario, che può concretizzarsi nell'autolesionismo.
Il corpo diviso: anoressia e obesità – Prof.ssa M. Bellomo
Scopo della studio è di fornire alcuni strumenti diagnostici e terapeutici per la cura di questi disturbi. Sono state valutate 120 pazienti che avevano diagnosi di AN, BN, BED, DCA NAS. Sono stati utilizzati: valutazione psichiatrica, intervista, MMPI2, valutazione internista-nutrizionale. Con MMPI2, attraverso scale che valutano depressione, malessere fisico e scissione, si vuole analizzare il profilo personologico sovrapposto tra AN e BN. Emerge scissione rappresentazione simbolica del corpo e corporeità, cecità psichica, corpo diviso, scissione dell'io corporeo. Il protocollo terapeutico usato prevede l'uso di farmaci SSRI associati ad ansiolitici, psicoterapia psicodinamica a breve termine (6-8 mesi) costituita da una prima fase di motivazione al trattamento, all'integrazione del corpo, alla mitigazione delle componenti autodistruttivi e riabilitazione nutrizionale. Il trattamento è stato applicato al 30% delle pazienti con una diminuzione del drop-out dal 23 al 15%.
Al termine del simposio viene aperta la discussione che mette in evidenza il problematico trattamento dell'adolescente, diviso tra centro adolescenza e neuropsichiatria infantile. Inoltre affrontato il difficile argomento della relazione terapeutica nell'anoressia nervosa, in questo senso un importante aiuto è dato dalla riabilitazione nutrizionale.
a cura di W. Natta, D. Prestia, S. Puppo

SIMPOSIO TEMATICO : EFFICACIA DELLE TERAPIE DEI DISORDINI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE: EFFETTI POSITIVI E NEGATIVI DEL BACKGROUND GENETICO, DI NEUROSVILUPPO BIOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Moderatori: F. Brambilla, P. Monteleone

Il simposio si apre con l'intervento della prof.ssa F. Brambilla (DSM Ospedale Sacco, Milano) su "L'importanza delle basi biologiche nella scelta terapeutica dell'Anoressia Nervosa", in cui vengono presentati due studi relativi al riscontro di alterazioni del sistema dopaminergico e serotoninergico cerebrale nell'Anoressia Nervosa: il primo sulla somministrazione di olanzapina/placebo associati a Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), controllando i valori plasmatici di acido omovanillico (HVA) come indicatori di funzionalità dopaminergica, ed utilizzando le scale di valutazione EDI-2, BYTE, Y-BOCS Cornell, Buss-Durke ed Hamilton; il secondo studio sulla somministrazione di fluoxetina associata a CBT, controllando la risposta di prolattina alla somministrazione di fenfluramina come indicatore di funzione serotoninergica e le scale Hamilton ed EDI-2. I risultati di tali studi, pur portando risultati significativi sul piano biologico e psicopatologico, non hanno permesso di chiarire il meccanismo d'azione del farmaco nel produrre il miglioramento psichico che è stato evidenziato Prosegue il prof. P. Monteleone (Università di Napoli) su "Il ruolo dei fattori genetici nei Disturbi del Comportamento Alimentare", illustrando uno studio in cui è stata valutata la frequenza del polimorfismo 3111T/C del gene CLOCK in donne con Anoressia Nervosa, ed il polimorfismo s/l del promotore del trasportatore della serotonina, correlando con l'esito del trattamento farmacologico. I dati dello studio, ancora in una fase preliminare, hanno suggerito che il polimorfismo del gene CLOCK non è verosimilmente coinvolto nel determinare la vulnerabilità biologica all'AN e alla BN, ma potrebbe predisporre le pazienti ad una più grave ed importante riduzione del peso corporeo nel corso della loro malattia.
Di seguito il prof. P. Santonastaso (Università di Padova) con una relazione dal titolo "Neurosviluppo, disturbi cognitivi e risposta al trattamento dei disordini del comportamento alimentare" presenta uno studio recentemente svolto dal suo gruppo di lavoro che mostra come le complicanze perinatali possano avere un ruolo nell'eziopatogenesi dei disturbi del comportamento alimentare. I risultati hanno evidenziato come non esista una differenza significativa tra soggetti con complicanze perinatali o senza per quanto riguarda la percentuale di remissione completa dei sintomi, mentre se si usa come criterio il miglioramento significativo dei sintomi, la percentuale si mostra significativamente maggiore nel gruppo senza complicanze ostetriche, sia nell'AN che nella BN.
Conclude la prof.ssa C. E. Ramacciotti (Università di Pisa) su "CBT e IPT nei Disturbi della Condotta Alimentare. Trattamenti alternativi, combinati o sequenziali", che, ricordando che in questi ultimi anni le psicoterapie che hanno dimostrato una buona efficacia e un ampio consenso sono la CBT e la Psicoterapia interpersonale (IPT), sottolinea le caratteristiche di entrambe, soffermandosi in particolare sulla IPT, nata dapprima per i pazienti depressi, ispirata alla scuola interpersonale di Meyer e sviluppata da Sullivan. Ricorda come nei DCA i due trattamenti sono stati spesso adottati separatamente, talora in modo sequenziale, e sottolinea la necessità di strategie diverse, come ad esempio la combinazione di entrambe.

LA TERAPIA FARMACOLOGICA DIMENSIONALE DEI DISTURBI SESSUALI
Il Prof. G. Cociglio apre la conferenza ripercorrendo la storia dello sviluppo teorico in sessuologia. Grazie al contributo di Master e Johnson, negli anni '60, e della Kaplan, negli anni '70, si è iniziato a considerare gli aspetti della sessualità in modo dimensionale, anziché statico e categoriale, tenendo conto delle interrelazioni tra i vari fattori: si arriva quindi alla concezione trifasica Desiderio-Eccitazione-Orgasmo, che andrebbe sempre considerata in senso circolare, viste le strette connessioni di questi elementi. Al centro di questo cerchio ideale si pone la dimensione del Piacere, che funge da collegamento tra i precedenti fattori. La sessualità non si limita, tuttavia, alla semplice somma di questi elementi, ma coinvolge l'intera personalità dell'individuo ed il suo sentimento di identità (ovvero la consapevolezza e la percezione del proprio Sé sessuato).
Negli anni '80, superati gli anni dell'emancipazione sessuale, si prova a rivalutare la dimensione dell'affettività e a privilegiare la qualità, più che la quantità, dei rapporti sessuali. Progressivamente, quindi, il centro dell'attenzione terapeutica si sposta dal singolo individuo alla coppia. La relazione diadica, infatti, a livello fantasmatico, si identifica con la sessualità stessa, come un'immagine archetipa che accende l'eccitazione erotica, indipendentemente dal fatto che si svolga un'attività sessuale o meno, e dal tipo di attività. 
Attualmente si riconoscono sempre più le dimensioni creative della sessualità, che trascendono le esigenze puramente procreative e di soddisfacimento pulsionale, portando ad un arricchimento della personalità dell'individuo, attraverso la simbolopoiesi (costruzione di nuovi oggetti interni) e la sublimazione (che conferisce vena creativa ad ogni artista, per la formazione di oggetti esterni).
Si arriva quindi ad analizzare il concetto di Amore, sentimento profondo e speciale, inteso come preoccupazione per l'oggetto in sé, indipendentemente da gratificazioni e bisogni superegoici. Questo presuppone, però, la consapevolezza della propria libertà, che deve accompagnare necessariamente l'oblazione di sé.
In base a questi presupposti teorici, il modello dimensionale si propone di individuare, attraverso un'attenta analisi del disturbo del paziente, l'elemento sessuale colpito primariamente, per effettuare un'adeguata scelta farmacologica. Se dal colloquio col paziente emerge un'ansia fobica nei confronti della sessualità, ad esempio, non si dovrà somministrare testosterone, ma ansiolitici ed antidepressivi. 
Il Prof. G. Abraham, partendo dalla sua esperienza come sessuologo, espone significative considerazioni sulla natura dei problemi sessuali nella società contemporanea.
I costumi sessuali, negli ultimi decenni, si sono infatti molto modificati: un tempo, uno degli stimoli principali di eccitamento sessuale era il clima di proibizione e di peccato che aleggiava in quest'ambito; oggi, invece, quello che era vietato è diventato non solo normale, ma quasi obbligatorio, innescando nell'uomo possibili problematiche relative all'autostima ed all'ansia di prestazione.
In passato, inoltre, regnava il mito di Don Giovanni, che aveva grandi capacità nel sedurre e conquistare donne, a patto di non doversi mai innamorare. Oggi, invece, l'uomo, secondo Abraham, vorrebbe coinvolgersi in affetti e in sentimenti profondi, ma avrebbe paura di non riuscirvi.
L'idea stessa di piacere sessuale, in certe situazioni, può evocare ansie e indurre strategie di evitamento, ancora più di quanto avviene per il dolore. Il piacere, infatti, è qualcosa di fugace, incostante, che l'individuo può avere la sensazione di non riuscire a padroneggiare, inducendo timori di perdita e di abbandono (alla luce anche della propria storia personale).
Nella scelta di un farmaco per risolvere le disfunzioni sessuali è necessario tenere conto di tutti questi elementi, dalla consapevolezza che la componente psicoemotiva interagisce sempre con quella organica. Il disturbo sessuale andrebbe sempre inquadrato, inoltre, nel contesto della coppia, anche quando si prescrive un farmaco: esso, inevitabilmente, susciterà reazioni emotive e fantasie che si ripercuoteranno non solo sull'individuo designato, ma anche a livello diadico.


A cura di Gabriele Giacomini e Valentina Vinciguerra

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