Pochi interrogativi nella storia hanno suscitato una vicenda intellettuale tanto interessante quanto il problema della coscienza e del suo posto nella natura. Prima del 1859, l'argomento era noto come la questione mente-corpo, con le sue svariate e talvolta macchinose soluzioni. Mutò nel problema della coscienza e della sua origine nell'evoluzione dopo quella fatidica data, l'anno in cui Darwin e Wallace indipendentemente proposero la selezione naturale come fondamento dell'evoluzione.
Ora, questo problema è il primo punto su cui oggi vorrei soffermarmi. Infatti, se esso risulta di immediata comprensione per un qualsiasi avvocato d'esperienza, così non è, paradossalmente, per il filosofo, lo psicologo, il neuroscienziato — gente abituata a ragionare in modo del tutto differente. Ciò che dobbiamo spiegare è il contrasto, ovvio per un bambino, tra il mondo nascosto e tutto interiore delle fantasie, dei ricordi e dei pensieri, ed il mondo intorno a noi, esteriore e pubblico. La teoria dell'evoluzione spiega elegantemente l'anatomia delle specie; ma dalla mera materia — da mere molecole, mutazioni, anatomie — come approdare a quella ricca esperienza interiore che ci accompagna ogni giorno e, grazie ai sogni, anche ogni notte? Ecco il problema che affronteremo in questo simposio.
Soluzioni precedenti
Le soluzioni che ereditiamo dal passato sono illusorie. Una delle più complesse ma storicamente interessanti (associata a filosofi come Perry, 1912, o Whitehead, 1925) è una vaga analogia che passò sotto il nome di neo-realismo. Essa sembrava affermare che, poiché la materia interagente può essere ridotta a relazioni matematiche, come in qualche modo è per le nostre percezioni e relazioni interpersonali, allora la coscienza deve avere origine in quella stessa materia. Sfortunatamente, questa troppo astratta nozione conosce oggi nuove formulazioni e nuovi successi, grazie ad alcuni fisici motivati dai sorprendenti risultati della fisica quantistica (vedi ad esempio Wigner, 1972).
Una soluzione più popolare risale allo stesso Darwin. Nell'ultimo paragrafo de "L'origine delle specie" (Darwin, 1859) egli ci fa intendere che Dio avrebbe creato mente e corpo nei più antichi organismi primitivi: entrambi sarebbero poi evoluti parallelamente. Ma questo significava abbandonare il problema alla metafisica, e presto si sentì l'esigenza di stabilire un criterio che consentisse di individuare chiaramente la coscienza. Sembrò ovvio, nel clima empiristico dell'epoca, che tale criterio dovesse essere l'apprendimento. Così l'interrogativo divenne: quando si è originato l'apprendimento nell'evoluzione? Molti non hanno compreso la ragione per cui, nelle prime due decadi di questo secolo, tanti psicologi studiavano l'apprendimento animale, per esempio il maze-learning nei topi: essi indagavano la coscienza animale ad un livello primitivo, così da poterne tracciare l'evoluzione. E come la dottoressa Witelson ha fatto notare nella sua puntuale introduzione, per molti anni questo è stato anche il nucleo del mio lavoro. Tutto ciò, ora lo riconosco, non ha nulla a che fare con la coscienza. È un errore che affonda le sue radici in John Locke e nel pensiero empirista: in base ad esso, la mente sarebbe uno spazio dentro cui si trovano libere idee fluttuanti, e in ciò consisterebbe la coscienza. Nel percepire cose contigue, contrastanti o in rapporto secondo le altre cosiddette leggi di associazione, le idee corrispondenti si combinerebbero insieme. Di conseguenza, se si riesce a mostrare l'apprendimento in un animale, ciò che in effetti si sta mostrando è l'associazione di idee, ossia la coscienza. Un ragionamento estremamente confuso, un abbaglio di cui tornerò presto a parlare.
Vi sono state naturalmente altre soluzioni. Huxley (1896) formulò la teoria dello spettatore impotente, secondo cui la coscienza è ciò che osserva il comportamento senza poter fare altro. Se ciò è vero, perché la coscienza esiste? Per salvarci da una tale visione pessimistica è sopraggiunto il pensiero dell'evoluzione emergente. Esso è stato quasi interamente sviluppato da Lloyd Morgan (1923), sebbene l'idea di fondo risalga al XIX secolo. L'acqua ne è un semplice esempio: se si prendono l'idrogeno e l'ossigeno, non si possono derivare dai due le proprietà dell'umido o dell'acqua: l'umido è un emergente. Analogamente, quando nell'evoluzione si raggiunge una certa quantità di tessuto cerebrale, ecco che improvvisamente appare la coscienza. La coscienza è un emergente, non derivabile da ciò che le preesisteva. Anche questa teoria celebra oggi una propria rinascita negli scritti di alcuni neuroscienziati. Sul piano analitico essa non genera ipotesi e non ci dice nulla sui processi coinvolti. L'evoluzione emergente è un'etichetta dietro cui nascondere la nostra ignoranza.
Ciò che oggi presenterò è una soluzione di genere differente, che mi ha stupito sia per la ricchezza di ipotesi specifiche e verificabili cui dà vita, sia per la direzione in cui ha forzato il mio lavoro. Prima però è necessario affrontare risolutamente il problema di cosa sia la coscienza. Come premessa a ciò, indicherò anzitutto alcune cose che la coscienza non è.
Ciò che la coscienza non è
Innanzitutto la coscienza non è l'intera attività mentale. Lo sappiamo tutti: vi sono innumerevoli attività che il nostro sistema nervoso compie automaticamente per noi. Tutti i fattori costanti della percezione (per esempio dimensione, luminosità, colore, forma) che il nostro sistema nervoso preserva nonostante continui mutamenti ambientali — cambi di luce, distanza, angolo visuale — oppure il permanere degli oggetti al loro posto — costante di posizione — durante i nostri spostamenti: tutto questo accade senza alcun aiuto da parte della coscienza introspettiva.
Così è anche per un'altra ampia categoria di attività che possiamo chiamare "preoptive", come il modo in cui ci sediamo, camminiamo, muoviamo. Queste attività si svolgono senza la coscienza, fintanto che non decidiamo di essere consci di esse — la natura "preoptive" della coscienza. Persino mentre parlo la coscienza ha un ruolo più di interpolatore che di guida costante delle mie parole. Ora io non sto consciamente considerando il mio bagaglio lessicale e consciamente selezionando termini da associare in strutture sintattiche. Invece, possiedo ciò che può essere ben descritto come intenzioni di significati, che io chiamostruzioni; dispongo poi di strutture linguistiche abitudinarie che si succedono senza ulteriori istruzioni dalla mia coscienza. Analogamente, nell'ascoltare, come voi, qualcuno che parla, di cosa si è coscienti? Se si trattasse del flusso dei fonemi o, a un livello superiore, di morfemi e parole, voi non .sareste in grado di capire ciò che voglio comunicare.
A volte si confonde la coscienza con le semplici percezioni sensoriali. Storicamente, la nostra idea di percezione sensoriale è un'astrazione desunta dalla presa di coscienza degli organi di senso. Le nostre supposizioni su mente e materia o anima e corpo ci hanno quindi portato a giudicare questi processi come determinati dalla coscienza. Non è così: se qualcuno di voi è ancora convinto che la coscienza sia una parte necessaria della percezione sensoriale, egli si trova già sulla strada di una reductio ad absurdum. Sarà infatti costretto ad ammettere che tutti gli animali, avendo percezioni sensoriali, sono coscienti; proseguirà all'indietro lungo l'albero dell'evoluzione sino ai protozoi monocellulari che, reagendo a stimoli esterni, dovrebbero essere coscienti; oppure guarderà alle piante monocellulari come l'alga chlamydomonas, con il suo sistema visivo analogo al nostro, o addirittura ai globuli bianchi del sangue che percepiscono i batteri e li divorano. Anche loro coscienti. Diecimila esseri coscienti per millimetro cubo di sangue, dispersi lungo le montagne russe del sistema vascolare di ognuno di noi: una posizione che, io credo, pochi di voi questo pomeriggio vorranno difendere.
Che la coscienza si trovi in ogni cosa che facciamo è un'illusione. Supponiamo di chiedere ad una torcia in una stanza completamente buia di guardarsi intorno e giudicare quanta luce c'è nel luogo in cui si trova: in qualsiasi direzione si volti la torcia vedrà la propria luce e giungerà alla conclusione che la stanza è pienamente illuminata, quando in effetti è piuttosto il contrario. Così è per la coscienza: essa ci dà l'illusione di essere l'intera attività mentale. Guardate al passato, ai dibattiti che venivano condotti su questo argomento nel XIX secolo e all'inizio del XX: è proprio questo l'errore che metteva gli studiosi in tanta difficoltà, ed oggi le cose non sono molto cambiate.
In secondo luogo, la coscienza non è una copia dell'esperienza. Anche questo errore risale agli esordi dell'empirismo, quando Locke (1690) parlava della mente come di "un foglio bianco senza caratteri, senza alcun concetto" (Saggio II, 1.2) sul quale viene trascritta l'esperienza. Se a quel tempo fosse esistita la macchina fotografica, io credo che Locke l'avrebbe preferita al foglio per la sua metafora fondamentale: potremmo allora dire che nell'esperienza cogliamo immagini successive del mondo, le sviluppiamo negli acidi della riflessione, quindi osserviamo concetti, ricordi e tutto il resto emergere all'esistenza.
Eppure possiamo dimostrare in due modi molto semplici che la coscienza non copia l'esperienza: (a) rilevando l'assenza di ricordi che dovremmo certo avere se la coscienza fosse appunto copia dell'esperienza, come — è solo uno tra innumerevoli esempi — sapere gli abbinamenti di numeri e lettere sulla tastiera telefonica: sebbene tutti abbiamo osservato quella tastiera migliaia di volte, so che quasi nessuno di noi saprebbe rispondere; (b) esaminando i nostri ricordi e notando che essi non sono strutturati allo stesso modo della nostra effettiva esperienza. Per usare un esempio di Donald Hebb (1961), pensate all'ultima volta che avete nuotato. La maggior parte delle persone, invece di pensare a quella complicata esperienza visiva, termica, propriocettiva e respiratoria come realmente è stata, tende a vedersi nell'atto di nuotare da un diverso punto di vista, magari sopraelevato; una cosa di cui ovviamente non ha mai avuto esperienza. La memoria cosciente non copia l'esperienza, ma la ricostruisce secondo ciò-che-deve-essere-stato. Alcune recenti teorie costruttiviste della memoria sono molto vicine a questa mia impostazione.
Terzo, la coscienza non è necessaria per l'apprendimento — e qui ritorno all'errore di cui, come accennavo prima, anch'io sono stato vittima. Se guardiamo ai modelli di apprendimento più primitivi, come il condizionamento pavloviano, vediamo che essi ricorrono in situazioni in cui nessuno riterrebbe plausibile un intervento cosciente (pensate a certi esperimenti sulle zampe posteriori di scarafaggi decapitati). Negli esseri umani, non solo la coscienza non assiste l'acquisizione di risposte condizionate, ma impedisce persino il condizionamento una volta che il soggetto sia stato reso consapevole delle circostanze (Razran, 1971).
Altrettanto si può dire per l'apprendimento di abilità motorie: esso si verifica senza un grande ausilio della coscienza. Ciò è stato ampiamente studiato negli anni '20 in relazione a telegrafia, stenografia e altre simili tecniche che all'epoca erano di grande importanza. L'apprendimento appariva ai soggetti come fosse "organico" (questa è una delle parole che usavano). Si meravigliavano che la coscienza non assumesse in fase di apprendimento quel ruolo che era nelle aspettative.
L'apprendimento strumentale, o condizionamento operante, è un genere più complesso di apprendimento; potremmo chiamarlo apprendimento di soluzioni a problemi. È questo un vecchio tema della psicologia conosciuto come "apprendimento inconsapevole". Gli psicologi ricorderanno tra gli altri l'effetto Greenspoon (Greenspoon, 1955) e alcuni studi sull'apprendimento strumentale di piccoli movimenti muscolari inconsapevoli (Hefferline, Keenan & Harford, 1959). Si tratta di studi troppo complessi perché io possa addentrarmici in questa sede; mi pare però che ne possiamo ricavare che l'apprendimento strumentale non richiede un intervento cosciente.
Con ciò non voglio dire che la coscienza non giochi alcun ruolo in tutte queste categorie di apprendimento umano. Essa opera decidendo cosa va imparato, o creando regole per imparare meglio, o verbalizzando coscientemente certi aspetti di un problema. Tutto ciò però non è apprendimento in senso proprio. E quanto sostengo qui è che, per l'apprendimento in senso proprio, la coscienza non è necessaria.
A questo punto, qualcuno potrebbe farmi osservare il noto fenomeno dell'automatizzazione dell'abitudine. Quando ne facciamo esperienza, abbiamo l'impressione che un certo compito che inizialmente ha richiesto la guida della nostra coscienza venga poi eseguito, man mano che si perfeziona l'abitudine, con un progressivo allentamento della coscienza e un minore sforzo. Questo stesso appianamento, questo incremento dell'abilità attraverso la pratica abituale è un dato universale per tutti gli animali capaci di apprendere. Un fenomeno generalizzato in cui ciò che si accompagna al miglioramento delle prestazioni non è necessariamente o principalmente il venir meno della coscienza, quanto piuttosto la diminuzione dell'attenzione vincolata nell'attività in corso. E l'attenzione (specificamente l'attenzione esteriore, che è un'intensificazione della percezione sensoriale) non è necessariamente conscia. Prendiamo due monete, una per mano, e lanciamole una verso l'altra sino a che non impariamo ad afferrarle con la mano opposta; per acquisire questa abilità servono tra i 15 e i 20 tentativi. Se vorrete provarci questa sera e se presterete attenzione alla vostra coscienza durante i lanci, scoprirete che la coscienza ha poco a che fare con il processo di apprendimento, che sembrerà invece procedere meccanicamente. Piuttosto, potreste rendervi conto della vostra goffaggine o della stupidità di quanto state facendo mentre raccogliete le monete dal pavimento; al momento del successo la vostra coscienza potrà essere sorpresa o persino fiera della vostra maggiore destrezza, ma sarà l'attenzione ad essere cambiata. L'automatizzazione è una diminuzione di attenzione, non di coscienza.
La quarta facoltà per cui la coscienza non è necessaria, e ciò può sembrare paradossale, è il pensiero o ragionamento. Proprio la definizione di termini come pensiero e ragionamento costituisce forse il maggior problema in quest'area, ma se assumiamo la definizione più semplice di pensiero, possiamo senz'altro mostrare che la coscienza per esso non è necessaria. Per farlo, chiamiamo in causa uno degli esperimenti dimenticati della psicologia. È un test così semplice che oggi potremmo considerarlo stupido, eppure trovo che esso sia tanto importante nella storia della psicologia quanto il complesso esperimento di Michelson e Morley lo è nella storia della fisica (Swenson, 1972): come questo ha dimostrato che l'etere non esiste, così l'esperimento che voglio descrivere ha reso evidente che il pensiero non è cosciente, aprendo la strada a teorie come quella che qui sostengo.
L'esperimento a cui mi riferisco è stato compiuto per la prima volta nel 1901 da Karl Marbe (1901), dottorando a Würzburg in un'epoca della scienza in cui la coscienza veniva per la prima volta studiata sistematicamente. Utilizzando come soggetti i suoi professori, ognuno dei quali aveva vaste conoscenze in campo di esperimenti sull'introspezione, egli chiese di formulare un semplice giudizio: tra due pesi di identico aspetto, i soggetti dovevano scegliere quale fosse il più pesante. Sullo sfondo della psicologia sperimentale dell'epoca, il risultato era sconvolgente. Non c'era contenuto cosciente nel giudizio effettivo, sebbene tale giudizio fosse incastonato nella consapevolezza del problema, delle sue componenti, della sua tecnica risolutoria.
Così è iniziata quella che chiamiamo la Scuola del Pensiero senza Immagini di Würzburg che, attraverso gli esperimenti di Ach, Watt, Kulpe e altri, ha condotto ai concetti di "set", "Aufgabe" e "tendenza determinante" — da me ribattezzati struzioni. Le struzioni sono istruzioni date al sistema nervoso che, combinandosi con i termini materiali del problema, producono automaticamente la soluzione senza pensiero o ragionamento cosciente. Questo schema va applicato alla maggior parte delle nostre attività, dalle più semplici come confrontare il peso di oggetti, ad altre più complesse come la risoluzione di problemi, sino all'attività scientifica e filosofica. La coscienza studia un problema e lo prepara in forma di struzione, in un processo che può sfociare nell'improvvisa apparizione della soluzione come se questa saltasse fuori dal nulla. Durante la seconda guerra mondiale, alcuni fisici britannici raccontavano di non aver più fatto scoperte in laboratorio; le loro scoperte, dicevano, avevano luogo nelle "tre B": the bath (il bagno), the bed (il letto), the bus (l'autobus). E, come già accennavo prima, su una scala minore lo stesso processo avviene in me mentre parlo: è come se le parole fossero scelte in vece mia dal mio sistema nervoso, dopo che io ho dato la struzione del significato da comunicare.
Infine, in calce a questa lista di malintesi sulla coscienza, una parola sul luogo in cui essa si trova. La maggioranza delle persone, eccettuati certo i presenti, che hanno a lungo riflettuto sulla coscienza e l'hanno quindi posta in una "esteriore" sfera intellettuale, tende a pensare la coscienza come uno spazio, di norma collocato dentro la testa, secondo l'intuizione che fu già di Cartesio, Locke e Hume. In particolare, quando ci guardiamo l'un l'altro negli occhi, tendiamo subliminalmente a inferire un tale spazio negli altri. Naturalmente non esiste alcuno spazio di questo tipo. Lo spazio della coscienza, che da qui in poi chiamerò spazio-mente, è uno spazio funzionale che non ha altra sede di quella che vogliamo assegnargli. Pensare la coscienza come quel qualcosa nelle nostre teste che si riflette e si lascia esplorare nell'introspezione o nell'interiorizzazione è una cosa tanto naturale quanto arbitraria. Non voglio certo dire che la coscienza sia separata dal cervello; secondo quanto affermano le scienze naturali, ciò non è vero. Ma noi usiamo il cervello anche per andare in bicicletta, e nessuno ritiene che la sede del pedalare sia nella testa. L'ubicazione fenomenica della coscienza è puramente arbitraria.
Per riassumere brevemente: la coscienza non è l'intera attività mentale, non è necessaria per le sensazioni e le percezioni, non è una copia dell'esperienza, non è necessaria per l'apprendimento né per il pensiero e il ragionamento; la sua ubicazione, infine, è del tutto arbitraria e funzionale. Come preludio a quanto dirò più tardi, vi invito ad osservare che possiamo ora concepire l'esistenza di esseri umani che, in un passato remoto, abbiano fatto più o meno tutto quello che facciamo noi — parlare, comprendere, percepire, risolvere problemi — essendo però privi di coscienza. È una possibilità per me molto importante.
Se quanto detto sinora sembra un ritorno a posizioni di behaviorismo radicale, bisognerà adesso chiedersi cosa sia la coscienza, dal momento che stimo un fatto incontestabile l'esistenza effettiva delle mie introspezioni, dei miei ricordi, delle mie fantasie. Procederò quindi delineando la mia teoria nel modo più essenziale, per illustrarla poi sotto diverse prospettive.
Cos'è la coscienza
La mente conscia soggettiva è un analogo di ciò che chiamiamo il mondo reale. Essa viene costituita con un vocabolario o campo lessicale i cui termini sono tutti metafore o analoghi del nostro comportamento nel mondo fisico. La sua realtà è dello stesso ordine della matematica. Essa ci consente di abbreviare processi comportamentali e di pervenire a decisioni più efficaci. Come la matematica, è più un operatore che una cosa o un serbatoio, ed è intimamente connessa alla volizione e alla decisione.
Considerate il linguaggio che usiamo per descrivere processi consci. Il gruppo più consistente di parole che descrivono eventi mentali è attinto al campo visivo. Nei problemi noi "vediamo" soluzioni che potranno essere "brillanti" e "chiare", ma anche "oscure" e "fumose". Queste parole sono tutte metafore e lo spazio-mente cui si applicano è generato da metafore dello spazio reale. In questo spazio noi possiamo "affrontare" un problema da un certo "punto di vista" per "venire alle prese" con le sue difficoltà. Ogni parola che usiamo per riferirci ad eventi mentali è una metafora o analogo che ha la sua origine nel mondo del comportamento, e gli stessi aggettivi con cui descriviamo il comportamento fisico nello spazio reale sono trasposti per analogia nella descrizione del comportamento mentale nello spazio-mente. Riferendoci alla mente cosciente, possiamo parlare di mente "svelta" o "tarda", di ingegno "agile", "forte" o "debole" e ancora di mente "aperta", "profonda" o "ristretta". E, proprio come fossimo in uno spazio reale, qualcosa può essere "nei recessi" o "al di là" delle nostre menti.
Eppure voi potreste argomentare che la metafora è un mero paragone, da cui non possono scaturire nuove entità come la coscienza. Una appropriata analisi della metafora dimostrerà che le cose non stanno affatto così. In ogni metafora vi sono due termini essenziali: la cosa che stiamo cercando di esprimere a parole, il metaferendo, ed il termine che realizza la relativa intenzione di significato, o struzione, il metaferente. Una distinzione analoga è quella pensata da Richards (1936) tra tenore e veicolo, termini più adatti alla poesia che all'analisi psicologica; orecchiando gli aritmetici "moltiplicando" e "moltiplicatore", i termini da me scelti insistono invece sull'idea della metafora come operatore. Se dico che la nave solca il mare, il metaferendo è il modo in cui lo scafo procede attraverso l'acqua, il metaferente è l'azione dell'aratro.
Un esempio più significativo: immaginiamo una persona, all'epoca della formazione del nostro vocabolario mentale, alle prese con un problema da risolvere o un'attività da apprendere. Per esprimere il suo successo, egli potrà esclamare improvvisamente: "Ora vedo la soluzione!". Il metaferente "vedere", scelto tra i comportamenti fisici del mondo reale, consente di esprimere un evento mentale altrimenti inesprimibile, il metaferendo.
Ma i metaferenti spesso richiamano associazioni, da me battezzate paraferenti, che a loro volta si ripercuotono sul metaferendo nella forma di quelli che chiamo i paraferendi —e così, davvero, nuove entità vengono create. La parola "vedere" richiama per associazione il vedere nel mondo fisico, in particolare nello spazio; questo spazio diventa poi un paraferendo non appena connesso con il relativo evento mentale o metaferendo.
In questo modo, la natura spaziale del mondo intorno a noi viene integrata nel fatto psicologico di risolvere un problema (che come ho indicato non richiede coscienza). Ed è proprio la qualità spaziale coinvolta dall'associazione a diventare, con l'uso costante del linguaggio scelto per descrivere simili eventi mentali, la qualità spaziale della nostra coscienza. Lo spazio dell'introspezione "preoptive" che voi tutti state eseguendo in questo preciso istante.
Ora, chi è il soggetto del "vedere"? Chi il protagonista dell'introspezione? Facciamo entrare in gioco l'analogia, che, diversamente dalla metafora, è più una somiglianza tra relazioni che tra cose o azioni. Come il corpo con i suoi organi di senso — cui possiamo riferirci come "io" — sta al vedere fisico, così si sviluppa automaticamente un analogo "io" da porre in relazione col particolare genere di "visione" dello spazio-mente. L'analogo "io" è la seconda caratteristica fondamentale della coscienza, e non dev'essere confuso col "sé", un contenuto della coscienza stessa in un successivo sviluppo. L'analogo "io" è privo di contenuto, paragonabile all'io trascendentale di Kant (1781). Allo stesso modo in cui l'"io" fisico si muove nel suo ambiente osservando questo o quello, così l'analogo "io" impara a "circolare" nello spazio-mente concentrandosi su una cosa o l'altra. Se nel nostro primo esempio vi siete "visti" nuotare, era il vostro analogo "io" che vi stava "guardando".
Una terza caratteristica della coscienza è la narratizzazione, la simulazione analogica del comportamento reale. È un attributo che, per quanto ovvio, sembra essere sfuggito a tutte le precedenti discussioni "sincroniche" della coscienza. Costantemente impegnata nell'inserire i suoi oggetti dentro una storia, nell'attribuire loro un prima e un poi, la coscienza realizza come successione temporale nello spazio-tempo ciò che nel mondo fisico è la successione spaziale in cui si muovono i nostri sé fisici. Questa è dunque l'origine della concezione conscia del tempo, un tempo spazializzato in cui collocare gli eventi e le nostre stesse vite. Non abbiamo altra possibilità di concepire il tempo se non come pensiero di uno spazio.
Altre caratteristiche della coscienza posso solo menzionarle: la concentrazione, l'analogo "interiore" dell'attenzione percettiva esteriore; la soppressione, tramite la quale smettiamo di essere coscienti di pensieri sgraditi, l'analogo del nostro distoglierci da quanto è disturbante nel mondo fisico; la selezione, l'analogo della modalità percettiva per la quale cogliamo nelle cose solo un aspetto per volta; e la conciliazione, l'analogo dell'assimilazione percettiva. E altri ancora: in nessun modo il mio elenco pretende di essere esaustivo. La regola essenziale è che non vi sono operazioni nella coscienza che non siano state prima nel comportamento: gli atti mentali sono analoghi appresi dall'azione esteriore.
Gli psicologi vengono spesso giustamente accusati del vizio di reinventare la ruota, farla quadrata e chiamarla "una prima approssimazione". Non credo che una tale critica possa essere mossa alla mia esposizione, che tuttavia troverei appropriato definire una prima approssimazione. La coscienza non è un argomento semplice: non bisogna parlarne come se lo fosse. Non ho nemmeno illustrato le differenti modalità di narratizzazione della coscienza (verbale, percettiva, corporale, musicale), le quali sembrano tutte distinte e dotate di specifiche proprietà. Tuttavia abbiamo detto abbastanza, io credo, per poter ritornare al problema evoluzionistico che ho esposto all'inizio, quel problema che tanto inquieta biologi, psicologi e filosofi.
Nel domandarci quando sia iniziato tutto questo mondo "interiore", giungiamo finalmente al più importante spartiacque della nostra discussione. Dire che la coscienza si è sviluppata dal linguaggio, significa dire che tutti, da Darwin in poi, abbiamo sbagliato nel cercare l'origine della coscienza in campo biologico o neurofisiologico; significa che il nostro sguardo deve rivolgersi alla storia umana dopo l'evoluzione del linguaggio, per scoprire quando in questa storia si è affacciato un analogo "io" narratizzante in uno spazio-mente.
E il linguaggio, quando si è evoluto? Altrove (Jaynes, 1976a) ho introdotto alcune idee su come il linguaggio potrebbe essersi sviluppato da modificazioni del richiamo: una ricostruzione nota come "Modello Wahee, Wahoo", attualmente in competizione con molti altri. Questa teoria suggerisce una datazione al tardo Pleistocene o era di Neanderthal, sulla base di diverse considerazioni: (1) tale periodo coincide con una spinta evoluzionistica verso la comunicazione verbale, per le necessità imposte dalla caccia ad animali di grossa taglia durante l'ultima era glaciale; (2) esso coincide anche con lo straordinario sviluppo delle specifiche aree del cervello coinvolte nel linguaggio; (3) infine, ciò che è singolare in questa teoria, a quest'epoca risale l'esplosiva moltiplicazione di utensili manufatti documentata dall'archeologia; noi sappiamo infatti che il linguaggio non è solo comunicazione, ma anche ciò che, agendo come un organo di percezione, orienta e fissa l'attenzione su attività e oggetti particolari rendendo possibile la creazione di utensili avanzati.
La suddetta teoria stima dunque l'età massima del linguaggio a 50 mila anni: un lasso di tempo entro il quale, ad un certo punto, deve aver preso forma la coscienza.
È una fortuna per il nostro quesito che dal 3000 a.C. gli uomini abbiano appreso la notevole arte della scrittura. Esaminando gli scritti più antichi dell'umanità, possiamo giudicare se in essi vi siano indizi dell'esistenza di un analogo "io" narratizzante in uno spazio-mente. Le prime scritture in caratteri geroglifici e cuneiformi sono molto difficili da tradurre, specialmente in riferimento a significati di ordine psicologico. Rivolgiamoci pertanto ad una lingua che conserva con noi una sufficiente continuità, quale ovviamente è il greco. Il primo testo greco abbastanza esteso da prestarsi al nostro proposito è l'Iliade. Possiamo ora chiederci se i personaggi dell'Iliade siano in grado di narratizzare con un analogo "io" nello spazio-mente , e se questa sia la modalità con cui essi prendono le loro decisioni.
La mente bicamerale
Innanzitutto, permettetemi di fare alcune considerazioni generali sull'Iliade. Secondo me, e secondo una buona metà dei classicisti, il poema nasce come poesia orale, recitata e composta nel medesimo tempo da molte generazioni di aoidoi. Come tale, contiene parecchie incongruità. Anche dopo essere stata trascritta intorno all'800 a.C. (forse da un uomo di nome Omero), essa è stata per secoli oggetto di interpolazioni. Pertanto vi sono numerose eccezioni a quanto sto per dire, come ad esempio il lungo discorso di Nestore nel libro XI, o la risposta retorica di Achille ad Odisseo nel libro IX.
Se però prendiamo quelle che sono generalmente accreditate come le parti più antiche del poema, e ci chiediamo se vi si possano trovare testimonianze della coscienza, la risposta, a mio parere, è no. I personaggi non si soffermano a meditare sul da farsi. Nessuno è introspettivo. Nessuno si abbandona al ricordo. È un mondo molto diverso dal nostro.
Ma, allora, chi prende le decisioni? Ogni volta che deve essere compiuta una scelta significativa, una voce entra in campo e comunica ai personaggi ciò che devono fare. Le voci vengono obbedite senza eccezione e immediatamente, e vengono chiamate dèi. Io credo che proprio questa sia l'origine degli dèi: allucinazioni uditive, simili (anche se non precisamente identiche) alle voci cui prestavano ascolto Giovanna d'Arco e William Blake, alle voci che percepiscono i moderni schizofrenici, alle voci che anche alcuni di voi hanno forse sentito. L'allucinazione uditiva ricorre, con diversi tempi e forme, quasi nella metà della popolazione totale (Posey & Losch, 1983), sebbene venga considerata come un sintomo molto significativo nella diagnosi di schizofrenia. Io stesso ho conosciuto, tramite interviste e rapporti epistolari, alcune persone assolutamente normali nelle cui vite improvvisamente si affacciavano periodi caratterizzati da articolate allucinazioni verbali, solitamente di natura religiosa. Al giorno d'oggi le allucinazioni verbali sono comuni; la mia ipotesi tuttavia è che all'inizio della civiltà esse dovevano essere universali.
Ho chiamato questa forma mentale dell'antichità, la mentalità degli uomini dell'Iliade, mente bicamerale, sul metaferente dell'assemblea legislativa bicamerale. Ciò significa soltanto che la mentalità umana era a quel tempo divisa in due parti, una parte decisionale e una parte esecutiva, nessuna delle due cosciente nel senso che ho riferito oggi al termine. E sarei felice se ora ricordaste la lunga discussione della coscienza con cui ho aperto il mio intervento, poiché essa si concludeva con la dimostrazione che l'essere umano può parlare e capire, apprendere, risolvere problemi e fare il più di ciò che noi facciamo senza essere cosciente. Tutto questo è ciò che l'uomo bicamerale poteva fare. Nella vita d'ogni giorno era una persona abitudinaria, ma quando sorgeva un problema tale da richiedere una soluzione diversa o più complessa di quella che l'abitudine poteva fornire, il semplice stress da decisione era sufficiente a provocare un'allucinazione uditiva. Non possedendo siffatto individuo uno spazio-mente in cui discutere o ribellarsi, tali voci andavano obbedite.
Ma perché dovrebbe essere esistita una forma mentale come la bicameralità? Pensiamo ai primi passi della civilizzazione nel Vicino Oriente, attorno al 9000 a.C.: l'agricoltura che si diffonde in molte regioni, le città e i grandi villaggi agricoli che prendono il posto delle piccole comunità di cacciatori e raccoglitori. In questo contesto, la spinta evoluzionistica per un nuovo tipo di controllo sociale avrebbe potuto giustificare l'avvento della mente bicamerale: essa consentiva ad un gruppo numeroso la memorizzazione in forma di allucinazioni verbali delle direttive del capo o del re, senza che questi dovesse essere costantemente presente. Io penso che l'allucinazione verbale sia evoluta durante l'era di Neanderthal parallelamente al linguaggio, quando entrambi servivano da aiuto per l'attenzione e la perseveranza nell'azione; solo più tardi sarebbe divenuta un modo per governare comunità allargate.
Si può facilmente dedurre che esseri umani dotati di una tale mentalità formassero una società del tutto particolare, severamente ordinata in rigide gerarchie con rigide aspettative organizzate nella mente, affinché le allucinazioni potessero preservare il tessuto sociale. Questa in effetti era la realtà dei regni bicamerali: teocrazie gerarchiche con a capo un dio, spesso un idolo, da cui si volevano originate le allucinazioni; o, più raramente, guidate da un uomo di natura divina che alle allucinazioni prestava la propria voce.
Queste civiltà compaiono in diversi settori del Vicino Oriente per poi diffondersi in Egitto, e dall'Egitto nel Kush in Sudan meridionale, sino all'Africa centrale. Verso nord esse si sviluppano in Anatolia, Creta, Grecia; quindi in India e in Russia meridionale; nascono persino nella penisola malese, dove rovine di una civiltà sconosciuta sono state appena scoperte in siti nord-tailandesi, e successivamente in Cina. Un millennio più tardi, inizia in Mesoamerica un percorso di civilizzazione che conduce agli Aztechi; l'influenza di questo processo giunge sino agli altopiani andini dove l'avvicendarsi di varie civiltà culmina nell'avvento degli Inca. Tutte queste civiltà (ogni storico dell'antichità potrebbe confermarlo) sono totalmente religiose, largamente dipendenti da dèi e idoli. E dovunque ci voltiamo, vediamo i segni di quella che chiamo la mente bicamerale.
I caratteri della civiltà bicamerale emergono più chiaramente dove la scrittura è presente sin dal 3000 a.C. In Mesopotamia a capo dello stato era una statua lignea: essa era di materiale leggero affinché potesse essere trasportata, portava gioielli al posto degli occhi, era profumata e riccamente vestita, veniva coricata ritualmente e fatta sedere dietro un grande tavolo (forse l'antenato dei nostri altari) nel gigunu, un'ampia stanza sulla sommità della ziggurat. Quello che noi chiamiamo il re era in realtà il primo intendente di questa statua-dio. Testi cuneiformi descrivono minutamente come le persone facessero visita alle statue-dio, ponessero loro delle domande e ricevessero da queste delle indicazioni. È difficile capire perché le menti (o i cervelli) degli uomini bicamerali avessero bisogno di un tale appoggio esterno per le loro voci; ho però il sospetto che ciò avesse a che fare con la necessaria differenziazione di un dio dall'altro.
Vorrei poi citare l'ipotesi, confortata da molti elementi — testimonianze scritte, struttura dei nomi personali, sigilli cilindrici — che ogni individuo avesse un proprio dio personale. In Mesopotamia questo era l'Ili, la cui radice torna forse nell'ebraico Eli ed Elhoim. In Egitto, il dio personale veniva chiamato ka, un termine rimasto sino ad oggi un enigma per l'egittologia.
Infine, l'ipotesi del dio personale potrebbe permetterci di interpretare "l'amico immaginario" dei bambini come una parte della nostra eredità bicamerale. Secondo dati raccolti sia da me che da altri ricercatori (Singer & Singer, 1984) almeno un terzo dei ragazzi moderni attraversa questa esperienza, che sembrerebbe implicare vere e proprie allucinazioni verbali. Nei rari casi in cui il compagno di giochi immaginario prosegue la sua esistenza oltre la fase infantile, esso cresce con il bambino e, nelle situazioni di stress, dà indicazioni sul da farsi. È inoltre possibile che proprio questa sia stata l'origine del dio personale nell'era bicamerale: un compagno immaginario che cresce con l'individuo, in una società le cui aspettative incoraggiano il bambino ad ascoltare voci, in età adulta come nell'infanzia.
Non ho il tempo di discutere le differenze tra teocrazie bicamerali, che pure sono tutte comprese all'interno di un modello di società rigidamente e saldamente gerarchica: almeno alcune di queste civiltà possono essere comparate a nidi di insetti sociali, con il controllo sociale affidato, invece che ai feromoni di un insetto regina, agli ordini allucinatori di un idolo. Tutto quindi funziona in esse come un orologio, a patto che non subentrino catastrofi o problemi strutturali.
Il crollo della mente bicamerale
Un tale sistema è ovviamente precario. L'enorme successo delle civiltà agricole bicamerali portò inevitabilmente alla sovrappopolazione e al caos: dopo un tempo di instabilità politica e sociale, la bicameralità dovette crollare come un castello di carte. Alcune civiltà entravano frequentemente in crisi; nel nostro continente accadeva che comunità Maya costruissero un complesso sacro e una città che, dopo alcuni secoli, venivano completamente abbandonati. Possiamo presumere che la crescita incontrollata della popolazione impedisse alle tante voci di trovare l'accordo necessario. Dopo secoli di organizzazione tribale, la popolazione tornava in qualche modo a raccogliersi ed un nuovo complesso di templi veniva costruito. Ecco perché oggi ci ritroviamo con tanti di questi complessi, rimasti a testimoniare la partenza improvvisa dei loro artefici.
In Egitto osserviamo la caduta della mente bicamerale tra i cosiddetti Regno Antico e Regno Medio, e di nuovo tra il Medio e il Nuovo Regno. Nelle scritture geroglifiche rimangono testimonianze di queste fasi oscure e caotiche.
La Mesopotamia fu la civiltà più stabile del pianeta: non si riscontrano segni di declino fino al 1400 a.C. circa. Successivamente, gli dèi cessano di essere rappresentati nelle arti figurative; in alcuni casi, compare l'immagine di un re inginocchiato di fronte ad un trono divino vuoto. Nulla di simile era mai stato raffigurato. Dalla letteratura otteniamo ulteriori indicazioni: in un poema epico, l'Epos di Tukulti-Ninurta, per la prima volta nella storia si parla di uomini abbandonati dagli dèi. La più grande opera letteraria dell'epoca, forse ispiratrice del libro di Giobbe, è il Ludlul Bel Nemequi, i cui primi versi leggibili sono così tradotti:
Il mio dio mi ha abbandonato ed è scomparso,
La mia dea mi è venuta a mancare e si tiene a distanza,
L'angelo buono che camminava al mio fianco è partito.
Il che ricorda molto da vicino alcuni salmi ebraici, per esempio il salmo 42.
Le ragioni di questa crisi sono numerose. Ho già menzionato la sovrappopolazione che sempre il successo della civiltà bicamerale portava con sé: di essa troviamo menzione nei testi dell'epoca. Vi sono poi le immense catastrofi naturali; l'eruzione sull'isola di Tera, famosa per aver ispirato il mito platonico di Atlantide, provocò uno tsunami che si abbatté su tutti i regni bicamerali intorno a quella regione del Mediterraneo; intere nazioni furono distrutte o costrette a gigantesche migrazioni; si invadevano altri paesi alla ricerca di una "terra promessa" dove stabilirsi con i propri dèi per edificare una nuova civiltà bicamerale. E io credo che, se ancora abbiamo problemi in quest'area del mondo, una delle ragioni sia da ravvisare in questo caotico passato.
Un'altra causa è la scrittura stessa, poiché ciò che è fissato con la scrittura può essere poi ignorato, non ha più potere sull'individuo, al contrario dell'allucinazione uditiva che deve forzatamente essere ascoltata. La scrittura, particolarmente con l'uso estensivo che se ne fece durante l'egemonia di Hammurabi, indebolì il potere dei comandi uditivi. La diffusione della scrittura, le complessità della sovrappopolazione, il caos delle migrazioni che sfociavano in enormi invasioni: tante sono le cause evidenti del tracollo. Un tracollo in cui molte cose nuove facevano la loro prima comparsa. E tra esse, io penso, anche la coscienza.
Numerose e nuove per la storia mondiale sono le conseguenze della perdita delle voci allucinate. L'idea del Cielo come luogo dove gli dèi si sono ritirati; l'idea di geni o angeli quali messaggeri tra il Cielo e la Terra; l'idea di dèi malvagi come i demoni — tutti questi fenomeni erano prima di allora sconosciuti. Dal 1000 a.C., gli abitanti di Babilonia passeggiano adornati di amuleti e ciondoli, nel tentativo di proteggersi da un'ampia varietà di demoni. L'archeologia ha recuperato migliaia di questi pendagli risalenti all'epoca in esame.
L'inizio della coscienza
Ciò che si era sviluppato era un nuovo modo di elaborare decisioni, una sorta di protocoscienza. Dopo la perdita della mente bicamerale, di quelle voci che subentravano in tutte le scelte significative dicendo alle persone cosa fare, sembrano emergere nuovi espedienti per raccogliere i messaggi e le direttive degli dèi. Noi chiamiamo queste tecniche divinazione. Erano largamente diffusi e praticati con rito ufficiale il lancio delle sorti (la tecnica più semplice), i dadi, la lettura dei movimenti del fumo o delle forme disegnate dall'olio sull'acqua. I sacerdoti recitavano preghiere prima di sacrificare gli animali e quindi, a sacrificio compiuto, esaminavano gli organi interni delle bestie per scoprire le risposte divine. E infine il metodo di divinazione che si è conservato sino ad oggi, l'astrologia. È estremamente interessante rileggere oggi le lettere in scrittura cuneiforme che i re del 1000 a.C. indirizzavano ai loro astrologi e divinatori (Pfeiffer, 1935). Questi crudeli tiranni assiri, effigiati nei bassorilievi mentre conducono feroci cacce al leone e lottano corpo a corpo con le belve, sono in queste lettere persone docili e spaventate, che non sanno cosa fare. Gli astrologi intimano loro: "Non puoi uscire di casa per cinque giorni", "Non devi mangiare questo alimento", "Oggi non devi indossare vestiti", stravaganti restrizioni che i divinatori interpretavano come volontà divina. È una cosa notevole che l'astrologia non solo non sia scomparsa, ma conti più adepti oggi che in passato.
Se ora ci spostiamo in Grecia nel periodo immediatamente successivo, possiamo anche qui ricostruire la vicenda della mente bicamerale: dalle tavolette in Lineare B, proseguiamo attraverso Iliade, Odissea, e attraverso la poesia lirica ed elegiaca dei due secoli successivi, come Saffo e Archiloco, fino a Solone nel 600 a.C. Solone è il primo uomo che sembra simile a noi, che parla della mente come anche noi potremmo fare. Fu lui a dire "Conosci te stesso", sebbene la massima venga talvolta attribuita all'oracolo di Delfi. Com'è possibile conoscersi senza un analogo "io" narratizzante in uno spazio-mente, senza reminiscenze o memoria episodica di ciò che si è fatto o di chi si è stati? In Grecia, il procedimento che ho già descritto (l'invenzione e l'apprendimento della coscienza sulla base della metafora e dell'analogia) può essere osservato nel dettaglio semplicemente analizzando il cambiamento di significato in parole come phrenes, kardia, psyche (che io ho chiamato "ipostasi preconsce"), che da referenti oggettivi passano ad indicare funzioni mentali.
Lo stesso tipo di sviluppo è stato studiato nella Cina antica da Michael Carr, dell'università di Otaru. Confrontando le quattro parti successive dello Shijing, la più antica collezione di testi cinesi, Carr ha scoperto lo stesso processo di interiorizzazione dei termini, come ad esempio "Xin", che poi avrebbero significato il concetto di mente o coscienza (Carr, 1983).
Simultaneamente, la coscienza si affacciava su un'altra area del mondo, per molti di voi certamente più familiare. Se torniamo tra le popolazioni rifugiate per l'eruzione di Tera, scopriamo che in accadico, antica lingua di Babilonia, la parola per questi "rifugiati" è khabiru; questa parola si è poi trasformata sino a diventare il nostro "Ebrei". La storia degli Ebrei, o piuttosto di una branca degli Ebrei, è raccontata in quello che chiamiamo l'Antico Testamento o Testamento Giudaico.
Quelli di voi che hanno compiuto studi biblici sanno che l'Antico Testamento è un mosaico di fonti assemblate intorno al 600 a.C. Da ciò la difficoltà di utilizzare questo testo come prova delle nostre idee. Eppure vi sono diverse vie da seguire affinché un insieme di scritti tanto eterogeneo ci aiuti a testare la nostra tesi. Ne citerò soltanto una: possiamo scegliere tra i libri più "puri", quelli che ci danno la certezza di possedere un solo autore e una datazione chiara e certa, il più antico e il più recente, e quindi compararli: da tale confronto dovrebbero emergere le differenze di mentalità che stiamo studiando. I due libri in questione sono il Libro di Amos, risalente circa all'800 a.C., e il Libro dell'Ecclesiaste, datato al 200 a.C.
Io sospetto che i profeti come Amos fossero individui rimasti bicamerali o semibicamerali in un'era ormai cosciente. Essi erano profondamente apprezzati nelle loro società poiché, grazie alla capacità di sentire e riferire la voce di Jahvè con convincente autenticità, riportavano ai modi autoritari e rassicuranti del regno bicamerale. Amos non fu un vecchio saggio, ma un giovane pastore tratto dalla campagna di Tekoa. Probabilmente aveva passato la maggior parte della sua vita nei campi, ad ascoltare i pastori più anziani magnificare le gesta di Jahvè. Interrogato sulla sua natura di profeta, egli nemmeno sapeva cosa la parola significasse. Ma, periodicamente, il giovane sbottava con dei "Così dice il Signore" ( "Thus sayest the Lord", nella traduzione della Bibbia di re Giacomo), a cui seguivano parole che furono tra le più potenti della storia di Israele; ed erano pronunciate con tale autenticità che l'uomo era sempre circondato da scribi intenti a trascrivere il suo discorso.
L'Ecclesiaste è l'esatto opposto. Inizia con queste parole: "Ho visto nel mio cuore che la sapienza va assai oltre la stoltezza…" (2:13) — un uso metaforico del verbo "vedere". Il tempo spazializzato è una cosa su cui prima non mi sono soffermato, ma ritengo sia uno dei marchi di fabbrica della coscienza. Non possiamo pensare coscientemente al tempo se non creando uno spazio fuori di esso. E ciò risulta del tutto evidente nell'Ecclesiaste, ad esempio nel citatissimo ma ancora affascinante inno al tempo del terzo capitolo. "Per ogni cosa v'è il suo tempo, v'è il suo momento per ogni proposito sotto il cielo, un tempo per nascere e un tempo per morire" e così via, con tempi come posti per ogni cosa. Potremmo poi avanzare nella storia sino al Nuovo Testamento, per osservare l'importanza ancora maggiore che assume qui l'interiorizzazione cosciente, il cambiamento dall'interno del comportamento, in contrapposizione alla legge di Mosè che al comportamento dava forma dall'esterno.
Quattro idee
Posso riassumere quanto ho sin qui detto distinguendo tre idee fondamentali sull'origine della coscienza. La prima concerne la natura della coscienza stessa, il fatto che essa sia scaturita dal potere che il linguaggio ha di creare metafore e analogie. La seconda idea è l'ipotesi della mente bicamerale come tipo primitivo di mentalità. Io reputo le prove della sua esistenza inconfutabili. Anche indipendentemente da questa idea, esiste il problema di spiegare l'origine degli dèi e l'origine delle pratiche religiose antiche. Un problema che lo studio psicologico della storia mette bene in evidenza, e a cui la teoria bicamerale offre visione d'insieme e soluzione razionale. La terza idea è che la coscienza sia posteriore alla mente bicamerale. Ho datato il suo avvento tra il 1400 a.C. e il 600 a.C. E' un periodo lungo e suscettibile di aggiustamenti, ma credo si tratti di una buona approssimazione.
Vorrei ora aggiungere che della teoria può esistere una forma debole. Essa asserirebbe che la coscienza è nata poco dopo la comparsa del linguaggio, o forse contemporaneamente. In effetti, gli uomini potevano creare metafore già agli inizi del linguaggio orale: è così che il linguaggio si è sviluppato. La coscienza potrebbe allora essersi originata nelle medesime modalità che ho descritto, ed essere coesistita per un certo tempo con la mente bicamerale. Intorno al 1000 a.C., al disgregarsi della bicameralità per le ragioni già suggerite, la coscienza sarebbe rimasta sola. Ciò renderebbe possibili agili spiegazioni ad hoc per quelle culture altamente sviluppate, come i Sumeri, che altrimenti costituiscono una sfida alla teoria bicamerale. Pure, io non intendo far mia questa teoria debole, poiché essa è quasi inconfutabile. Un'ipotesi, se vuole dirsi scientifica, non dovrebbe precludere la possibilità di essere smentita dall'evidenza. Inoltre, la teoria forte ha grande efficacia esplicativa nel comprendere molti fenomeni storici del periodo di transizione. E infine, non vedo la necessità di una coscienza accanto alla mente bicamerale quando è quest'ultima a prendere tutte le decisioni.
Una quarta idea con cui vorrei concludere, è un modello neurologico per la mente bicamerale. Voglio sottolineare che esso non costituisce una componente essenziale della teoria che ho qui discusso. Quando la mente bicamerale aveva un ruolo tanto importante nella storia, rendendosi addirittura responsabile della civilizzazione, cosa accadeva nel cervello? La strategia appropriata per rispondere ad una tale domanda è assumere la soluzione più semplice, e quindi cercare di confutarla. Si passerà a qualcosa di più complesso solo qualora la prima ipotesi venga smentita.
L'idea più accessibile (nell'opinione di chiunque, credo) è quella che chiama in causa gli emisferi cerebrali. Per dirla in termini grossolanamente semplificati, forse negli uomini antichi l'emisfero destro "parlava" al sinistro, e in ciò consisteva la mente bicamerale. Se oggi le funzioni del linguaggio sono situate per lo più nel solo emisfero sinistro, non potrebbe darsi che nel destro le aree corrispondenti avessero un tempo altre funzioni? Questo è appunto un modo un po' discutibile di rappresentarci le cose, perché vi sono altre ragioni per la lateralizzazione delle funzioni cerebrali. Ma d'altra parte, da qui nascono interrogativi che mi affascinano. Cos'è un'allucinazione uditiva? Perché è ubiqua? Perché è presente in tutte le civiltà su tutta la terra?
Assumiamo che al tempo della mentalità bicamerale tutte le informazioni ammonitorie venissero elaborate da una parte dei miliardi di neuroni dell'emisfero destro, in particolare nell'area del lobo temporale posteriore corrispondente all'area di Wernicke, e poi immagazzinate in attesa del loro uso: come si trasferivano tali complesse istruzioni attraverso le commissure cerebrali all'emisfero sinistro o dominante, soprattutto se, come ho supposto (Jaynes, 1976b), le molto meno numerose fibre delle commissure anteriori sono le uniche coinvolte? E, infatti, recenti prove sperimentali dimostrano che nelle scimmie l'intercomunicazione tra le porzioni maggiori dei lobi temporali avviene via commissure anteriori. Il trasferimento di una tale mole di informazioni sarebbe avvenuto in modo più efficiente se organizzato in un qualche codice. E quale miglior codice del linguaggio umano? E allora, non sarebbe interessante se proprio ciò che nel lobo temporale destro facciamo corrispondere all'area di Wernicke fosse stata l'area coinvolta nell'immagazzinamento delle informazioni ammonitorie, se in essa tali informazioni fossero state elaborate in forma di decisioni e soluzioni di problemi (che è quanto fa la mente bicamerale) e poi attraverso il linguaggio condotte nell'emisfero sinistro, l'emisfero che parla, obbedisce e gestisce il comportamento?
All'epoca in cui pensavo il problema in questi termini primitivi, nei primi anni '60, c'era molto poco interesse per l'emisfero destro. Alcuni influenti neuroscienziati non gli attribuivano alcuna funzione, suggerendo che si trattasse di una specie di ruota di scorta. Ma da allora registriamo un'esplosione di scoperte sulla funzione dell'emisfero destro, tanto che stiamo tornando, io temo, agli stridenti eccessi di discussione sulle funzioni asimmetriche del cervello cui avevamo già assistito alla fine del secolo XIX (vedi Harrington, 1985) e ancora nel nostro secolo (vedi Segalowitz, 1983).
Ma i risultati principali, anche se considerati con prudenza, sono generalmente in accordo con quanto, sulla base dell'ipotesi bicamerale, potremmo aspettarci di trovare nell'emisfero destro. La più significativa di tali scoperte è che l'emisfero destro è quello che elabora l'informazione in maniera sintetica. Grazie a numerosi studi, oggi è ben noto che l'emisfero destro è di molto superiore al sinistro nell'abilità di associare disegni su cubetti (Kohs Block Design Test), parti di facce o accordi musicali (vedi Bryden, 1982; Segalowitz, 1983). La funzione principale degli dèi ammonitori era proprio quella di associare persone e funzioni nella società. Sto insomma suggerendo che gran parte delle differenze che oggi osserviamo nelle funzioni dei due emisferi può essere vista come il riflesso delle differenze tra i due lati della mente bicamerale.
In ultima sintesi, mi piacerebbe ricordare di nuovo le quattro idee o moduli della teoria che ho presentato. La prima è la natura della coscienza e la sua origine nel linguaggio, che può essere empiricamente studiata nell'apprendimento della coscienza nei bambini, così come nell'analisi dei cambiamenti di coscienza nella storia recente. La seconda idea è la mente bicamerale, che può trovare riscontro diretto nei testi antichi e indiretto nella moderna schizofrenia. Terza è l'idea che la coscienza sia seguita alla bicameralità: essa può essere verificata nei manufatti e nei testi della storia. E la quarta idea è che il modello neurologico per la mente bicamerale sia relazionato ai due emisferi. E questo può essere studiato nelle differenze odierne della lateralità cerebrale.
Ciò che ho cercato di presentarvi è una lunga e complicata vicenda. Essa ci lascia con una visione diversa della natura umana. Ci suggerisce che ciò che ci ha civilizzati è una mentalità che non abbiamo più, nella quale sentivamo voci chiamate dèi. I residui di quell'epoca sono tutt'intorno a noi, nelle religioni attuali e nel nostro bisogno di religione, nelle allucinazioni udite in particolar modo nelle psicosi, nella nostra ricerca di certezza, nei nostri problemi di identità. E noi tutti siamo ancora impegnati nell'arduo compito di perfezionarci nella nostra nuova mentalità, la coscienza. Il pensiero con cui vorrei chiudere è che tutto quanto vi è in noi di più umano, questa consapevolezza, questo spazio artificiale che immaginiamo negli altri e in noi stessi, questo abitare dentro i nostri ricordi, i nostri progetti e le nostre immaginazioni, tutto questo ha una vita di soli tremila anni.
Questo, signore e signori, significa meno di cento generazioni. E ciò ci autorizza a concludere, io credo, che siamo tutti ancora molto giovani. Grazie.
*Testo tradotto dall'originale inglese: J. Jaynes, Consciousness and the Voices of the Mind, "Psychologie canadienne", 1986, vol. 27, n. 2, pp. 128 — 148. Ringraziamo la direzione della rivista, che ci ha concesso il permesso di traduzione.
Traduzione di Mauro Richeldi e Marco Rizza.
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