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Psicopatologia classica e DSM: un dilemma epistemologico, clinico e didattico per la psichiatria contemporanea

26 Ott 12

Di giacomo.rotoli
Considerazioni preliminari
Molto frequentemente le alterazioni psichiche sono state classificate a seconda dei loro caratteri clinici, giacché appunto i sintomi della malattia mentale colpiscono più che ogni altra cosa gli occhi dell'osservatore. Ma certo doveva a poco a poco mostrarsi la differenza intima tra le alterazioni psichiche, che pur di tempo in tempo offrono gli stessi caratteri clinici. Da ciò derivò la necessità, riconosciuta chiaramente dal Kahlbaum, di distinguere le sindromi dalle forme morbose. Le prime possono ritrovarsi uguali, o almeno molto simili, nelle più diverse forme di malattie. Una diagnosi scientifica però non deve mai limitarsi a caratterizzare la sindrome, ma deve stabilire la malattia alla quale il quadro sintomatico
appartiene.
E. Kraepelin
, Trattato di psichiatria

L'idea dell'unità morbosa è un'idea nel senso kantiano: il concetto di un compito di cui impossibile raggiungere la meta, perché sta nell'infinito; essa però ci indica una direzione di indagine feconda e significa un vero punto di orientamento per la ricerca empirica particolare.
K.Jaspers,
Psicopatologia generale
N.B. I numeri tra parentesi che compaiono nel testo rinviano alla bibliografia al termine dell'articolo.

1.  Il manuale DSM come mito tecnologico e antiteoretico: l’operazionismo radicale
Il progressivo affermarsi, negli ultimi decenni, del manuale DSM non solo come strumento diagnostico, ma anche come parametro per la ricerca clinica e scientifica in psicopatologia e psichiatria, rende oggi quanto mai necessaria una verifica epistemologica di tale strumento, soprattutto in relazione ad una sorta di mitologizzazione "antiteoretica" e "tecnologica" che intorno ad esso è stata costruita e che risulta non immune da interessi extrascientifici.                          
Com’è noto, la caratteristica fondamentale, su cui il DSM intenderebbe costruire la sua immagine e giustificare la sua funzionalità, sarebbe la sua presunta "ateoreticità".
Secondo le intenzioni del DSM, una tale qualifica dovrebbe garantire il vantaggio di evitare, in sede clinico – diagnostica, ogni contrasto derivante dagli schieramenti dottrinari contrapposti e dai loro dogmatismi teoretici, così da rendere possibile un ordinamento nosografico universalmente "condivisibile". In tal senso, il DSM si propone come un programma di semplificazione della diagnosi psichiatrica che, una volta liberatasi da più o meno astratti schematismi dottrinari e da presupposti teoretici più o meno metafisici, dovrebbe pervenire ad una concezione della diagnosi psichiatrica puramente "empirica" e immediatamente operativa.                      
Questa impostazione programmatica, grazie alla sua apparente semplicità, è stata accolta con favore, in sede internazionale e nazionale, dalla maggioranza degli operatori psichiatrici, desiderosi di trovare un punto di riferimento unitario, al di là della grande varietà delle metodiche e dei sistemi presenti in psicopatologia, psichiatria e psicoterapia. Quando poi si consideri che il DSM intende presentarsi, sul piano clinico, come una tecnica puramente "operativa" (che, tra l’altro, facilmente si presta alla computerizzazione), noi possiamo comprendere come il suo successo si inquadri nello spirito di un’epoca che volentieri si persuade di poter ridurre la scienza a pura tecnologia, abolendo totalmente ogni riflessione critica ed epistemologica della mente umana. In realtà, noi possiamo agevolmente verificare come, malgrado la sua ostentata professione di "ateoreticità", il DSM non sia affatto immune da ogni presupposto teoretico, anche se la sua posizione epistemologica corrisponde a quella del riduzionismo più estremo, rappresentato del funzionalismo operazionistico radicale. Sotto questo profilo, le origini culturali dell’epistemologia del DSM possono essere individuate nell’ambito di quel complesso movimento di critica del metodo scientifico che, nato in Europa con l’empiriocriticismo di E. Mach e con i circoli di Vienna e di Berlino (M. Schlick, O. Neurath, R. Carnap, H. Feigl, C.G. Hempel, H. Reichenbach, L. Wittgenstein e altri), assumeva la denominazione di neopositivismo logico. Trapiantato, tramite il circolo di Chicago, negli Stati Uniti, il neopositivismo logico trovava qui profonde concordanze con l’operazionismo di P.W. Bridgman e, con il behaviorismo di J.B.Watson, oltre che con le diverse formulazioni del neoempirismo riduzionistico, tipiche della cultura anglosassone (W.V.O. Quine, B. Russell, E. Nagel, C. Morris, C.L. Hull e altri).                                                              
Caratteristica tipica del neoempirismo operazionistico è precisamente il suo estremo riduzionismo che, da un lato, lo porta a considerare l’esperienza nella più assoluta immediatezza dell’hic e del nunc, mentre la concettualizzazione matematica dovrebbe essere utilizzata soltanto nei limiti di una pura verifica statistica.                                                                                
Da ciò deriva una visione meramente utilitaristica ed economicistica della scienza, cui dovrebbe essere riconosciuto soltanto il significato tecnologico di elaborazione delle metodiche più idonee per garantire il migliore controllo delle contingenze esterne, con il minore dispendio possibile delle energie disponibili sul piano mentale e fisico.

2. La psicopatologia classica e la sua prima fondazione epistemologica: lo strutturalismo riduzionistico e il modello dell’entità nosografica .                                                                               
In questa prospettiva, risulta evidente come l’epistemologia del DSM presenti caratteristiche radicalmente differenti rispetto a quelle della psicopatologia classica, così che non può trovare alcuna giustificazione la tesi, propagandata acriticamente, ex cathedra, negli ultimi decenni, dalle nostre accademie, secondo la quale il DSM III – IV  dovrebbe essere considerato come una sorta di nuovissima nosografia, comprensiva dei contributi della nosografia classica, sia nella sua versione strutturalistica (K. Kahlbaum, E. Kraepelin, C. Wernicke, K. Kleist, K. Jaspers, K. Schneider, H.J. Weitbrecht, ecc.), sia nella sua versione funzionalistica (K. Bonhoeffer, A. Hoche, O. Bumke, E. Bleuler, A. Meyer, H. Ey, ecc.) Una simile tesi risulta chiaramente mistificante, quando si consideri che la psichiatria classica, nella sua prima formulazione organica (kraepelinismo) si conforma ad una impostazione epistemologica strutturalistico-riduzionistica (corrispondente al modello del naturalismo scientifico fondato da Galileo).                                                       
In ragione di tale impostazione epistemologica, la psicopatologia kraepeliniana pone alla base della propria diagnostica clinica il modello dell’entità’ nosografica, che comporta una netta distinzione tra la fenomenologia psicopatologica quale si presenta sul piano dell’osservazione clinica (e che viene considerata come la conseguenza epifenomenica e come il sintomo di una malattia cerebrale) e il suo "substrato" neurobiologico (cioè la "vera" malattia, costituita da una specifica patologia cerebrale, responsabile della disfunzione mentale).(1) Pertanto, secondo la prima formulazione storica della psicopatologia classica (corrispondente allo strutturalismo riduzionistico) la cosiddetta "malattia mentale" dovrebbe essere considerata come "mentale" solo rispetto alla sua componente clinica "epifenomenica" e "semeiotica". Per quanto invece concerne propriamente la "malattia", come patologia e come patogenesi, il suo studio dovrebbe considerarsi di pertinenza delle neuroscienze (e, di conseguenza, la sua valutazione diagnostica e la sua terapia dovrebbero assegnarsi alla neuropatologia ed alla neurofarmacologia). E’ da sottolineare come questa concezione riduzionistica strutturalistica della malattia mentale sia ancor oggi adottata per l'interpretazione dei disturbi mentali da parte delle neuroscienze e della psichiatria neurobiologica. In effetti, l’ideale delle neuroscienze resta pur sempre quello kraepeliniano, che aspira a ricondurre il "disturbo" psicopatologico ad una patologia neurobiologica, secondo un rapporto specifico di dipendenza che subordina la dimensione psicopatologica a quella somatica, negandone qualsiasi autonomia, sia sul piano clinico, che su quello della ricerca. Tuttavia, la possibilità di individuare una specificità nel rapporto di dipendenza dell’epifenomeno psicopatologico dalla malattia neurobiologica dovrebbe garantire la possibilità di utilizzare tale epifenomeno come "sintomo" del fondamento neurosomatico della malattia. E’ ovvio che, in una simile prospettiva, la psicopatologia potrà essere teorizzata soltanto come uno strumento semeiologico, da considerarsi tanto più utile quanto più sarà in grado di individuare sintomi "patognomonici" per la diagnosi della patologia neurobiologica, riconosciuta come "causa" del disturbo mentale.                
Occorre infatti non dimenticare che, per le neuroscienze e per la psichiatria neurobiologica, il disturbo (disagio soggettivo, alterazione funzionale) è bensì "mentale", ma la "malattia" può essere soltanto cerebrale.
 

  1. La psicopatologia classica e la sua riforma epistemologica secondo il funzionalismo integrazionistico: il modello della sindrome psicopatologica e del tipo di reazione come revisione del concetto di malattia e di entità nosografia                                                             
Com’è noto, l’impostazione epistemologica della psichiatria strutturalistica  riduzionistica, basata sul principio dell’entità nosografica, è stata contestata, in modo più o meno radicale, dalla psichiatria funzionalistica integrazionistica. In realtà, nella sua accezione classica, (K.Bonhöffer, A.Hoche, O.Bumke, E.Bleuler, H.Ey, ecc.) la psicopatologia funzionalistica non ha contestato che il modello dell’entità nosografica fosse il più rispondente alle esigenze teoriche del pensiero scientifico naturalistico; tuttavia, ha sottolineato la problematicità della sua applicazione, nella pratica clinica, in relazione alla maggior parte dei quadri psicopatologici osservabili. Sul piano dell’osservazione empirica e della pratica clinica, pertanto, la psicopatologia classica funzionalistica (integrazionistica) ha ritenuto più utile introdurre il concetto di sindrome psicopatologica (o tipo di reazione psicopatologica).
Nel quadro della concezione funzionalistica classica, le diverse sindromi psicopatologiche tipiche individuabili clinicamente vengono così poste in relazione ad altrettanti modelli aspecifici di adattamento, corrispondenti a livelli regressivi sempre meno differenziati, su cui si assesta il sistema neuropsichico sottoposto agli effetti di condizioni patogene di diversa natura (fisiobiologica, anatomopatologica, psichica, socioambientale) In questa prospettiva clinica, viene ad assumere un’importanza dominante non il rapporto specifico di dipendenza tra sintomatologia -anatomia patologica – eziopatogenesi (così come accade nello strutturalismo riduzionistico), bensì il livello di regressione del modello di adattamento, conseguente all’estensione e alle modalità (acute o croniche) del decorso clinico della patologia cerebrale.
In particolare, anche per quanto concerne il capitolo delle psicosi organiche, che meglio corrispondono al modello della malattia mentale come entità nosografica (e che, pertanto, costituiscono il pilastro della psichiatria strutturalistica riduzionistica), la psichiatria funzionalistica ha messo in evidenza come il criterio di specificità, relativo ai rapporti di dipendenza tra sintomatologia, anatomia patologica ed eziopatogenesi (necessariamente inerente al concetto di entità nosografica) non poteva trovare una reale applicazione clinica. Più precisamente, veniva osservato (K.Bonhöffer, A.Hoche, O.Bumke) come a sindromi psicopatologiche tipiche uniformi (acute e/o croniche) potessero fare riscontro, sul piano neurobiologico, condizioni patologiche assai differenti in senso anatopatologico ed eziopatogenetico; mentre, viceversa, ad una specifica condizione di malattia, ben definita dal punto di vista anatopatologico ed eziopatogenetico, potevano corrispondere, sul piano dell’osservazione clinica, quadri psicopatologici assai differenti. Sulla base di tali osservazioni, la psicopatologia funzionalistica integrazionistica perveniva, con E. Bleuler e M. Bleuler, alla universalmente nota classificazione delle sindromi psicorganiche (psicosindromi esogene acute, psicosindromi cerebrali diffuse croniche, psicosindromi a focolaio), dove le esigenze di un più immediato inquadramento clinico assumono un interesse prevalente rispetto all’ideale teoretico dell’entità nosografica (anche se questo modello non viene comunque rifiutato dal punto di vista scientifico). Risulta pertanto evidente che, nella prospettiva funzionalistica, lo stesso concetto di malattia mentale subisce una modifica significativa rispetto alla psicopatologia strutturalistica.                                                         
Infatti, mentre per quest’ultima il fondamento della malattia mentale è rappresentato da una patologia cerebrale (il cui quadro psicopatologico è la conseguenza e il sintomo), dal punto di vista funzionalistico ciò che caratterizza la cosiddetta malattia mentale é, invece, il disadattamento funzionale dell’organismo bio – psichico al proprio ambiente fisico – psichico – sociale, conseguentemente ad una doppia serie complementare di fattori patogenetici (fisiopatologici e/o psicosociali).
Inoltre, in relazione ai quadri clinici psicopatici, dove non risultano presenti patologie cerebrali significative, la psicopatologia funzionalistica assume una posizione epistemologica differente rispetto alla psichiatria strutturalistica riduzionistica. In effetti, mentre quest’ultima tende a ridurre tali quadri nei limiti del concetto di "costituzione" neurobiologica, la psichiatria funzionalistica, nelle sue versioni integrazionistiche (O. Bumke, E. Bleuler), li riconduce alla categoria delle nevrosi (o "psicosi funzionali" secondo O. Bumke) e riconosce, per quanto concerne il loro determinismo, l’importanza dell’esperienza soggettiva interiore e della sua intrinseca conflittualità. (2
 
4. Le versioni riduzionistiche della psicopatologia funzionalistica e la dissoluzione della psicopatologia classica: la negazione radicale dell’entità nosografica e la delegittimazione della psichiatria.  
Le versioni riduzionistiche della psicopatologia funzionalistica assumono invece una posizione differente per quanto concerne l’esperienza interiore del soggetto ed i comportamenti disadattati, non imputabili a patologie cerebrali. 
Nella teoria psicoanalitica delle pulsioni, ad esempio, il comportamento è il risultato di un compromesso tra le cariche energetiche biofisiche che urgono per una scarica immediata e le forze contrastanti di un mondo esterno minaccioso e ostile; mentre l’Io sarebbe soltanto un apparato automatico per il conseguimento di un simile, più o meno travagliato, compromesso.                   Secondo il modello del funzionalismo operazionistico (behaviorismo radicale), il soggetto è aprioristicamente "abolito" (B.F. Skinner), ed il comportamento è considerato come la pura conseguenza di una serie di condizionamenti ambientali (operanti e/o rispondenti), riducibile, senza residui, allo schema associazionistico S – R.          
 Secondo il modello socioeconomico, i "disturbi" del comportamento individuale sarebbero sempre e soltanto la conseguenza delle distorsioni delle strutture sociali e dei modi di produzione economica dai quali queste dipendono. In tal modo, nelle versioni riduzionistiche del funzionalismo behavioristico ed economico-sociologistico, il soggetto individuale perde qualsiasi spontaneità autonoma, in quanto considerato dipendente dai condizionamenti socio-ambientali.
Inoltre, non solo viene rifiutato il modello strutturalistico della malattia mentale come entità nosografica, ma lo stesso modello funzionalistico integrazionistico di sindrome psicopatologica e di tipo di reazione perde le sue originarie connotazioni neurobiologiche, per assumere i caratteri prevalenti di un disturbo comportamentale, dipendente da fattori di ordine ambientalistico sociologico-ideologico-economicistico.
In tal senso, si giunge non solo alla negazione dello stesso concetto di malattia mentale, ma anche alla delegittimazione della stessa psichiatria (in quanto espressione delle istituzioni repressive responsabili della "cosiddetta" malattia mentale), così che il problema dei disordini del comportamento individuale non potrebbe trovare un’autentica soluzione senza una riforma radicale delle strutture sociali e dei modelli di produzione economica, che ne sarebbero la causa determinante. Secondo questa prospettiva della cosiddetta "antipsichiatria" (D. Cooper, R.D. Laing, E. Goffman, T.S. Szasz, ecc.), la psichiatria tradizionale, nella sua impostazione metodologica e programmatica, sarebbe da considerarsi istituzionalmente mistificante. Pertanto, per un’autentica soluzione dei problemi del comportamento umano, essa dovrebbe essere destituita dal suo ruolo istituzionale e sostituita da una diversa concezione ideologica della società che conduca ad una trasformazione fondamentale delle istituzioni politiche ed economiche.
 
5.  La riforma integrazionistica della psicopatologia strutturalistica e la rifondazione critica della nosografia psichiatrica.
 Il modello integrazionistico (fenomenologico) della psicopatologia strutturalistica (K.Jaspers, K.Schneider) si contrappone sia al modello riduzionistico strutturalistico (fondato sul concetto ontologizzato della malattia mentale, come entità nosografica) sia al modello riduzionistico del funzionalismo (tanto come operazionismo e behaviorismo radicale, quanto come ambientalismo sociologistico, che nega la stessa malattia mentale).
Nella psicopatologia di K,Jaspers viene riconosciuta la validità metodologica dell’unità morbosa come modello nosografico della malattia mentale da applicarsi in tutti quei casi clinici in cui sia documentabile (o altamente presumibile) una malattia del cervello.                                  
Rientrano in tali casi le psicosi organiche (con reperto anatomopatologico conosciuto) e le cosiddette psicosi endogene (schizofrenia e ciclotimia) di cui non è ancora conosciuta una specifica anatomia patologica (che tuttavia si presume presente, in considerazione dei tipici quadri psicopatologici, che dimostrano una grave frattura dell’unità strutturale e storica della personalità) Secondo la psicopatologia di K.Jaspers, tuttavia, il concetto di entità nosografica non dovrebbe essere ontologizzato, ma considerato come un’idea guida di tipo kantiano, un modello categoriale utile per definire la metodologia della ricerca che, nel caso specifico, dovrebbe conformarsi al principio naturalistico della spiegazione. (3) In funzione di tale principio esplicativo (Erklären) l’analisi psicopatologica dei quadri clinici sarebbe giustificata sulla base della riducibilità dei fatti psicopatologici come conseguenze e come sintomi dei processi morbosi neurobiologici e, in particolare, in funzione della individuazione dei sintomi psicopatologici patognomonici (indicatori della presenza di una specifica malattia del cervello e, pertanto, decisivi per la formulazione di una diagnosi psichiatrica specifica). 
La psicopatologia naturalistica della spiegazione, tipica della psichiatria strutturalistica riduzionistica, viene pertanto conservata anche nella psicopatologia strutturalistica integrazionistica, non solo sul piano della ricerca riguardante le psicosi (organiche ed endogene) ma anche per quanto concerne la diagnostica clinica specifica e, soprattutto, differenziale rispetto alle psicopatie, per le quali, viceversa, viene ritenuto necessario il metodo personologico della comprensione (Verstehen). In effetti, in riferimento ai quadri clinici di disagio e disadattamento psicopatologico per i quali non è possibile dimostrare la presenza di alcun reperto somatico significativo (in senso causale naturalistico), la psicopatologia strutturalistica integrazionistica introduce la categoria tipologica delle "psicopatie".
Nel caso delle psicopatie (personalità psicopatiche e reazioni alle esperienze soggettivamente vissute) non sarà più legittimabile il metodo della spiegazione (a meno che non si voglia considerare in senso naturalistico-fisicalistico lo stesso fondamento dell’essere umano), ma occorrerà fare ricorso al metodo della comprensione (Verstehen), in base ad un principio di analogia e di confronto dialogico che l’osservatore stabilisce tra la propria interiorità soggettiva e l’interiorità dell’altro. In tal modo, la psicopatologia strutturalistica integrazionistica salvaguarda il fondamentale concetto dell’unità nosografica, emendandolo però da ogni implicazione ontologizzante ed assegnandogli un significato puramente metodologico (in senso kantiano), in quanto formula esplicativa indispensabile per l’inquadramento nosografico dei casi clinici a fondamento neuropatologico (psicosi). 
Inoltre, la psicopatologia dello strutturalismo integrazionistico acquisisce, in forma più comprensiva, i contributi critici del funzionalismo integrazionistico. Infatti essa ci consente, in primo luogo, di conferire una sistemazione più rigorosa, secondo il punto di vista della metodologia della spiegazione, innanzi tutto, alle sindromi psicorganiche, che costituiscono il cardine della nosografia psichiatrica.                                                     
 Rielaborando ed integrando la fondamentale classificazione ideata da E.Bleuler e M.Bleuler per le sindromi psicorganiche – psicosindrome cerebrale diffusa (cronica), psicosindrome a focolaio, psicosindrome cerebrale esogena acuta – K.Schneider, confermando il carattere di aspecificità delle psicosindromi cerebrali, individuava nella tipicità del loro decorso clinico (acuto o cronico) il criterio differenziale fondamentale per il loro inquadramento nosografico sistematico.                 
Con tale riordinamento nosografico schneideriano, la psicopatologia strutturalistica integrazionistica rinuncia definitivamente all’ontologizzazione del concetto di entità nosografica ma, nel contempo, valendosi del contributo bleuleriano, ne recupera la funzionalità, fondamentale per l’inquadramento teoretico e clinico delle psicosi organiche, oltre che delle cosiddette psicosi endogene (schizofrenia e ciclotimia) che, sotto il profilo patogenetico, anatomopatologico e clinico, sono equiparate alle psicosi organiche.
In secondo luogo, la psicopatologia della strutturalismo integrazionistico permette di superare il concetto approssimativo e metodologicamente non ben definito di "nevrosi" con quello più rigoroso di "psicopatia" (personalità psicopatiche, reazioni e sviluppi psicopatici), per la quale la differenziazione e la contrapposizione rispetto alla "psicosi" (fondabile su basi somatiche) è di primaria importanza sotto ogni punto di vista: teoretico, metodologico, clinico, diagnostico, terapeutico. 
In particolare, è necessario sottolineare, in proposito, come la metodologia della comprensione (Verstehen), che è specifica delle psicopatie, sia la condizione epistemologica per la fondazione teoretica e per l’applicazione clinica della psicoterapia, come disciplina autonoma.                          In tal senso, la psicopatologia strutturalistica, con opportune integrazioni dialettiche, può fornirci i fondamenti teoretici e clinici per una valida diagnostica differenziale. In particolare, potrà indicarci i criteri per l’assegnazione dei quadri clinici osservabili alla categoria delle psicosi (su base neuropatologica), di pertinenza delle psicopatologia psichiatrica della spiegazione (per la quale la psicofarmacologia costituisce la terapia di elezione), oppure alla categoria delle psicopatie (prive di reperti somatici significativi), di pertinenza della psicopatologia personologica della comprensione (per la quale la terapia elettiva è rappresentata dalla psicoterapia sistematica).

6L’epistemologia del DSM come operazionismo radicale e funzionalismo riduzionistico in antitesi con l’epistemologia della psicopatologia classica.
Questo sommario inquadramento dello sviluppo storico del pensiero psicopatologico classico nella teoria e nella clinica può dare un’idea, sia pure incompleta, dei caratteri epistemologici di tale pensiero e dei suoi intendimenti programmatici (per gli approfondimenti si rinvia ai riferimenti bibliografici). In particolare, è possibile verificare il totale fraintendimento inerente alla tesi sostenuta ufficialmente dalla psichiatria accademica, secondo la quale la psicopatologia del DSM III-IV rappresenterebbe la sintesi e il felice "superamento" della psicopatologia classica (E.Kraepelin, O.Bumke, E.Bleuler, K.Jaspers, K.Schneider, ecc.).
Appare evidente, infatti, come la psicopatologia classica, dalle prime formulazioni kraepeliniane, attraverso la critica del funzionalismo (K.Bonhöffer, A.Hoche, O.Bumke, E.Bleuler) sia pervenuta, con lo strutturalismo integrazionistico di K.Jaspers e K.Schneider, ad una rigorosa differenziazione epistemologica e metodologica dei quadri clinici delle psicosi e di quelli delle psicopatie, così da salvaguardare il principio della diagnostica differenziale e da consentirci, inoltre, una precisa distinzione disciplinare tra la psichiatria e la psicoterapia, come disciplina autonoma sistematica. Al contrario, la storia del manuale DSM e della sua "filosofia" ha seguito uno sviluppo (o meglio, un’involuzione) diametralmente opposta.
In conformità al suo assunto epistemologico fondamentale che, come si è visto, fa capo al funzionalismo riduzionistico, il manuale DSM ha seguito, nel corso della sua storia, un percorso involutivo, in netto contrasto con gli sviluppi conseguiti dalla psicopatologia classica. In realtà, il DSM che, nelle sue prime edizioni, aveva assunto come termine di riferimento un modello funzionalistico (come quello di A.Meyer e dei tipi di reazione) che, per quanto sommariamente, teneva ancora conto di talune esigenze integrazionistiche, si è portato, nelle sua successive edizioni (III e IV), sulle posizioni del più crudo operazionismo riduzionistico. E’ tipica, a tale riguardo, la pretesa del DSM di presentare le reazioni psicopatiche aspecifiche (come ansia, panico, fobie, ossessioni, distimie, ecc.) alla stregua di "diagnosi" cliniche. In tal modo, il DSM mostra di ignorare sia la fondamentale distinzione tra la fenomenologia "sintomatica" e la "malattia" propriamente detta (che la psicopatologia strutturalistica identifica con il substrato patologico neurobiologico), sia la differenziazione categoriale, teoretica e clinica, tra le psicosi" e le "psicopatie". Pertanto, il DSM assume una posizione del tutto incompatibile con la psicopatologia classica, sia strutturalistica (nelle sue due versioni: riduzionistica e integrazionistica), sia funzionalistica, oltre che con la metodologia diagnostica della clinica medica, in generale. In effetti, a nessun clinico di medicina generale viene concesso di definire una febbre, una dispnea o una paraparesi come una "malattia": si tratta in realtà di disfunzioni che possono valere come "sintomi" su cui si dovrà indagare per "diagnosticare" la causa patogena e l’alterazione strutturale dell’organismo, cioè la reale malattia. Allo stesso modo, secondo la psicopatologia classica, fenomeni psicopatici come ansie, panico, fobie, ossessioni, distimie e simili, non potranno mai, di per sé, rappresentare autentiche entità nosografiche cui far corrispondere altrettante diagnosi cliniche.
In effetti, nel caso che, sul piano clinico, tali fenomeni annuncino la presenza di una malattia cerebrale (è noto che qualsiasi cerebropatia, come meningoencefaliti, intossicazioni cerebrali, processi degenerativi, anemie, tumori, ecc. possano presentare, in fase prodomica, reazioni di tipo "psicopatico"), essi potranno valere come "sintomi" (sia pure aspecifici) del processo neuropatologico in atto, che rappresenterà la reale malattia cui dovrà riferirsi la diagnosi propriamente detta. Qualora, viceversa, vengano escluse possibili patologie di ordine neurobiologico, tali fenomeni saranno ascrivibili a situazioni conflittuali che chiameranno in causa l’interiorità soggettiva e, pertanto, rientreranno nella tipologia delle psicopatie (personalità psicopatiche, reazioni e sviluppi psicopatici), le quali non rappresentano affatto entità nosografiche o malattie e, pertanto, non rispondono ad un inquadramento clinico "diagnostico".                         (In alternativa, nel caso della psicopatologia strutturalistica riduzionistica, si potrà fare ricorso, anziché al concetto di "psicopatia" a quello neurobiologistico di "costituzione" neuropatica. Anche in questo caso, tuttavia, non si tratterà di una vera patologia, ma di una variante puramente quantitativa delle strutture e delle funzioni del sistema nervoso, alla quale non sarà applicabile alcuna valutazione diagnostica di "malattia", ma sempre e soltanto un inquadramento "tipologico").
Che le psicopatie non debbano essere considerate come diagnosi cliniche, ma soltanto come inquadramenti "tipologici", è stato sottolineato con particolare insistenza (e con ragione) da K.Schneider. Pertanto, dal punto di vista della psicopatologia classica, di fronte ad una fenomenologia clinica di tipo "psicopatico" (ansie, panico, fobie, ossessioni, compulsioni, distimie, ecc.) si presenteranno due possibili termini di riferimento:

  1. la fenomenologia "psicopatica" è "sintomatica" di una vera e propria "psicosi", cioè di una patologia cerebrale che ne è la causa e che, in sé, rappresenta la "vera" malattia;
  2. la fenomenologia "psicopatica" è "espressione" di un’esperienza conflittuale interiore e dei sentimenti della personalità ad essa collegati.
7.  Confusionismo nosografico e nichilismo diagnostico nel DSM: l’abolizione, da parte del DSM, della diagnostica differenziale in psicopatologia clinica.
E’ evidente pertanto che, per la psicopatologia classica, stati psicopatici identici dal punto di vista fenomenico, possono avere significati molto differenti dal punto di vista clinico: in effetti, sotto il profilo diagnostico, un caso clinico di distimia "sintomatica" di un tumore cerebrale avrà un significato ben diverso da un altro caso di disturbo distimico (anche se del tutto identico al primo dal punto di vista delle evidenze fenomeniche) dove non sarà possibile documentare la presenza di reperti neurobiologici significativi e dove, invece, si renderà legittimabile lo stabilire un rapporto comprensibile con i conflitti interiori della personalità del soggetto.                                  
In questo secondo caso, il metodo della spiegazione, obbligatoriamente da impiegarsi per una diagnosi di patologia cerebrale, dovrà lasciare il posto al metodo della comprensione, attraverso il quale l’osservatore stabilirà un rapporto interpersonale sulla base di un principio di analogia emotiva e razionale tra la propria interiorità e l’interiorità dell’altro. E’ peraltro evidente che, tanto nel primo caso ("psicopatia" sintomatica di una psicosi su base neuropatologica, cui si applica il metodo della spiegazione) come nel secondo caso ( psicopatia genuina cui si applica il metodo della comprensione), un quadro clinico "psicopatico" non potrà mai essere considerato, in sé e per sé, come un’entità nosografica passibile di "diagnosi" clinica. 
In effetti, la distinzione fondamentale tra quadro psicopatologico fenomenico o sindrome psicopatologica e diagnosi clinica (di malattia) dovrebbe essere sempre garantita, in psicopatologia e psichiatria, proprio perchè è la premessa metodologica per poter sviluppare un discorso diagnostico differenziale, che impone la necessità di qualificare il quadro psicopatologico osservato o come "sintomo" di una psicosi (malattia cerebrale) o come "espressione" di una psicopatia (conflitto interiore della personalità).                                                
Sotto questo profilo metodologico è evidente che il semplice quadro psicopatologico, sia che gli venga assegnata una valenza "sintomatica", sia che gli venga attribuito un significato "espressivo", non potrà mai, per se stesso, costituire una reale "diagnosi clinica", per il conseguimento della quale sarà richiesta l’individuazione di una specifica patologia cerebrale.                                                  
In tal senso, abolire la distinzione fondamentale tra sintomatologia e patologia, identificando un quadro psicopatico con una vera e propria "diagnosi" clinica, significa contravvenire ai principi metodologici fondamentali della psicopatologia classica (oltre che a quelli della clinica medica, in generale) e, pertanto, equivale ad introdurre il più completo caos metodologico in psicopatologia e psichiatria.
Nella sua III edizione (1980) il DSM aveva ancora conservato una distinzione tra la categoria dei disturbi mentali organici (corrispondenti alle psicosi organiche e sindromi psicorganiche della psichiatria classica) e la categoria delle tipologie nevrotiche e psicopatiche, sia pure nei limiti della teoria funzionalistica dei tipi di reazione secondo A.Meyer. Una simile distinzione, per le sue implicazioni di ordine patogenetico ed anatomopatologico, consentiva di adottare soluzioni nosografiche non eccessivamente dissimili da quelle della psicopatologia classica.    Nel caso delle sindromi depressive, ad esempio, era ancora possibile stabilire una distinzione tra le forme di depressione psicotica, a fondamento neuropatologico accertabile o almeno presumibile (depressioni "organiche" e "ciclotimiche") e le forme di depressione "nevrotica" attribuibili a diverse tipologie psicopatiche (e, pertanto, riconducibili a conflitti della personalità).                  
Con l’introduzione dell’edizione riveduta DSM III R (1987), tuttavia, tutte le depressioni psicopatiche e "nevrotiche", malgrado la grande varietà della loro tipologia conflittuale e personologica, sono state ricondotte ad un’unica etichetta nosografica, cioè alla "diagnosi" unitaria del cosiddetto "disturbo distimico", priva, in realtà, di qualsiasi giustificazione clinica e teoretica in relazione ai canoni della psicopatologia classica. In effetti, oltre all’uso improprio del termine "distimia" (che nella psicopatologia classica è usato per indicare tutti i disturbi dell’umore e non, come intenderebbe il DSM, una particolare categoria clinica di forme depressive), è da rilevare come, con una simile arbitraria omologazione delle depressioni psicopatiche in un’unica categoria pseudonosografica, vengano ignorate le intime correlazioni tra le depressioni psicopatiche e le specifiche tipologie personologiche in cui esse si manifestano. Questa scissione tra la fenomenologia distimica e la problematica della personalità viene ad escludere aprioristicamente la possibilità di un inquadramento delle depressioni psicopatiche che corrisponda alle esigenze di una psicoterapia sistematica ed alle sue applicazioni alle specifiche tipologie personologiche.                                                                 
La dissociazione delle depressioni psicopatiche dalle specifiche tipologie personologiche e la riconduzione di tali depressioni alla categoria aspecifica della cosiddetta "distimia", pur essendo priva di qualsiasi giustificazione dal punto di vista psicopatologico, può trovare tuttavia una spiegazione extrascientifica. In effetti, la costituzione di tale categoria pseudonosografica della "distimia", legittimata "scientificamente" dalle gerarchie accademiche, ha consentito, nell’ultimo decennio, di immettere sul mercato nuove (e meno nuove) molecole, qualificate come "specifiche" per il trattamento della cosiddetta "distimia", prescindendo dalle notevoli differenze specifiche che tali psicopatie presentano sul piano personologico (si veda, in proposito, il caso esemplare del Simposio sulle "distimie" tenuto nel corso del XXXIX Congresso Nazionale dalla Società Italiana di Psichiatria in data 23/28 ottobre 1994, in funzione del lancio del Deniban (amisulpride) della casa farmaceutica Synthélabo, sponsor del Congresso).
Le stesse considerazioni valgono anche per le altre reazioni psicopatiche (panico, ansia, fobie, ossessioni, coazioni, ecc.) che il DSM pretenderebbe di definire come "diagnosi" cliniche, astraendole dal contesto psicopatologico in cui trovano le loro origini e che impone una valutazione diagnostica differenziale che le riferisca ad un’origine neuropatologica oppure ad una tipologia psicopatica.                    
E’ evidente, infatti, che il significato clinico di tali reazioni psicopatiche non potrà risiedere sul piano puramente fenomenico, ma nella possibilità di valere o come "sintomo" di una malattia cerebrale, oppure come "espressione" di una conflittualità psicopatica. In quest’ultimo caso, occorrerà tenere presente che il significato espressivo specifico della reazione psicopatica dovrà essere reperito sul piano della personalità e della sua dialettica interiore. In tal senso, la fondamentale distinzione che la psicopatologia classica stabilisce, sul piano epistemologico e clinico-diagnostico, tra psicosi e psicopatie, rappresenta anche la giustificazione teoretica e pratica per la distinzione tra la psichiatria, fondata sulla psicopatologia della spiegazione (relativa alle psicosi), e la psicoterapia sistematica, fondata sulla psicopatologia della comprensione (relativa alle psicopatie e alla teoria della personalità).
Tuttavia, con la sua IV edizione (1994), il Manuale DSM, che già aveva "abolito" la categoria funzionalistica delle "nevrosi", abolisce anche la categoria delle psicosi organiche e delle sindromi psicorganiche, la quale, come si è visto, rappresenta il pilastro portante della nosografia psichiatrica classica, sia nella versione funzionalistica che in quella strutturalistica.    In tal modo, la dissoluzione della psicopatologia classica, preparata dal programma DSM nelle sue precedenti edizioni, viene portata a totale compimento con l’abolizione definitiva della distinzione, fondamentale per la diagnostica differenziale, tra la categoria nosografica delle psicosi e la tipologia delle psicopatie.   
A tale riguardo, non può apparire casuale che le tappe di tale progressiva demolizione della psicopatologia classica siano state contrassegnate dal lancio, sul mercato degli psicofarmaci, di nuove (e meno nuove) molecole, di volta in volta designate come "specifiche" per pseudocategorie "diagnostiche" quali: "depressione maggiore", "disturbo distimico", "disturbo da attacchi di panico", "disturbo DOC", ecc. 

8.   DSM, psichiatria accademica e psicofarmacologia: l’ostracismo della psicopatologia classica ed il misconoscimento della psicoterapia sistematica come disciplina autonoma.
Non è possibile, a questo punto, evitare di interrogarsi sulle evidenti responsabilità della psichiatria accademica nell’impostazione e nello sviluppo di un’operazione come quella DSM che, mentre da un lato favorisce palesemente la pianificazione della produzione e dello smercio indiscriminato degli psicofarmaci, dall’altro comporta una profonda adulterazione epistemologica della psicopatologia classica, che è stata di fatto ostracizzata sul piano della ricerca e della clinica, proprio quando aveva raggiunto un livello di maturità tale da consentirle di conseguire (con opportune integrazioni dialettiche) soluzioni soddisfacenti per i principali problemi teoretici e clinici della psichiatria contemporanea. E’ senza dubbio impressionante verificare come, sul piano operativo, gli interessi delle ditte farmaceutiche – rivolti ad espandere indiscriminatamente, quanto è più possibile, il mercato degli psicofarmaci – e quelli della psichiatria accademica, intenzionata a rafforzare posizioni di potere abusivamente conseguite, coincidano perfettamente. Per l’attuazione di una simile politica di potere economico e accademico, il programma DSM rappresenta uno strumento fondamentale.
In primo luogo, come si è visto, il DSM, sopprimendo radicalmente la problematica della diagnostica psicopatologica differenziale tra psicosi e psicopatie, essenziale per la teoria e la clinica della psichiatria classica, riduce la nosografia psichiatrica a un inventario rapsodico di quadri clinici privi di un’autentica giustificazione epistemologica.                                                         Assegnando a tali quadri sintomatici (come "attacchi di panico", "distimia", ecc.) la qualifica abusiva di "diagnosi", si creano le condizioni per definire psicofarmaci di generica efficacia sintomatica come "specifici" per la terapia di presunte "malattie" psichiatriche, prive, in realtà, di un fondamento metodologico specifico.  Le qualità terapeutiche di tali psicofarmaci, pur in assenza di adeguanti riscontri con la realtà clinica e diagnostica, vengono, ormai da decenni, propagandate in congressi e simposi promossi dall’accademia psichiatrica e sponsorizzati dalle case farmaceutiche produttrici.                                    
In secondo luogo, abbiamo già sottolineato come la distinzione epistemologica tra la metodologia della spiegazione e quella della comprensione (la prima valida per le psicosi, la seconda per le psicopatie) comporti la necessità di una distinzione tra una psicopatologia psichiatrica, che da sempre ha avuto il suo punto di riferimento nella categoria delle psicosi a fondamento neuropatologico (psicosi organiche e psicosi endogene) e una psicopatologia personologica che, con lo sviluppo delle psicoterapie analitiche sistematiche, ha assunto sempre più esplicitamente, come suo ideale programmatico, la costituzione di una teoria critica della personalità, come condizione per la conoscenza delle psicopatie.                                       
Una simile differenziazione epistemologica comporta necessariamente il riconoscimento dell’autonomia metodologica della psicoterapia sistematica, per tutto quanto concerne la teoria, la clinica e la terapia. Risulta evidente, infatti, che la metodologia neurologica della spiegazione, per quanto necessaria anche nella clinica psicoterapeutica, per la soluzione dei problemi della diagnostica psicopatologica differenziale, non può tuttavia entrare minimamente nel merito delle specifiche problematiche psicoterapeutiche, cui compete il metodo della comprensione.          
Questo doveroso riconoscimento dell’autonomia epistemologica e clinica della psicoterapia analitica sistematica è peraltro chiaramente incompatibile con la politica di potere della psichiatria accademica, interessata a mantenere la psicoterapia in una condizione di sudditanza scientifica, didattica e amministrativa.  Accade così che, contravvenendo a precise disposizioni di legge, che riconoscono alla psicoterapia lo statuto di una disciplina autonoma anche come specializzazione e come professione, tale disciplina sia divenuta attualmente oggetto di una sorta di lottizzazione eslege tra i potentati universitari di psichiatria e psicologia. In questo contesto, hanno assunto un ruolo di primo piano le manovre rivolte a privilegiare sul piano scientifico, culturale, didattico e clinico, le psicoterapie di impostazione non analitica e non sistematica, più facilmente riconducibili a formule epistemologiche riduzionistiche ed operazionistiche, tali da giustificare la subordinazione della psicoterapia alla psichiatria ed alla psicologia accademiche, da sempre fondate su metodologie riduzionistiche.                     
Quando si tenga presente che tali metodologie psicoterapeutiche sono anche quelle che meglio si conciliano con la prescrizione di terapie psicofarmacologiche, rispetto alle quali svolgono un ruolo tutto sommato ausiliario, si potrà riconoscere un ulteriore motivo di convergenza tra gli interessi del mondo dell’accademia e quelli delle multinazionali del farmaco. 
 
9. Il declassamento epistemologico e didattico della psichiatria accademica e la dissoluzione dell’identità professionale del medico come psichiatra e come psicoterapeuta: la crisi metodologica dell’assistenza psichiatrica e dei servizi di salute mentale 
In terzo luogo, le responsabilità della psichiatria accademica, per quanto concerne la mancata differenziazione dei ruoli clinici spettanti alla psicopatologia psichiatrica della spiegazione e alla psicopatologia psicoterapeutica della comprensione, risulta evidente non solo in relazione all’arbitrario rifiuto del riconoscimento della psicoterapia come disciplina autonoma, ma anche in riferimento agli esiti fallimentari della legislazione che avrebbe dovuto riordinare gli istituti di assistenza psichiatrica. A tale riguardo, abbiamo già in altre occasioni sottolineato come tale mancata differenziazione sia all’origine delle condizioni paradossali in cui è venuta a trovarsi l’assistenza psichiatrica, prima e dopo la legge 180.
In realtà, prima della legge 180 per la riforma degli istituti di assistenza psichiatrica, nessuna adeguata concezione teoretica e clinica della malattia mentale, conforme ai più maturi sviluppi del pensiero psicopatologico, trovava applicazione per quanto concerne lo studio dei ricoverati ed il loro trattamento terapeutico. Mentre negli ospedali di medicina somatica il paziente veniva ricoverato, da sempre, in reparti specificamente qualificati in funzione dello stato patologico di cui egli soffriva, viceversa, nei vecchi ospedali psichiatrici, era possibile trovare reparti il cui criterio di qualificazione rispondeva non già ai criteri della patologia e della clinica, bensì unicamente alle esigenze contingenti della pura vigilanza. Invece di qualificare i suoi reparti in relazione alle diverse categorie psichiatriche (quali, ad. es., le demenze senili e presenili, le intossicazioni cerebrali, le oligofrenie, le schizofrenie, le psicosi maniaco-depressive, le epilessie, le psicopatie, ecc.) il vecchio ospedale psichiatrico classificava le proprie divisioni secondo le "categorie" dei "tranquilli" e degli "agitati", dei "sudici" e dei "puliti", e così via.   Accadeva così che, in uno stesso reparto (ad esempio, quello degli "agitati") trovassero ricovero pazienti appartenenti alle più disparate categorie nosografiche (quali l'alcolista e l'oligofrenico, il paralitico progressivo e l'epilettico, lo schizofrenico ed il ciclotimico in fase maniacale, ecc.), con quali vantaggi, dal punto di vista clinico, è facile immaginare. In tal senso, nell’ospedale psichiatrico, il medico assumeva una fisionomia in tutto simile a quella del medico carcerario, in quanto non gli era neppure richiesta, obbligatoriamente, una competenza specialistica nel campo delle discipline psichiatriche e psicoterapeutiche, bensì soltanto una competenza in medicina generale, in relazione alle necessità cliniche generiche che potevano presentarsi in un luogo a regime di custodia.
In realtà, non essendo stati acquisiti, dalla nostra psichiatria accademica (allora ancora associata alla neurologia) i più maturi sviluppi della psicopatologia classica, il medico dell’ospedale psichiatrico (fosse generico o specialista neuropsichiatra) non poteva aver ricevuto, nel corso dei suoi studi universitari, una formazione adeguata che gli consentisse di comprendere la distinzione epistemologica fondamentale tra psicosi e psicopatia, né tra psicopatologia psichiatrica della spiegazione e psicopatologia psicoterapeutica della comprensione. Pertanto, qualsiasi paziente ricoverato in ospedale psichiatrico, psicotico o psicopatico, conformemente alla formazione didattica universitaria del medico, doveva essere considerato comunque come affetto da "malattia mentale", secondo i canoni riduzionistici del più radicale neurologismo naturalistico che ignorava non solo qualsiasi principio di spontaneità della personalità e della sua dialettica interiore, ma anche i più elementari principi epistemologici della psicopatologia classica . 
L’avvento della legge 180 per la riforma dell’assistenza psichiatrica ha comportato un nuovo, non meno grave, misconoscimento delle acquisizioni più avanzate della psicopatologia classica e pertanto, non ha determinato alcun progresso ai fini di una razionalizzazione dei trattamenti psichiatrici.            In effetti, l’avvento della riforma risultava, sin dagli inizi, condizionato da preconcetti ideologici e sociologici che, di fronte alle aberranti concezioni della malattia mentale e della sua terapia, tipiche della psichiatria istituzionalizzata, nelle università e nelle strutture ospedaliere, presumeva di poter giustificare il suo programma di negazione dello stesso concetto di malattia mentale e di abolizione della stessa psichiatria. 
In tal modo, però, la riforma sociologistica della psichiatria si astraeva a sua volta dagli autentici progressi della psicopatologia classica e dalle sue acquisizioni epistemologiche.                     L’arretratezza e le aberrazioni della psichiatria istituzionalizzata non venivano combattute nel quadro di un autentico rinnovamento epistemologico e didattico della disciplina psichiatrica, adeguato ai più avanzati sviluppi della psicopatologia clinica, ma in funzione di un mutamento degli equilibri di potere all’interno delle istituzioni e della società.  La dequalificazione radicale della psichiatria istituzionalizzata ed il totale misconoscimento dell’autentica conoscenza psicopatologica, conducevano così ad un pericoloso declassamento della figura professionale del medico psichiatra, i cui ruoli venivano assegnati ad una vasta gamma di altre figure professionali e semiprofessionali, prive di qualificazione medica e psichiatrica. 

10.  La restaurazione dei valori della psicopatologia classica come unica alternativa per una riqualificazione della psichiatria e della psicoterapia nell’età contemporanea. 
La carenza di cultura e di qualificazione professionale ad ogni livello, medico e non medico, unitamente alla conseguente confusione dei rispettivi ruoli professionali, ha portato così i servizi di salute mentale ad una condizione di caos tanto più grave, in quanto si pretenderebbe, tuttora, di ignorarne le origini epistemologiche e didattiche.                                            
In realtà, per quanto, nel frattempo, la psichiatria acquisisse, in ambito universitario, lo statuto di disciplina autonoma, distinta dalla neurologia, gli sviluppi più maturi della psicopatologia classica venivano sistematicamente ignorati e ostracizzati, sia nella ricerca e nella clinica, sia nella didattica, per accogliere, del tutto acriticamente, la pseudonosografia del DSM e la sua metodologia operazionistica riduzionistica. E’ significativo che questa indiscriminata adozione, in psichiatria, del programma DSM, portando alla dissoluzione della psicopatologia classica, metta in crisi sia la possibilità di una fondazione della psicoterapia sistematica come disciplina autonoma, sia la possibilità di una costituzione organica dei servizi di assistenza psichiatrica e di salute mentale.         
Come già si è visto nel caso della psicoterapia sistematica, anche nel caso dei servizi di assistenza, la dequalificazione del medico e delle sue competenze diagnostiche non può che giovare alla politica di espansione mercantilistica delle case produttrici degli psicofarmaci.                           
In effetti, è inevitabile che l’artificioso semplicismo delle pseudodiagnosi DSM (che, tra l’altro, si presta alla computerizzazione anche per quanto riguarda la ricettazione psicofarmacologica), possa ingenerare, anche in professionisti e paraprofessionisti non medici operanti nella sanità mentale, la persuasione illusoria di disporre di competenze sia nel campo diagnostico sia in quello delle terapie psicofarmacologiche. 
Con tale politica di declassamento della professionalità psichiatrica e di devoluzione delle competenze diagnostiche e terapeutiche a figure professionali non mediche, le caste accademiche si sono assicurate la facoltà arbitraria di assegnare, ad libitum, anche a chi sia privo di reali competenze, i più ingiustificati privilegi, rafforzando, così, sia la propria posizione di potere, sia le convergenze di interessi con i signori del farmaco. Questa politica del potere per il potere, che vede le consorterie accademiche allineate, in una sorta di Santa Alleanza, con il cartello multinazionale degli psicofarmaci, si è sviluppata sia, da un lato, attraverso una progressiva tecnicizzazione della nosografia psichiatrica, propiziata dal riduzionismo operazionistico del DSM, sia parallelamente, dall’altro lato, attraverso la non meno progressiva soppressione, nelle nuove generazioni psichiatriche, di ogni traccia di coscienza epistemologica e di conoscenza del patrimonio teoretico e clinico acquisito dalla psicopatologia integrazionistica classica.                                                                                                                           
Un ritorno ai valori teoretici, clinici e didattici della psicopatologia classica si impone oggi, necessariamente, come unica alternativa per un radicale emendamento della politica attuale perseguita dai responsabili delle istituzioni accademiche e per una riqualificazione delle nostre discipline non solo da un punto di vista scientifico, didattico e professionale, ma anche, e soprattutto, sotto un profilo eminentemente etico.

Note


1) Nei seguenti passi di E.Kraepelin noi troviamo esposti, in maniera esemplare, i principi epistemologici della psicopatologia strutturalistica riduzionistica:                                     "Non si potrebbe a rigor di termini parlare di malattie della psiche, sia che si consideri questa come un'entità autonoma, oppure soltanto come il complesso della nostra esperienza interna. Sono invece le alterazioni del substrato corporeo della nostra vita mentale quelle sulle quali noi dobbiamo, dal punto di vista medico, dirigere la nostra attività e i nostri sforzi terapeutici."
"Quando saremo riusciti, con le osservazioni cliniche, a formare gruppi morbosi, con cause, manifestazioni e decorso ben certi e sicuri, allora sarà nostro compito di approfondire lo studio delle singole forme morbose. Si è già usata da tempo a questo fine l'anatomia patologica".
"Noi dovremo avere da un lato una nozione precisa dei cambiamenti nelle condizioni anatomo-fisiologiche della corteccia cerebrale, dall'altro delle morbose manifestazioni psichiche ad essi connesse. Solo allora noi saremo in grado di dedurre dalle alterazioni della vita psichica i relativi fondamenti anatomo-patologici, e quindi le cause dell'intero processo morboso e viceversa".
"Dovremo quindi imparare a conoscere questi rapporti che dominano il decorso delle manifestazioni psichiche, e studiare con la massima accuratezza le leggi di dipendenza che esistono tra fatti fisici e psichici. Non è impossibile sperare di poter giungere ad una vera fisiologia della psiche, che darà certo una base utile per la psichiatria; essa ci servirà a scomporre nei loro più semplici elementi le manifestazioni più complicate, ed in questa scomposizione della vita psichica normale troveremo gli elementi per poter giudicare e spiegare i diversi disturbi morbosi.
"
Kraepelin E. (1901), p. 1; (1904), Vol. I, p. 4; (1904), Vol. II, p. 1; (1904), Vol I p. 5 (grassetti aggiunti).
"Se in uno dei tre domini della pazzia, quelli cioè dell'anatomia patologica, dell'etiologia, della sintomatologia, noi possedessimo la conoscenza assolutamente completa di tutti i particolari, non solo ci sarebbe possibile rinvenire in ciascuno di essi una suddivisione idonea e definita delle psicosi, ma anche ci sarebbe possibile mettere in relazione tra loro queste tre classificazioni. I casi morbosi originati da cause realmente simili dovrebbero offrire sempre le stesse manifestazioni e lo stesso reperto anatomico; le apparenti eccezioni che noi incontriamo adesso frequentemente, derivano dalla imperfezione delle nostre cognizioni. Da tale concetto fondamentale si deduce che la classificazione clinica delle alterazioni psichiche dovrà basarsi sulla suddivisione, contemporaneamente, su tutti e tre i mezzi di aiuto, ai quali si deve aggiungere ancora l'esperienza acquistata sul decorso, sull'esito e sulla terapia. Quanto più grande sarà la somiglianza tra le forme ottenute nelle varie classificazioni, tanto maggiore sarà la sicurezza che esse rappresentino realmente particolari stati patologici."  Kraepelin E. (1904), Vol. II, p.5( grassetti aggiunti).

2) Sono particolarmente significativi, in proposito, i seguenti passi del Bumke:
"Tutti i luoghi di cura per alienati accolgono due sorta di malattie eterogenee – considerate secondo l'origine loro – le quali, per lo meno immediatamente, non passano l'una nell'altra e, tutt'al più, solo incidentalmente qualche volta coincidono, e sono le malattie cerebrali e le psicosi funzionali.
Nella paralisi progressiva, nella lue cerebrale, nella demenza senile, nell'arteriosclerosi, nei tumori del cervello e nelle conseguenze di certe ferite, per citare solo le forme più importanti, un processo patologico grossolano si innesta nel meccanismo cerebrale normale, lo distrugge o per lo meno lo disturba; ne derivano, oltre ai segni somatici della malattia, determinati sintomi nervosi di deficienza o di irritazione, come afasia, aprassia, cecità psichica, amnesia, demenza, fenomeni di eccitamento da causa organica. Questi sono, almeno in parte, anche sintomi psichici, ma non sono preformati nella nostra vita psichica normale, e noi ci troviamo di fronte ad essi psicologicamente senza risorse; possiamo bene registrarli ma non interpretarli. Il cervello ammalato organicamente reagisce diversamente dal sano, e chi studia queste reazioni maneggia una patologia generale orientata secondo punti di vista neurologici che ha ben poco in comune con la psicologia normale. Noi possiamo scoprire come parla un individuo afasico, ma il modo di procedere di costui non risveglia una eco immediata nella nostra coscienza. (Questo naturalmente non esclude che noi stessi occasionalmente possiamo provare accenni di questi sintomi, persino nel corso di malattie di poca importanza. Facile perseverazione mentre vi è un po' di febbre, accenni di incontinenza emozionale se vi è un forte esaurimento psichico od organico, sintomi parafasici e parapractici nell'ubriachezza e amnesie in seguito all'avvelenamento alcoolico, si presentano anche nei sani; tutte queste sono quindi reazioni organiche sottratte alla nostra comprensione psicologica immediata). Non è necessario aver veduto molti malati per sapere che all'infuori di questi si danno altri disturbi mentali di cui siamo ben in grado di comprendere le manifestazioni. Si può essere malati di mente anche in modo diverso da quello secondo il quale un processo organico si insedia in un cervello precedentemente sano come farebbe un processo infiammatorio del polmone. Noi arriviamo così al concetto dei disturbi psichici funzionali.                         Le oscillazioni dell'umore, l'angoscia, la periodicità, la suggestionabilità, gli errori mnemonici, l'inibizione, le idee ipocondriache,, melanconiche o di dubbio, le oscillazioni della cenestesi, la tendenza più o meno accentuata alla lotta od ai conflitti: tutto questo l'uomo normale conosce già nella propria coscienza e può quindi penetrare ben nella mente di quei malati nei quali questi caratteri sono patologicamente esagerati o deformati. Ciò non avviene nella stessa misura a tutti gli osservatori e per tutti gli ammalati, ma secondo il temperamento: ad un osservatore appare più familiare un sintomo, ad un altro un altro. Ma fondamentalmente tutti i sintomi citati hanno le loro radici nel campo della normalità e derivano dalle proprietà della psiche umana normale. Per quanto le rappresentazioni deliranti, i disturbi sensoriali, i disturbi della volontà, quando giungono ad un grado molto avanzato, trasformino in modo sorprendente la personalità di un individuo, tuttavia all'analisi scientifica che ricerca le tracce delle prime e più sottili manifestazioni, ciascuno di questi sintomi finisce per dileguare nella psicologia dell'uomo normale "                                                    

3) A tale proposito, lo Jaspers così si esprime: "La speranza di trovare, con l'osservazione clinica dei fenomeni psichici, dell'evoluzione e degli esiti, gruppi caratteristici che, successivamente, possano essere confermati dai reperti cerebrali, facendo un lavoro preparatorio per l'anatomia cerebrale, non è stata realizzata. La storia ci insegna i fatti seguenti:
a) i processi cerebrali fisicamente dimostrabili sono stati scoperti sempre ed esclusivamente mediante esami somatici senza alcun lavoro psicopatologico preliminare;
b) quando si sono trovati processi cerebrali chiaramente delimitati, si è constatato che in essi possono insorgere di volta in volta tutti i sintomi psicopatologici e che nel campo psichico non esistono segni caratteristici.                                                                 Né le forme psicologiche fondamentali, né la teoria delle cause (etiologia), né i reperti cerebrali, hanno condotto a raggruppamenti di unità morbose, nelle quali si potessero classificare tutte le psicosi.
L'idea dell'unità morbosa non può essere mai realizzata nel caso particolare. Perciò la conoscenza della coincidenza regolare delle stesse cause con gli stessi fenomeni, evoluzione, esito e reperto cerebrale, presuppone una completa conoscenza di tutte le singole coincidenze, conoscenza che sta in un futuro straordinariamente lontano. L'idea dell'unità morbosa è un'idea nel senso kantiano: il concetto di un compito di cui è impossibile raggiungere la meta, perché sta nell'infinito; essa però ci indica una direzione di indagine feconda e significa un vero punto di orientamento per la ricerca empirica particolare.                                                                          

L'idea dell'unità morbosa non è un compito raggiungibile, ma il punto di orientamento più utile."
Jaspers K. (1959), pp. 610, 608, 612, passim (grassetti aggiunti).
 

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