1. Orizzonti della scissione
Il tetano dell’anima
La vita di Antonin Artaud è un lungo e applicato esercizio di spossessamento in vista della maestria.
J. M. G. Le Clézio
"Uno degli usi contemporanei Della rispettabilità letteraria […] è di rendere accettabile un autore oltraggioso, essenzialmente inaccessibile, che diventa un classico in base alle molte cose interessanti che si possono dire sulla sua opera, le quali raramente svelano (e più spesso nascondono) la vera natura dell’opera stessa, che può essere, fra l’altro, estremamente noiosa, o moralmente mostruosa, o terribilmente dolorosa da leggere".
Su Artaud sono state dette cose molto interessanti e un’imponente bibliografia ci conferma che oggi Artaud è ormai un classico – cioè un uomo il cui pensiero è diventato una sorta di "piccola valigetta intellettuale portatile" (Sontag), disponibile alla estrapolazione del commento, consegnata ai paradigmi della decodificazione analitica, alle griglie interpretative del riduzionismo critico, a ciò che Galimberti chiama "piacere perverso della crittogrammatica".
I Cahiers de Rodez (1943 — 1945) – che insieme ai Cahiers du Retour à Paris formano la parte più copiosa della produzione letteraria di Artaud – sembrano essere, tuttavia, l’unica zona in cui nessun commentatore ha voluto avventurarsi per più di pochi passi. Questo studio si propone dunque come tentativo di riflessione su questa regione pressoché incontaminata dell’universo Artaud: su quella parte che riesce a essere insieme la più ardua, moralmente mostruosa e terribilmente dolorosa da leggere.
I Cahiers de Rodez, i quaderni che hanno accompagnato giorno dopo giorno l’ultimo dei nove anni trascorsi dal poeta in manicomio, costituiscono infatti, a mio avviso, la chiave di volta di tutta la sua opera e soprattutto il manifesto programmatico, il punto archimedico dei grandi scritti post-asilari. A quasi vent’anni dalla pubblicazione, questi "quaderni della follia" potrebbero ormai essere lo strumento privilegiato per la creazione di una nuova situazione interpretativa. La disamina dei Cahiers potrebbe suggerire una rilettura di tutto il corpus delle opere di Artaud: in particolare degli scritti posteriori, considerati a lungo come il ritorno dell’internato alla creazione, dopo otto anni di silenzio. La critica si ostina però a mettere da parte gli scritti asilari catalogandoli come insignificanti perché (apparentemente) non-significanti.
I Cahiers de Rodez sono indubbiamente la manifestazione letteraria della follia di Artaud: di quel "veleno" che corrode il suo essere, di quel "tetano" che minaccia la sua anima. Questo lavoro è dedicato all’analisi dei modi in cui, nei Quaderni, si manifestano le strutture dalla mente psicotica: quelle stesse strutture che modificano il linguaggio nelle sue diverse dimensioni formali. Ho voluto pensare ai Cahiers de Rodez come a un vero e proprio laboratorio del travaglio identitario di Artaud rivelato dalla sua scrittura.
Chiedersi, invece, se esista un termine ultimo all’avventura dei Cahiers – se si possa cioè parlare di un’autentica guarigione attraverso gli scritti di Rodez – mi sembra meno importante, nel senso che non è qui che si trova il punto cardinale dell’evento che questi quaderni rappresentano. Piuttosto, quello che mi interessa è considerare Artaud come soggetto in cammino verso l’io. Questo lavoro si propone dunque di accompagnare Artaud in questo suo viaggio senza fine: accompagnare per un po’questo ebreo errante dell’identità in viaggio da sempre. "En marche depuis toujours" (XVIII, 160).
Prima di iniziare un qualsiasi discorso approfondito sui Cahiers, è però necessario sottolineare che nessuna citazione può rendere conto dell’incessante sviluppo di questi quaderni, del loro movimento, della ricchezza del loro vocabolario e delle loro immagini. Per questo motivo vorrei rinviare alla loro lettura in quanto approccio insostituibile. "Distaccare il suo pensiero, come bene intellettuale portatile, ammonisce la Sontag nel suo approccio ad Artaud, è proprio ciò che questo stesso pensiero vieta in maniera esplicita. È un evento, non un oggetto (appropriabile)".
La massa di queste tremila pagine non è, tuttavia, monolitica, né tantomeno finita. Questi quaderni non si presentano come totalità unitaria né rispetto alla loro forma né rispetto al loro contenuto. I primi testi sono delle composizioni indipendenti, "cioè aventi un inizio e una fine, ma molto presto ciò che viene annotato in questi quaderni diviene tutt’altra cosa. È una sorta di testo continuo che non assomiglia a nulla di conosciuto" [nota-presentazione della curatrice delle Œuvres complètes, Paule Thévenin, al primo volume dei Cahiers – XV, 346].
Non si può nemmeno riconoscere una materia conoscitiva che possa essere raccolta in un sistema finito o almeno in singole teorie scientifiche, in modo tale che la conoscenza, il sapere, riesca a costituirsi come tale. Il ritmo dei Cahiers è in continua evoluzione, nonostante possa sembrare ripetitivo e ridondante. L’espressione appare, all’inizio, come claudicante, imprigionata nella ridondanza del rituale cristiano. Ma il linguaggio si libererà velocemente, si emanciperà fino a conquistare un’andatura estremamente viva. Benché i quaderni di Rodez sembrino ancora in attesa di essere riletti e corretti, questa stesura di primo getto, sottomessa all’esigenza di canalizzare in un discorso scritto il flusso incessante del pensiero, può vantarsi di una lingua srtaordinariamente chiara, eternamente sospesa fra l’esplosivo e il contenuto.
Riconoscere questo importante sviluppo all’interno dei Cahiers non significa affatto dividerli in due blocchi eterogenei che linearmente si susseguono, ma coglierne le diverse tendenze, quel continuo gioco di forze che sembra disegnare – più che una freccia – una spirale. Una spirale conica dalla base infinitamente larga e priva di un vero e proprio vertice, una sorta di imbuto rovesciato.
Questa definizione si chiarirà nelle pagine che seguono: ciò che vorrei stabilire fin d’ora è che all’interno dei Cahiers sono individuabili due forze antagoniste: quella centrifuga che è alla base della disintegrazione psichica, di ciò che lo stesso Artaud ha, a più riprese, definito la dispersione, la perdita (déperdition), del pensiero, lo sprofondamento centrale dell’io, il veleno dell’essere, iltetano dell’anima; e quella centripeta sottesa al titanico sforzo di costruirsi un "io unitario": una sorta di evaporazione e di condensazione dell’io. Lo stesso Artaud è consapevole di essere in balia di queste due tensioni e di essere come in cammino verso l’io:
Je fus toujours un […] être sans commencement ni fin, donc de toujours mais pas encore moi. Et je le serai bientôt pou la première fois (XX, 28).
[Fui sempre un essere senza inizio né fine, dunque da sempre ma non ancora io. E lo sarò presto per la prima volta].
In questa confessione l’autore dei Cahiers ne riassume lucidamente l’andamento. Artaud segue un percorso contrassegnato da una "sofferenza atroce", da un’inevitabile crudeltà – nel senso che a questo termine dà lo stesso Artaud – quindi un percorso necessario: "applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta" (IV, 121). Necessario perché soltanto questa via crucis, questa "scrittura del sé (écriture du soi) è un esorcismo per scacciare tutti i doppi e dirsi, alla fine, "moi, simple Antonin Artaud". Ma […], anche, bisogna subire fino in fondo la crudele necessità del doppio e, per poterlo esaurire, passare attraverso tutte le sue incarnazioni".
È essenziale riconoscere i modi in cui queste forze antitetiche che dominano l’esperienza della coscienza di Artaud si manifestano attraverso la scrittura. La questione è sapere se, riconoscendo questi "motivi" di un testo, cogliamo allo stesso tempo – come se l’opera prendesse in prestito le forme di una sintomatologia – gli eventi psichici di colui che lo ha scritto. Artaud si pone la stessa domanda in una lettera a Peter Watson del 27/VII/1946, concludendo che l’opera sta allo scrittore come la morte sta all’esistenza: entrambe mentono. Come "le mort est un être qui ment" (XII, 233) [il morto e un essere che mente] così "les oeuvres prennent de la bouteille […] mentant toutes par rapport à l’écrivan…" (XII, 231) [le opere invecchiano […] mentendo tutte in rapporto allo scrittore…].
Benchè l’opera menta, essa non può arrestare la forza che la fa nascere, quella forza che permette alle tracce del reale di fare effrazione nell’opera – e attraverso l’opera nel mondo – esprimendo, attraverso la sua "vérité bizarre", l’"inexprimable" (ibidem).
"Mon oeuvre en dit beaucoup moins que ma vie" [La mia opera ne dice molto meno della mia vita], sostiene Artaud, non potendo però fare a meno di aggiungere: "mai elle le dit" (XII, 239) [ma lo dice]. Forse, proprio perché consapevole di questa potenza dell’opera, della corrispondenza fra la propria vita e la propria produzione artistica, Artaud nega, come nel processo di rimozione, il valore sintomatologico dei suoi scritti :
Je ne veux pas me reproduire dans les choses, mais je veux que les choses se produisent par moi. Je ne veux pas d’une idée de mon poème et je ne veux pas m’y voir moi (IX, 123).
[Non voglio riprodurmi nelle cose, ma voglio che le cose si riproducano attraverso di me. Non voglio una idea della mia poesia e non voglio vedermici].
Se, dunque, l’ordine dell’opera e quello del mondo psichico dello scrittore in qualche modo coincidono, questo tentativo di lettura troverà forse la sua legittimità.
Spaltung: "toi, Antonin Artaud"
Die Spaltung des Ich scheint die Daseinsform des reproduzierenden Genies zu sein*.
Hugo von Hofmannsthal
Nonostante abbia scoperto molto presto il suo io come sede di una lotta accanita, mai come nei Cahiers Artaud si presenta come vittima del proprio io, dell’inadeguatezza della coscienza rispetto a se stessa, mai come nei Cahiers è consapevole del fatto che la sua Lebenswelt sia tematizzata dalla ingombrante e dolorosa presenza di una grave dissociazione dell’io. Artaud si accorge già in gioventù che normalmente la persona è retta da quel continuum che in lui si è incrinato, spezzato. È proprio questa rottura a provocare ciò che Artaud definisce, in una lettera del gennaio del 1945 "ces abominables dedoublements de la personnalité sur lequels j’ai écrit dans la correspondance avec Rivière" (XI, 13) [questi abominevoli sdoppiamenti della personalità dei quali scrissi nella corrispondenza con Rivière. Incessantemente rincorre quella "cristallizzazione sorda e multiforme del pensiero", quella"cristallizzazione immediata e diretta dell’io" andata perduta. La coscienza è in balia di una vera e propria scissione che dissolve l’identità soggettiva, rendendo porose le frontiere dell’io.
La scissione (Spaltung) può avere molte facce. Il suo stesso padrino ci fornisce informazioni contrastanti sul suo ruolo. Per Bleuler, essa è, a differenza del disturbo delle associazioni, soltanto una manifestazione secondaria della schizofrenia. Ma all’interno dello stesso Dementia Praecox questa differenza resta oscillante. Possiamo infatti leggere: "La scissione è la condizione preliminare della maggior parte delle complesse manifestazioni della malattia schizofrenica. Le conferisce la sua particolare impronta. Dietro lascissione sistematica, in determinati complessi ideativi, abbiamo trovato un rilassamento primitivo della struttura delle associazioni, che può portare alla frammentazione irregolare di strutture resistenti".
Mentre il termine Spaltung rinvia a una netta separazione, quasi a un dividere a metà, ciò che viene alla luce nei Cahiers è ciò che lo stesso Bleuler chiama Zerspaltung, una frammentazione irregolare, quasi una frantumazione. La mente non si scinde in due mondi, ma siamo di fronte a una dimensione frantumata dell’essere, a una drammatica lacerazione (Zerrissenheit). Più che a Narciso il doppio schizofrenico è riferibile a Eco: strettamente legati alla sofferenza, alla supplica, i doppi sono molti, multipli, e si incrociano indefinitamente.
Ogni volta che userò il termine scissione avrò dunque in mente questa divisione in molti pezzi, questa disgregazione che tende verso la polverizzazione.
Fra i segni più evidenti di questa manifestazione della follia, della compromissione della coscienza (o esperienza) dell’io di Artaud, spicca quella che si potrebbe definire la de-referenzializzazione delle istanze pronominali, fenomeno già presente negli scritti giovanili.
Ogni enunciazione, in quanto non-io, suppone fichtianamente la posizione da parte di un io. Ed è lo stesso io a dire "io, tu, lui…". Ma se questo io non riesce a costituirsi come istanza psichica unitaria, l’oscillazione perpetua di questo "io" si riproduce in una vera e propria dissoluzione del dispositivo io-tu-lui. Generalmente è proprio la prima persona a moltiplicarsi nelle altre forme pronominali, impossibili da ricondurre a un preciso referente:
Ambulances, maisons de santé, asiles, camisoles, prisons, électrochocs c’est ce que tu crains le plus parce que t’étant remis ànous, toi, Antonin Artaud, comme criminel et c’est toi avec ton Nanaqui qui avez peur dans le corps qu’il habite et ou il se dégage peu à peu parce que tu as pensé que l’acceptation de l’être te donnerait une supériorité sur lui qui l’a toujours refusé(corsivi miei – XV, 137)* .
Questo, come molti altri testi dei Cahiers, ci offre chiaramente i sintomi linguistici di una dissoluzione del soggetto. L’istanza enunciativa (io) si fonde con l’interlocutore (tu) di un indefinibile noi.
La presenza di un "io" nel testo lascerebbe supporre che questa istanza possa finalmente formulare un giudizio di esistenza e/o di attribuzione, ma la smentita è sempre imminente: questo io è in realtà "ridotto al ruolo di porta-parola, presentatore di un messaggio di cui non ha la chiave, come una controfigura che parli a nome di qualcun’altro". L’io e l’altro, l’io e gli altri si fondono: l’io che non riesce a costituirsi come tale deve, per poter enunciare qualcosa, identificarsi con un altro io ben definito, prenderlo in prestito come avverrebe in una invasione degli spiriti celesti:
...l’envahissement des aum (esprits célestes) dont le plus terrible était moi, monsieur Moâ, Jesus-christ, quand la Vierge m’accusait, moi, cet homme, d’être le moâ ennemi qui m’avait envahi pour prendre l’homme que je suis et, en effet, dans mon cervau Je y était (XVIII, 27).
[L’invasione degli aum (spiriti celesti) il più terribile dei quali ero io, il signor Io, Gesù Cristo, quando la Vergine mi accusava, me, questo uomo, di essere l’io nemico che mi aveva invaso per prendere l’uomo che sono e, in effetti, nel mio cervello Io c’era].
Multi in parvo
Le nombre des êtres, est infini sans chiffre, je suis une puce de plus en plus engrossie et engraissante d’êtres./ C’est à dire que ma dimension augmente en fonction des êtres qui viennent se reposer en moi à chaque sommeil*.
Antonin Artaud
Sotto il semplice profilo biografico Artaud ha assunto i ruoli sociali più disparati. È lui a fornirci, nel marzo del 1946, un saggio di una lista potenzialmente inesauribile, come se compilasse un bilancio-inventario prima di lasciare Rodez:
Aussi bien dieu que le bourgeois de Marseille s’en iront, il ne restera que le bafoué dépucelé, le violé, le méningitique, l’écrivain, le figurant de cinéma, l’acteur, le metteur en scène, le voyageur, le sans-le-sou, l’épouvantable intoxiqué, l’empoissoné, l’interné, l’assassiné, l’épuisé, l’écorché des coups qu’il s’est portés pour fair cesser des nausées de la haine *(XX, 414).
Come in un irriducibile e incessante andirivieni, Artaud percorre, attraverso una serie di identificazioni proiettive, l’asse re-pharmakos in cui l’abietto e il regale, il veleno e l’antidoto comunicano intimamente. Non a caso a Rodez si identifica con la figura di Cristo, salvatore pronto al sacrificio, e allo stesso tempo, con il principe dell’Apocalisse, re e distruttore del mondo, con l’Anticristo.
Già nel 1924, mentre lavorava a Le Théâtre et son double, scriveva consapevole:
Je suis comme un personnage de théâtre qui aurait le pouvouir de se considerer lui-même et d’être tantôt abstraction, pure et simple création de l’esprit, et tantôt inventeur et animateur de cette créature d’esprit. Il aurait alors tout en vivant la faculté de nier son existence et de se dérober à la pression de son antagoniste qui, lui, demeurerait lui même, d’un bout à l’autre, et d’un seul bloc, vu toujours par le même côté** (I*, 56).
Non a caso, nella "pluralità dei percorsi espressivi che lo attraversano e lo segnano, centrale appare, in Artaud, la dimensione dell’attore". L’attore è la figura alla quale meglio si applicano la possibilità di manifestarsi attraverso una infinità di personaggi e la tendenza a un continuo rinnovamento di ruoli e di identità diverse.
Questo bisogno di passare attraverso differenti status (siano essi successivi o concomitanti) si intensifica sensibilmente durante il soggiorno a Rodez. Non accettando l’irreversibile ruolo (a)sociale attribuitogli, Artaud si moltiplica nelle sue costruzioni deliranti come per trovare finalmente l’immagine che gli corrisponda. In questa ricerca Artaud si identifica con diversi personaggi storici o mitici, molti dei quali cari alla tradizione cristiana.
Almeno in un primo periodo, concepisce il corpo come tunica di carne. Il corpo è una pelle incollata all’essere, un luogo di passaggio per l’anima che rimane immutata mentre passa di esistenza in esistenza, di tunica in tunica. È così che alcuni angeli si sono succeduti nel corpo di Artaud, "morto a Ville-Évrard nel 1939". Essendo persuaso di essere morto, il poeta può parlare di sé sia in prima che in terza persona.
Artaud riproduce sul suo entourage lo stesso processo di identificazione, con un’unica ma fondamentale differenza: mentre assimila l’amico Paulhan a Dionigi l’Areopagita o Delanglade sempre allo stesso pittore del XV. secolo – come se si trattasse di una statica reincarnazione – egli stesso non riesce a riconoscersi in un unico personaggio eretto definitivamente a ideale dell’io. I Cahiers(soprattutto i voll. XV, XVI, XVII) tradiscono un’effimera successione di identificazioni, in cui Artaud assume le identità più disparate, essendo attraversato da una infinità di doppi:
Les doubles sont des esprits qui ont pris des corps et des têtes en se prétendant être, eux, le simple de ces corps mais la bataille n’aura pas lieu sur l’être, mais dans le néant, car l’être auquel le double prétend avoir droit est faux (XVII, 171).
[I doppi sono degli spiriti che hanno preso dei corpi e delle teste pretendendo di essere, loro, il semplice di questi corpi ma la battaglia non avrà luogo sull’essere, ma nel nulla, perché l’essere al quale il doppio pretende di avere diritto è falso].
Improvvisamente, dal settembre del 1945 in poi, nel momento in cui inizia l’epoca della creazione di una parentela mitica (cfr. vol. XVIII), alla disarticolazione della prima persona si associa una scomposizione delle realtà mondane in generale: il processo di moltiplicazione delle identità si proietta soprattutto su coloro che vengono chiamate da Artaud le "filles du coeur". La scelta non è casuale. Se infatti mutuano i loro tratti essenziali da donne realmente esistite e care allo scrittore, le filles possono essere considerate anime plurali di Artaud stesso, inscatolate l’una nell’altra come a formare una mobile stratificazione della sua identità polimorfa in fieri.
L’être de ma fille est comme moi. […] Mais elle règle elle même l’état qui lui plaît pour me rejoindre quand cela lui plaît. Et mes cuiq filles sont comme moi (XVII, 31).
Ce mouvement de souffrir avec moi obstinément dans mon écorchement et de sacrifier un morceau de leur chair pour moi en le sachant (XXI)* .
La moltiplicazione degli esseri
J’arriverai à dégager 4 consiences propres au milieu de 500 milliards de salignauds./ On ne met pas toute la consience dans un seul être pour la faire venir mieux parce qu’elle est répartie entre 500 milliards d’êtres qui la retiennent et qui ne la rendront pas* .
Antonin Artaud
Se, come sottolinea Borgna, "non c’è esperienza dell’io che non sia esperienza del mondo",
se "non siamo cartesianamente monadi senza finestre", se non "c’è l’io da una parte, e il mondo delle cose e delle realtà umane, dall’altra; ma l’io si riflette nel mondo e il mondo si rispecchia nell’io in una circolarità senza fine", allora questa Zerspaltung si riflette necessariamente nella concezione del mondo di Artaud.
Un fenomeno paragonabile a quello di de-referenzializzazione delle istanze pronominali è infatti quello della pullulazione degli esseri: una rapida, esponenziale moltiplicazione che non colpisce soltanto alcune figure privilegiate ma può riguardare tutte le persone con cui Artaud ha avuto a che fare. Il processo di polverizzazione dei pronomi non corrode soltanto la prima persona ma tutte le istanze pronominali. Come se si trattasse di un fenomeno di ipermnesia, sia persone realmente esistenti che personaggi immaginari possono trasformarsi, senza seguire una precisa gerarchia affettiva, in fastidiosi parassiti venuti a offuscare la coscienza dello scrittore: da Dio a Satana, da Hitler a Churchill, dalla Vergine a Cécile Schramme. Personaggi che si sdoppiano, si moltiplicano in identità successive, si confondono, si fondono l’uno nell’altro. "Neneki", per esempio, non è altro che l’amagama di "Nanaqui" (soprannome di Antonin Artaud) e di "Neneka" (soprannome della nonna materna). Bergson rinvia questa "fausse reconnaissance" a un fenomeno di dissociazione della percezione e del ricordo, dissociazione dovuta a un deficit del meccanismo di attenzione alla vita (cfr. H. Bergson, Materia e Memoria) e alla rottura della sintonia e della simpatia come contatto vitale con la realtà (E. Minkowski).
Artaud procede in un confuso amalgama di significanti che sembra abbracciare prevalentemente le figure femminili legate al suo passato pre-asilare: "Cécile Denoël est morte et Marguerite Sichon l’a remplacée en reprenant un dernier corps coeur à Philomène Marie ici dedans" (XX, 21) [Cécile Denoël è morta e Marguerite Sichon l’ha sostituita riprendendo un ultimo corpo cuore a Philomène Marie qui dentro]. Una delle poche eccezioni è rappresentata da Adrienne Régis alias Adrienne André, sorvegliante generale dell’ospedale psichiatrico dipartimentale di Rodez. "Adrienne Régis est hors Rodez aujourd’hui et celle s’appelle Catherine Chilé" (ibidem) [Adrienne Régis è fuori Rodez oggi e costei si chiama Catherine Chilé].
Dalla lettura dei Cahiers viene alla luce ciò che si potrebbe chiamare una "disfunzione onomastica". Artaud sembra riprodurre in questi testi il semplice processo combinatorio che lega un nome a un cognome per fare riferimento a un’unica persona. Ma le combinazioni ottenute non sono né ben definite né tantomeno definitive: propongono incessantemente fantasiose variazioni e alterazioni che non sono riconducibili ad alcun referente identificabile. Siamo di fronte a un vero e proprio lavorio schizofasico sull’onomastica tradizionale.
"Cécile, Catherine, Anie, Sonia,
Vonia (Juliette), Juliette Yvonne,
Mme Dequer, l’Afghane (N N K A) Clavius.
Clavius N N K A l’Afghane" (XX, 21)
Nel manoscritto un tratto arrotondato unisce i nomi Juliette e Yvonne. Ciò potrebbe indicare – come suggerisce in nota la Thévenin – la fusione di due persone diverse per costituire un’unica persona, modo di esprimere un legame identitario assai frequente neiCahiers.
Nomi e cognomi sono permutabili e la moltiplicazione infinita di questo amalgama fa perdere loro qualsiasi qualità di nome proprio rapportabile a un unico referente definito.
Les corps ne se transportent pas,
les corps tranportés par le mal reviendront à leur point de départ,
le bon de Madame Régis reviendra à son point de départ
Catherine Régis
Cécile Régis
Anie Régis
Sonia Régis
Laurence Régis
L’Afghane Régis
Yvonne Régis* (XVIII, 60)
Mentre dunque i "corpi non si trasportano", nomi e cognomi sono scambiabili a piacere, apparentemente in funzione di nessuna logica. Ma in alcuni casi sembra che Artaud cerchi di ricostruirsi, attraverso questa alterazione del processo sintattico, un’origine mitica. La questione dell’origine e della filiazione sono fra i temi centrali dei Cahiers, in cui Artaud si crea il ruolo di padre-creatore delle sue "filles d’élection", delle sue "filles à naître" figure femminili, frammentate, smembrate, come disossate. I loro frammenti sono rimessi in circolazione attraverso una sorta di coito cosmico che integra gli organi dell’una in quelli di un’altra e per il quale Artaud diventa il suo stesso creatore, in quanto partorisce le sue stesse nonne – portando a termine ciò che Deleuze e Guattari presentano come "inceste royal".
Questa idea dell’ "incesto reale" può essere a sua volta ricondotta alla frammentazione, alla moltiplicazione degli esseri, figlia della scissione dell’io: "Nella surcodificazione attraverso l’incesto si tratta infatti di questo: tutti gli organi di tutti i soggetti, tutti gli occhi e tutte le bocche, tutti i peni, tutte le vagine, tutte le orecchie, tutti gli ani, devono attaccarsi al corpo pieno despota come alla coda di pavone di uno strascico regale, e avervi i loro rappresentanti intensivi. L’incesto regale non è separabile dall’intensa moltiplicazione degli organi e dalla loro iscrizione sul nuovo corpo pieno".
Il riflessivo impossibile
Le je souffre, monsieur* .
Antonin Artaud
Leitmotiv di tutta l’opera di Artaud è la denuncia di una forza occulta e ladra che si instaura nell’uomo al posto del suo essere. L’espropriazione dell’io è tanto più efficace quando avviene sotto la copertura del principio di identità. Come suggerisce Derrida, le metafore del souffleur e della parole soufflée testimoniano di questa ossessione del furto e della perdita (cfr. J. Derrida, La parole soufflée). Scrivendo, Artaud non fa altro che approfondire la ricerca del suo moi rubato. Egli considera il teatro dell’io come il luogo di un furto: il soggetto viene come espropriato del suo essere da quel Dio (le Père-Mère) che pretende di avere concepito e dunque pensato questo stesso essere, nascondendosi così dietro "l’imposture paternelle".
Canaille de canaille de Dieu, innombrable fuyard du ciel, intronisé exécrable de l’être, c’est l’être qui t’a fait Dieu et non toi, avant lui tu ne l’étais pas, et qui t’a permis de me mettre ou je suis, qui t’a permis de disposer de mon être à moi qui n’en suis pas un et qui me sens mangé par l’être de mon propre néant que seul l’idée de non-être me permet chaque fois de fuir.[…] jusque à quand me faudra-t-il me réfugier dans le non-être pour avoir droit d’être ce que je suis** (XV, 26).
Contro questa presa di possesso di sé da parte dell’Altro, Artaud si sforza di "reprendre son bien", di recuperare il suo essere rapito alla nascita. Il pensiero – e con esso la scrittura – è una sorta di sdoppiamento che riproduce in lui il coito del Père-Mère sotto forma di eco, di dialogo interiore, di coscienza riflessiva che lo separi da se stesso:
…je n’ai pas de double ni d’écho qui me suive, je n’ai pas d’esprit où je me juge devant moi, je me juge en moi-même […]./ Et je n’ai jamais eu de moi qui ait pu se retourner contre moi parce que mon moi est inséparable de moi mon corps (XVIII, 141).
[…non ho né doppio né eco che mi segua, non ho pensiero con cui mi giudico davanti a me stesso […]./ E non ho mai avuto un io che abbia potuto rivoltarsi contro di me perché il mio io è inseparabile da me il mio corpo].
Nella sua lettura dell’opera di Artaud, la Grossman conclude che la schizofrenia sia questa eredità doppia, questo "je suis moi" che perpetua in noi il coito parentale. Il doppio, a Rodez non sarebbe più il doppio teatrale, ma un doppio persecutore del pensiero, scissione interna al soggetto. Una sorta di contrazione, di stasi del doppio teatrale che si sarebbe preso per un vero essere, coagulato in soggetto del pensiero (cfr. E. Grossman, Artaud/Joyce: le corps et le texte). È proprio questo sdoppiamento sotto forma di dialogo interiore, in cui il pensiero parla a se stesso, che Artaud rifiuta nei Cahiers:
Mon esprit ne me parle pas.
Je n’ai pas de mental réfléchissant.
Je ne suis pas un grand concile avec les consiences, je suis seul.
Je n’ai pas de moi.
Je ne regarde pas mes pensés au plafond.
Je n’interroge pas ma consience.
[…]
Pas de mental, pas de réflecteur * (XVIII, 286-287)
Questa lotta contro la riflessività del pensiero si estende lungo tutti i testi di Rodez, manifestandosi apertamente nella scomposizione di tutte quelle strutture grammaticali in cui si esprime il pronome personale riflessivo. La funzione riflessiva instaura una presa di distanza da sé.
"È questo carattere riflessivo dello stesso, questo prendere le distanze da sé in cui vede una frattura, che Artaud respinge. Egli sottolinea la dissociazione all’opera nel gioco dei pronomi: il "me stesso", dice, è il "doppio simmetrico che cerca sempre di prendere il mio posto quando, pensando, mi divido, credendo di riflettermi". Artaud rifiuta con tutte le sue forze questo insostenibile gioco di specchi, "l’infâme qu’il y a à se ramener soi-même sur soi même sans fin jusqu’à fair sortir un verbe de cadavre" (IX, 123) [l’infame che c’è nel ridursi da soli senza fine fino a fare uscire un verbo da cadavere].
Il discorso e il pensiero riflessivo sembrano essere insostenibili per Artaud, proprio perché non possiede un io abbastanza solido da potersi riflettere senza frantumarsi o, nel migliore dei casi, rispecchiarsi in un cattivo infinito. Non possedendosi, l’io di Artaud non può permettersi il lusso di un pensiero riflessivo. A Rodez, per Artaud, sarebbe impensabile scrivere: "Ho per guarirmi dal giudizio degli altri, tutta la distanza che mi separa da me" (IV, 25). Ma la scrittura può raggirare il problema, può scagliarsi proprio contro l’idea di un soggetto ben definito – quel soggetto che riesce a dirsi "io sono me stesso" – e cercare nuove possibilità :
… mon extrême consience non de moi mais de Je, […] Je n’a pas de moi et ce n’est pas moi, c’est non./ Et quant au révolté éternel contre Je ça non, Je le creusera dans le ça par le non. […] Je donnerai le Je par moi/ à un autre que Antonin Artaud(XVI, 169).
[La mia estrema coscienza non di me ma di io, […] Io non ha un me e non è me, è no./ E quanto a colui che si rivolta eternamente contro Io, questo no, lo scaverà nel questo attraverso il no. […] io donerò l’Io attraverso di me/ a un altro che non sia Antonin Artaud].
Due note al testo specificano che, almeno in questo caso, l’uso della terza persona in riferimento al Je (Je n’a, Je le creusera) è sicuramente deliberato: il manoscritto dimostra che Artaud stesso sostituisce la terza persona alla prima. Non si tratta di errori di distrazione ma di una strategia per ovviare all’impossibilità di esprimersi in modo riflessivo, per ridurre la sofferenza di quell’io che non può riflettersi.
Dieu est autre chose, il est ce qui veut être soi, quant à Je, il souffre la lutte entre le soi et tout, sa souffrance est une expulsion et l’homme repousse Je, achève de le reduire (ibidem).
[Dio è altra cosa, lui è ciò che vuole essere sé, quanto a Io, soffre la lotta fra il sé e il tutto, la sua sofferenza è una espulsione e l’uomo respinge Io, compie la sua riduzione].
Spazio e tempo
Il faut mourir à tous le mondes du temps et de l’espace pour être. Puis-je mourir sans dabord me débarasser de l’espace et du temps* .
Antonin Artaud
Se spazio e tempo sono davvero forme a priori dell’intuizione sensibile (cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft), l’analisi che voglia cogliere la costituzione originale della forma di esistenza schizofrenica non può trascurare queste due categorie fenomenologiche.
In ogni esperienza psicotica tempo vissuto (soggettivo, o obiettivo nel senso scolastico di obiectum mentis) e tempo "matematico" (oggettivo), tempo dell’io e tempo del mondo subiscono una profonda trasformazione nelle loro reciproche connessioni: l’arrestarsi del tempo (depressione), la sua polverizzazione (mania) e i suoi sbalzi vertiginosi (schizofrenia) sono elementi fenomenologici che devono essere considerati nelle loro particolari dimensioni costitutive.
Anche per Artaud le modificazioni del tempo costituiscono una modalità immediata ed eideticamente incontestabile del suo modo-di-essere. Anche nella sua schizofrenia il tempo "si lacera e si frantuma nella perdita contestuale (anche se asimmetrica) del futuro e del passato, nella loro elisione parcellare, e nella sopravvivenza di un presente (dell’agostiniano presente del presente) isolato e martirizzato". Icasticamente, l’autore dei Cahiers dà voce a questo suo "état sans présent ni passé, insitué, non cadré, inquadrable, hors de l’inquadrable" (XVII, 47) [stato senza presente né passato, non situato, non inquadrato, non inquadrabile, fuori dall’inquadrabile].
L’assoluta certezza di Artaud di essere morto nel 1939 a Ville-Évrard può essere letta come sintomo dello smarrimento delle dimensioni essenziali della temporalità: "Quando la morte (il pensiero della morte) ha sostituito la vita (quando la vita diviene la morte), si vive nella desertitudine della speranza e della fiducia: che devono nondimeno essere recuperate e salvate. […] La morte come rifiuto dell’avvenire, come avvenire già consumato e sgretolato, non è insomma se non la metafora (l’immagine) della modificazione del tempo: della sua dissoluzione".
Les chiffres, le temps, les âges ne sont que des symboles instables qu’il suffit d’une orientation pour désorienter à néant (XVI, 28).
[Le cifre, il tempo, le età non sono altro che dei simboli instabili. Basta un’orientazione per disorientarli al nulla].
A Rodez Artaud sconvolge qualsiasi logica diacronica per far coincidere in una sorta di no man’s land atemporale luoghi e tempi pre-asilari con l’attualità spazio-temporale della scrittura, come se una serie di visioni cercassero di coesistere in diverse stratificazioni mentali, colpite da un implacabile terremoto:
C’est chez vous, mon cher Robert Desnos, que j’ai connu le Dr Ferdière de Rodez en 1935 et je me souviens aussi que l’occulte est entervenu dans notre rencontre et que moi étant ici avant-hier 27 janvier 1943, vous vous êtes tous vu autour de moi, de la Rue Mazarine en 1935, ici, à Chezal-Benoît, le 27 janvier 1943* (27/I/1943-X, 12).
Non è dunque soltanto la modificata esperienza del tempo (vissuto) a contraddistinguere la forma di esistenza schizofrenica ma anche l’alterazione dell’esperienza dello spazio (vissuto), del Raumerleben. Lo spazio matematico-geometrico (oggettivo) non è lo spazio vissuto (soggettivo-obiettivo). Nei Cahiers spazio interno ed esterno sono omogenei senza però doversi per ciò mescolare come per osmosi, senza essere permeabili l’uno all’altro. Artaud sente di possedere un corpo gassoso:
Je suis peut-être un état gazeuz, mais les gaz ne se mélangent pas à moi. […] Je suis un corps ferreux, mais je ne suis jamais tenu par un corps – ici où là dans un espace clos. Je vais partout en même temps, non par distention dans tuot les espaces, mais parce que l’espace est une idée que je vois toujours devant moi comme une seule crottin** (XVII, 31).
Lo stesso Artaud sa però che questa cognizione dello spazio è in netta contraddizione con la condizione corporea umana:
Homme, MON CENTRE est d’avoir une personnalité et un être, un être est d’avoir besoin d’exister en dimension et volume et non esprit ou consience (in corsivo nel testo/XVII, 144)
[Uomo, IL MIO CENTRO è avere una personalità e un essere, un essere è avere bisogno di esistere in dimensioni e volume e non pensieo o coscienza].
L’essere di Artaud, che "ne supporte pas l’espace ni le temps" (XVII, 31) non può dunque che essere divino:
Le fait que je n’ademets pas l’espace et le temps veut-il dire que comme l’esprit de cette canaille de christ, j’en suis réduit à rester dans le même espace et le même temps de l’éternité où tuot se mélange et où tout le monde discute avec moi (XVII, 32).
[Il fatto che io non ammetta lo spazio e il tempo vuol dire che come lo spirito di quella canaglia di cristo, sono ridotto a restare nello stesso spazio e nello stesso tempo dell’eternità in cui tutto si mescola e in cui tutti discutono con me].
In questo stadio del delirio la "dimensione compatta delle cose è negata. La realtà si accartoccia, si frantuma o si dilata, sfugge a una presa univoca. Si creano sbandamenti, scarti continui fra l’io e l’oggetto. […] Nel delirio, nella scomposizione dell’ordine spazio-temporale, sono i frammenti dell’io a esplodere. I soprassalti mentali operano la disseminazione dei punti di vista che corrispondono alle spinte centrifughe del soggetto". Sconvolte le coordinate spazio-temporali, l’io non può più poggiare su un terreno solido (Grund), ma sprofonda necessariamente in un abisso-senza-fondo (Abgrund), in uno spazio buio, spaventoso e senza limiti, venendo così inesorabilmente inghiottito da una devastante centrifugazione finale.
L’elettrochoc
A Rodez je vivais dans la terreur de cet phrase: "M. Artaud ne mange pas aujourd’hui, il passe au choc". Je sais qu’il y a des tortures plus abominables. Je pense à Van Gogh, à Nérval, à tous les autres. Ce qui est atroce, c’est qu’au XXe siècle un médecin puisse s’emparer d’un homme sous prétexte qu’il est fou et faire de lui ce qui lui plaît*
Antonin Artaud
Nonostante gran parte della critica abbia negato con veemenza la follia di Artaud, non è riuscita a cancellarne le tracce: i Cahiersrimangono testimoni incorruttibili della sintomatologia psicotica del loro autore – da molti comunque assolto dall’accusa di schizofrenia. Come togliere allora ogni valore a questa scomoda testimonianza?
La de Mèredieu (cfr. F. de Mèredieu, Sur l’élecrtochoc. Le cas Antonin Artaud) ha proposto una tanto originale quanto sbrigativa soluzione: se non è più possibile negare la follia in sé, si possono almeno attribuirne le evidenti strutture psicotiche all’elettrochoc subìto da Artaud a Rodez, portando così i principali sintomi della schizofrenia da "causa" a effetto della terapia elettroconvulsionale (ECT).
La de Mèredieu nega dunque la follia ma non la regressione espressa nei Cahiers: "Perché è proprio di una regressione che si tratta. Assoluta. Fondamentale. Corrispondente alla fase di dissoluzione delle istanze psichiche dovute all’elettrochoc…" (il corsivo è mio).
Nonostante neghi di volere fornire esplicazioni di tipo meccanicistico, assicurando il lettore di volere soltanto insistere sul dinamismo degli affetti profondamente sconvolti dal trattamento, in capitoli come Les troubles de la memoire et l’univers flottant des souvenirs, Dédoublement, iilusion des sosies et troubles du schéma corporel, La grande régression aphasique,…. la studiosa cerca di dimostrare come la dissoluzione delle istanze psichiche sia dovuta esclusivamente all’ECT, introdotto invece come cura contro l’insieme delle forze disgregatrici della personalità.
Non intendo assolutamente, come sta avvenendo negli ultimi anni, "tenere l’orrore fuori dagli choc", negando che l’ECT danneggi il funzionamento del cervello – non a caso in questo lavoro l’elettrochoc si muove all’interno degli orizzonti della scissione – ma non posso nemmeno accettare l’ipotesi della de Mèredieu: essa non tiene infatti conto di tutti i testi precedenti ai Cahiers in cui è chiaramente riscontrabile una sintomatologia psicotica.
Ci si è spesso chiesti cosa abbia potuto spingere i medici di Rodez a sottoporre Artaud all’ellettrochoc e soprattutto perché siano rimasti sordi di fronte alle sue proteste. Certamente Ferdière non considerava questa nuova terapia come una punizione, ma troviamo tracce nelle lettere di Artaud ai medici che lo hanno in cura in cui è evidente la dimensione punitiva e malefica che il paziente attribuisce a questo trattamento.
Il n’aurait pas fallu me faire de l’électro-choc, parce que […] le Mal impose sa biologie particulière à l’organisme humain, mais surtout parce que vous m’avez démagnétisé donc mis en état de moindre résistence devant les assauts des forces pernicieuses qui nous guettent tous et qui sont cause de toutes nos maladies tant mentales que physiques en attaquant d’abord notre cerveau et notre système sympathique et nerveux* (NER, p.42).
Ce traitement d’électro-choc m’a fait terriblement souffrir, et je vous prie de m’éviter une nouvelle douleur* (NER, 73).
Non solo il discorso della sofferenza di Artaud non fu ascoltato, ma i medici hanno sempre cercato di minimizzare sia l’importanza del trattamento al quale Artaud fu sottoposto sia il valore delle sue descrizioni-accuse dell’impatto fisico e "psicologico" che l’ECT ebbe su di lui: "È una descrizione di ciò che aveva visto davanti ad altri malati, perché si ebbe l’imprudenza di farne davanti a lui, che ebbe l’occasione di vederne, ma per quanto riguarda lui stesso non poteva saperne nulla. […] Noi siamo sicuri che non c’è nessun malessere durante l’elettrochoc. Lo affermiamo e lo dimostreremo".
Questa dimensione indolore dell’ECT è stata sufficientemente contestata. Sappiamo che un encefalogramma può registrare nettamente quella che si potrebbe chiamare la "sofferenza celebrale" causata dal trattamento.
Lo stesso Ferdière aveva espresso qualche riserva a proposito dell’efficacia dell’ECT applicato ad Artaud: "E dopo tutto, in una tale psicosi, l’elettrochoc non avrebbe potuto fare gran ché". Invece, a mio avviso, qualcosa fece.
Nel 1944 Artaud scrive alla madre:
c’est ce traitement qui ma fait perdre la pensé du 15 mai au 20 juin et m’a rendu incapable de t’écrire pendant un mois car je ne savais plus où j’étais ni qui j’étais et c’est une souffrance qui aurait pu m’être évitée (X, 247).
[questo trattamento mi ha fatto perdere il pensieo dal 15 maggio al 20 giugno e mi ha reso incapace di scrivere per un mese perché non sapevo più dove fossi né chi fossi ed è una sofferenza che sarebbe potuta essermi evitata].
e nel 1945 Artaud si lamenta:
A la dernière série, je suis resté pendant tout le mois d’août et de septembre dans l’impossibilité absolue de travailler, de penser et de me sentir être (XI, 13).
[All’ultima serie, sono rimasto durante tutto il mese di agosto e di settembre nell’impossibilità assoluta di lavorare, di pensare e di sentirmi essere].
Effettivamente, se confrontiamo le date delle 51 sedute di choc subite dallo scrittore e le date delle lettere inviate da Rodez, il silenzio che segue immediatamente ogni seduta è sufficientemente eloquente per dare ragione al paziente.
Artaud ha però bisogno di qualcosa che faccia resistenza a questo dolore, alle conseguenze devastanti dell’elettrochoc. Ha bisogno di qualcosa che tenga, se non costante, almeno viva la sua minacciata tensione mentale. Artaud ha, ora più che mai, bisogno di scrivere. Ciò corrisponde d’altronde a una tendenza dolorosamente e incessantemente presente in tutta la vita/opera di Artaud, una forza che si è mantenuta viva dai tempi della Correspondance: l’energia vitale – perché a Rodez di vita o di morte si tratta – della scrittura.
A Rodez per Artaud la vita, baudelaireanamente, s’écrit.
2.Ricostruirò l'uomo che sono: il lavoro dell'io
In cammino verso l’io
Mi sono moltiplicato per sentirmi,
per sentirmi ho dovuto sentir tutto,
sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi,
mi sono spogliato, mi sono dato,
e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente.
Fernando Pessoa
Paradossalmente, è proprio la lacerazione dell’io (come sintomo psicotico aggravato dall’ECT) a innestare in Artaud l’esigenza di riaggregazione, di una nuova dimensione dell’essere. "Perché l’uomo si riconcili occorre che si separi". Per "ritrovare l’unità perduta dell’io egli attraversa il delirio in tutte le sue latitudini". L’elaborazione degli elementi deliranti, il continuo prenderne atto, è, per Artaud, l’unico presupposto per non perdersi completamente in essi. Potremmo dire, con Pierre Bruno: "Delirio è dunque da intendersi non come ciò che si oppone alla realtà, ma come ciò che la fonda, nel momento in cui è sottoposto al lavoro dei Cahiers.". La palingenesi dell’io e della scrittura che scandisce i Cahiers nasce infatti proprio dall’esperienza dell’essere-frantumati e della perdita dell’identità, come se il ritorno a sé affiorasse come eco necessaria della dissociazione, dell’an-archia.
Se dunque Artaud rinasce dalle ceneri del suo stesso io, l’itinerario di Rodez non può che superare la concezione unitaria e monolitica dell’io, per volgersi verso una realtà plurale e stratificata. La ricostruzione dell’identità non si riduce a un’identificazione narcisistica ma sfocia in una polisemia identitaria del soggetto della scrittura, come se la multidimensionalità della frammentazione rimanesse dialetticamente aufgehoben nell’io ricostruito.
Come per il sognatore dei quattro sogni di Roma (cfr. S. Freud, Traumdeutung), per Artaud la "dimensione labirintica del Sé si risolve nel raggiungimento dell’unità, cioè nel processo costruttivo dell’identità personale", con un’unica ma fondamentale differenza: il poeta non "arriverà a recidere la trama delle connessioni e a trascendere il flusso labirintico su cui questa stessa trama si era sviluppata".
La spirale conica che potrebbe simboleggiare lo sviluppo del lavoro dell’io artaudiano a Rodez non si chiude. Non possedendo un vertice, rimane esposta a nuove deformazioni da parte della forza centrifuga e disgregatrice che continuerà a minacciare Artaud fino alla morte:
Jésus Christ, dieu, le saint-esprit et Lucifer ne furent qu’une des attitudes prises dans ma recherche de mon moi et qui voulurent rester êtres, elles le resteront dans l’enfer pour toujours (XX, 20).
[Gesù Cristo, dio, lo spirito santo e Lucifero non furono che una delle attitudini prese nella mia ricerca del mio io e che vollero retare esseri, lo resterano all’inferno per sempre].
L’identità dell’io enunciante rimane minata dalla frammentazione schizofrenica. Ciò sembrerebbe escludere una qualsiasi posizione dell’autore. Ma i Cahiers si costruiscono proprio come soluzione di questo paradosso, come officina surriscaldata dell’identità e della scrittura, entrambe attraversate da una irriducibile polisemia, da un’inesauribile inflessione dei generi e del numero. Artaud si muove incessantemente fra la tradizionale posizione dell’autore e quella che si potrebbe chiamare op-posizione del soggetto enunciante: una posizione sfuggente, mai unitaria, che sfrutta appieno la dialettica tra alterità interna e l’altro che è il testo.
Ciò che caratterizza i Cahiers è una costante titanomachia fra forze contrastanti: ed è proprio da questa continua tensione fra poli antitetici che scaturisce il lavoro poetico e poietico di Artaud. Il nodo, dunque, da cui tutto si irraggia e a cui tutto converge è la ricerca dell’identità. In questa incessante quête la scrittura funge da ancella alla vita; è un mezzo per trovarsi, costruirsi, cementare delle scelte: per vivere.
Se sono poeta o attore non è per scrivere o declamare poesie ma per viverle (IX, 170).
Già a Rodez Artaud riesce dunque a leggere la sua follia, a raccogliere i frammenti sparsi del suo io.
Proprio l’esperienza della perdita e della disgregazione, dell’internamento e della follia "sottopongono la lingua di Artaud a una violenta miscelazione e intensificazione della sostanza materica, pulsionale che ne esalta le spinte trasgressive […]; e una lettura adeguata dovrà percorrere il testo nelle sue crepe, sussulti e riassestamenti, suture a caldo che ne fanno un organismo febbrile, un corpo ferito".
Chi cerchi di seguire l’itinerario di Artaud sarà dunque vincolato al suo andamento tutt’altro che lineare – anche se a suo modo progressivo: la lettura, l’ascolto, dei Cahiers richiede infatti continui aggiustamenti, l’incrocio di più punti di vista, un continuo mettersi in discussione. Leggere Artaud significa trasformarsi in uno spettatore a sua volta multiplo, significa smettere di volersi a tutti i costi riconoscere in un assetto identitario compatto; significa smettere di cercare la rassicurante omogeneità di un testo e di un io unitario. Se la posizione dell’autore vacilla, possono crollare anche tutti i riferimenti identificatori del lettore.
Il lettore che voglia veramente accompagnare Artaud nel suo cammino verso l’io deve come annullarsi in quanto lettore. Sollers parla di una inevitabile "perdita della coscienza di sé". Il lettore deve dunque dimenticarsi di essere tale, disimparare a leggere, perché, in fondo, è per gli analfabeti che scrive Artaud.
Ripresa
Il me faudrait qu’un seul mot parfois, un simple petit mot sans importance, pour être grand, pour parler sur le ton des prophètes, un mot-témoin, un mot précis, un mot subtil, un mot bien marquée dans mes moelles, sorti de moi, qui se tiendrait à l’extrême bout de mon être* .
Antonin Artaud
Se la doppia scansione perdita dell’io-ricostruzione è riconoscibile all’interno dell’orizzonte della scrittura, il fatto stesso che Artaudscriva può essere già considerato come frutto del lavoro dell’io. Attraverso la scrittura Artaud torna a se stesso – almeno in quanto scrittore.
Al suo arrivo all’ospedale psichiatrico di Ville-Évrard, nel febbraio del 1939, deve riempire un modulo, inidicando, fra l’altro, la sua professione. Artaud non ha dubbi: "Écrivain. Auteur dramatique", nonostante la cartella clinica rilasciata a Sainte-Anne dal professor Claude parli di "prétentions littéraires parfois raisonnables" (il dottor Nodet aggiungerà: "parfois justifiées").
A Rodez Artaud torna a se stesso attraverso la parola. La parola è un’unità complessa, un con-plexus, che può presentarsi sia come immagine acustica, sia come immagine visiva, sia come immagine grafica e/o articolabile. La parola a cui torna Artaud abbraccia tutti questi significati. Ciò implica che i disturbi della funzione del linguaggio (o afasie) caratteristici della schizofrenia possano incidere su ognuna delle dimensioni della parola artaudiana. Il trattamento terapeutico della parola a Rodez dovrà dunque essere una ricostruzione a 360°. Siamo di fronte a ciò che Simon Harel indica come écriture de la psychose (cfr. S. Harel, Vies et morts d’Antonin Artaud. Le séjour à Rodez): formula che, in quanto (apparentemente) autocontraddittoria e passibile di autoelisione, riproduce emblematicamente il paradosso a cui va incontro la parola a Rodez. Artaud lotta contro la parola, all’interno della parola, con l’unica arma che possiede: la parola. Se il linguaggio schizofrenico de-lira (delirare=uscire dal solco), è proprio dalla liquefazione della lingua che si cristallizzano quelle soluzioni che permetteranno ad Artaud stesso di dire:
Or la grande question est que c’est là, justement LÀ que moi, Antonin Artaud, j’ai la maîtrise. La maîtrise (XXIV, 120).
[Ora la grande questione è che è qui, giustamente qui che io, Antonin Artaud, ho la maestria, la maestria].
Cristallizzazione efficace ma non certo immediata. L’io di Artaud, per raccogliersi e per scrivere, ha inizialmente bisogno di un confronto con l’Altro. Come nota Carlo Pasi nel suo commento alla traduzione dell’Alice di Lewis Carrol (cfr. C. Pasi, Antonin Artaud: impresa anti-grammaticale su Lewis Carrol e contro di lui), l’itinerario di Rodez si sviluppa dal chiuso all’aperto passando proprio attraverso il rapporto con l’ Altro (immaginario): l’interlocutore della corrispondenza e l’autore del testo da tradurre. La traduzione è un modo per scrivere senza doversi esporre troppo, senza dovere rischiare troppo il proprio io già sufficientemente provato dalla lacerazione: È un modo per non farsi inghiottire dalla propria coscienza e dal proprio testo:
Donner sans se prendre soi-même à l’idée de don et ne pas la ramener sur soi-même comme chaque fois un nouvel enfant. Car alors l’enfant du soi qui entre en vous avant d’être fait vous mange […]/ et lui se rendent compte qu’il allait avaler son soi-même et devenir comme son autovampire s’est séparé en foudres de se moi avaleur* (XI, 86).
Che l’io sia in effetti un altro è, per Artaud, molto meno compromettente e pericoloso. Leggendo e ri-scrivendo Carroll, può appoggiarsi all’Altro per attraversare indenne l’invers du miroir della scrittura. La parola propria si costituisce attraversando la parola dell’altro. Quel non-io che è l’io dell’altro pone così, inizialmente, l’io di Artaud. Le Variations à propos d’un thème, d’après Lewis Carroll (il titolo originale sarebbe, in realtà, Thème et variations) sono, più che una traduzione, un tentativo di forgiarsi un io attraversol’elaborazione di un testo altrui: "lire l’oeuvre d’un poète c’est avant tout lire au travers" (IX, 130) [leggere l’opera di un poeta è innanzitutto leggere attraverso]. Questa lettura-traduzione (traducere: condurre oltre, fare passare attraverso) è una strategia di deviazione efficace per arrivare a "se refaire", passando attraverso le lingue e varcando le frontiere dell’identità. Il motivo della traversata dello specchio rimanda a quello mistico dello Specchio delle anime semplici, specchio eterno nel quale possiamo cogliere, al di là del nostro stesso io, la nostra purezza di spirito:
mais toujours l’idée du moi pervers nous revien comme une affreuse régurgitation, et quand trouverons-nous enfin ce non-moi où nous [nous] voyons tels que nous-mêmes, enfin, et purs, c’est-à-dire Vierges, au fond du miroir éternel* (IX, 130).
Trascrivendo Carroll, Artaud non compie dunque semplicemente "un plagiat édulcoré et sans accent", ma si dedica già a "son propre oeuvre":
D’ailleurs ce petit poème, on pourra le comparer avec celui de Lewis Carroll dans le texte anglais, et on se rendra compte qu’il m’appartient en propre et n’est pas du tout la version française d’un texte anglais (XI, 174).
[D’altronde questa piccola poesia, la si potrà confrontare con quella di Lewis Carroll nel testo inglese, e ci si renderà conto che mi appartiene e che non è assolutamente la versione francese di un testo inglese].
Il linguaggio di Carroll viene dallo spirito (nel senso libertino del termine), dalla superficie; il linguaggio di Artaud è parola che si fa corpo, denso, profondo.
È Deleuze a sottolineare che la trascrizione artaudiana del testo dello scrittore anglosassone potrebbe sembrare, a prima vista, una semplice traduzione. "Ma fin dall’ultima parola del secondo verso, fin dal terzo verso, si produce uno slittamento, e persino uno sprofondamento centrale e creativo, che fa sì che ci troviamo in un altro mondo e in tutt’altro linguaggio. Con spavento, lo riconosciamo senza fatica: è il linguaggio della schizofrenia.
Il linguaggio della follia come linguaggio obliquo, trasversale, deviato, come deviazione necessaria per raggiungersi. A Rodez si realizza la profezia de La vitre d’amour (1925):
Tu l’obtiendras Tranversalment.
Transversalment, mais à qua? Répliquai-je. Car pour l’instant c’est elle qui me traverse.
Mais puisqu’on te dit que l’amour est oblique, que la vie est oblique, que la pensée est oblique, et que tout est oblique (I*, 153).
[L’otterrai trasversalmente./ Trasversalmente, ma a cosa? Replicai. Perché al momento è lei che mi attraversa./ Ma poiché ti si dice che l’amore è obliquo, che la vita è obliqua, che il pensiero è obliquo, e che tutto è obliquo].
La signature
Il 28 luglio 1937, circa 15 giorni prima della partenza di Artaud per l’Irlanda, le Éditions Denoël pubblicano Les Nouvelles révélations de l’être, testo firmato: Le Révélé. Questa firma, che designa meno il Rivelatore che colui che attraverso il testo si autogenera, si identifica, si rivela, annuncia il processo di ricostruzione che verrà messo in opera dai Cahiers. Nel lavoro che lo scrittore opera sulla firma, sulla signature, convergono simbolicamente il lavoro sull’identità e il lavoro sulla scrittura che percorrono le pagine di Rodez. Lavoro inteso come travail, travaglio, come parto doloroso.
Artaud è da sempre alla ricerca di un nome che gli sia proprio. Già nel 1937 scriveva:
Au fait, il faudrait enfin songer à baptiser cet enfant illégitime que je dois être puisque je n’ai pas encore de nom à moi (VII, 197).
[A proposito, bisognerebbe pensare a battezzare questo figlio illegittimo che devo essere dal momento che non ho ancora un nome che sia il mio].
Nello stesso anno decide di non firmare D’un voyage au pays des Tarahumaras, di far "sparire" il suo nome ("Mon nom doit disparaître"- VII, 223) – d’altronde presto non ne avrà più bisogno:
Dans peu de temps, je serai mort où alors dans une situation telle que de toute façon je n’aurai pas besoin de nom. Je compte donc sur vous pour les 3 Étoiles.
[Fra poco, sarò morto o allora in una situazione tale che in ogni caso non avrò bisogno di nomi. Conto dunque su di voi per le 3 Stelle].
La firma, come il pittogramma, riducendosi a puro segno (***, come per la Correspondance), non è più legata a una fonazione particolare: il significante si stacca dal significato. Le ultime due lettere prima dell’internamento (17 e 21/IX/37) non sono firmate. Cancellando il suo nome, Artaud si cancella come soggetto della scrittura. Nel decreto di internamento (1937) possiamo però leggere: "Qualche volta domanda senza posa che lo si identifichi".
È nel corpo della lingua che Artaud cerca le tracce del suo nome. Nelle Nouvelles Révélations segni grafici, tipografici e astrologici si sostituiscono al nome. Il testo si riduce a emanazione dei Tarots, anagramma acustico di "Artaud". Il nome si disgrega attraverso le lettere che lo compongono: nome articolato, disarticolato, rifiutato, rifatto, riscritto, in una incessante litania, in una variazione ossessiva. Antonin Artaud, Saint Artaud, Saint Arto, "saint Tarot, comme on dirait tarte à la crème, tartine où petit tartinet"….Prendono così corpo la soluzione anagrammatica della nominazione, il lavoro sulla patronimia, sulla pseudonomia e sulla sinonimia che saranno caratteristici dei Cahiers.
Dal dicembre 1941 fino al luglio 1943 le lettere di Rodez portano la firma di Antonin Nalpas (cognome della madre). Spesso la firma si completa con Nanaqui. Ma nel momento in cui Artaud "si mette a scrivere realmente" sente il bisogno di reintegrare anche la sua identità. In una lettera del settembre 1943 indirizzata a Michel Leiris comunica:
J’ai l’intention maintenant que les choses vont mieux pour moi de me remettre enfin à écrire non pas tellement pour dire des choses aux autres que pour me les élucider à moi-même (X, 90).
[Ho l’intenzione ora che le cose vanno meglio per me di rimettermi finalmente a scrivere non tanto per dire delle cose agli altri quanto per chiarirmele a me stesso].
La firma in calce: Antonin Artaud.
Ma l’attraversamento scritturale di molteplici nomi rimarrà una reale possibilità di scrittura. Infatti, come sottolinea Galzigna, nel laboratorio di Rodez il "lavoro alchemico dell’incarnazione – parola frequentissima nei Cahiers – diventa per Artaud un modello a cui attingere, un itinerario privilegiato, un punto fondamentale della propria rinascita". Come Nieztsche, può affermare: "io sono tutti i grandi nomi della storia".
Quella di Rodez è veramente una scrittura della ripresa: Artaud si riprende, prende nuovamente possesso di sé: è attraverso iCahiers che "si ripensa e ricostruisce il suo pensiero" (XV, 345). Quella di Rodez è allo stesso tempo una écriture réparatrice (S. Harel), una sorta di orizzonte terapeutico; una écriture de l’invocation (C. Dumoulié), nella misura in cui Artaud chiama il suo io a rispondere, si compita, come l’angelo poeta Isafel; una scrittura generatrice in cui Artaud, letteralmente, "se refait".
Dumoulié (cfr. Antonin Artaud) propone di leggere i Cahiers come una ripresa di quel momento inaugurale della coscienza moderna che è il Cogito cartesiano. All’origine troviamo lo stesso salto nel vuoto da parte dell’io, vuoto nel quale Artaud si era già lanciato con le Nouvelles Révélations ("È fatta. Sono proprio caduto nel Vuoto da quando tutto , – di quel che fa questo mondo – ha finito di farmi disperare", p. 150) e al quale conduce l’impasse del dubbio iperbolico nell’esperienza del Cogito. Come il Cogito, i Cahiers sono "un progetto dall’eccesso inaudito e singolare, dall’eccesso verso il non-determinato, verso il Nulla o l’Infinito".
Non ci sono dubbi: Artaud rimarrà "fedele all’infinito".
Les problèmes autur desquels tourne mon texte, les notions qu’il cherche à évoquer, sont tout ce qui est contenu dans le mots Inconscient, Infini, Éternel (X, 98).
[I problemi attorno ai quali gira il mio testo, le nozioni che cerca di evocare, sono tutto ciò che è contenuto nelle parole Inconscio, Infinito, Eterno].
Il laboratorio della lingua
… moi en écrivant ici j’en passe par les fources caudines de la langue, une langue que je n’ai pas choisie parce qu’elle est basé sur un mouvement du rectum, où l’expulsion psychique de l’idée se tient droite, je dis droite, par l’incision criminelle d’une conscience renvoyée en liquéfation autour de l’incisif de l’être…*
Antonin Artaud
Fino al momento dell’internamento Artaud aveva visto la scrittura come un mezzo per raggiungersi. In una lettera del 1932 scrive infatti:
Pourquoi j’écris? Pour me libérer, pour m’atteindre (V, 159)
[Perché scrivo? Per liberarmi, per raggiungermi].
A Rodez la scrittura, la parola in generale, diventa un mezzo per ri-costruirsi. Nei Cahiers Artaud delinea i contorni del suo io, si definisce, si dice, si ri-dice. Per costruire una nuova dimensione dell’essere a partire dalla parola, Artaud deve necessariamente passare per quelle che chiama le "forche caudine della lingua": ripercorrere tutte le stratificazioni del linguaggio, rompere l’involucro limaccioso delle parole e cogliere l’essere nel vivo. In sé le parole sono infatti fango, limo.
Les paroles sont un limon qu’on n’éclaire pas du côté de l’être mais du côté de son agonie.
[Le parole sono un limo che non si illumina dalla parte dell’essere ma dalla parte della sua agonia].
Oltre a essere un laboratorio dell’identità, l’officina surriscaldata di Rodez è anche una fucina del linguaggio e dunque della scrittura. I Cahiers testimoniano infatti un enorme sforzo dell’essere e della lingua per far risorgere dalle macerie del linguaggio quella parola che permetta di attingere alla vita. "Bisogna spezzare il linguaggio per toccare la vita", scriveva Artaud già nelle pagine introduttive aLe Théatre et son double. Prima di rinascere nella fucina di Vulcano, il linguaggio deve però morire. Prima di forgiare una parola nuova, densa e folgorante, Artaud deve diventare quell’"analphabète illittéré", che ripudia la "lettre écrite", che violenta la propria lingua madre. Soltanto sospendendo la funzione rappresentativa del linguaggio, svuotando la parola del suo senso per portarla verso quel grado zero che permette di rifare il mondo, Artaud può rifarsi un io. Credo che anche la glossolialia di Artaud vada letta in questa chiave: come parola che viene prima delle sue articolazioni significanti e non, più comodamente, come puro disturbo delle facoltà linguistiche.
La ricerca di una parola che trascenda l’orizzonte del significato è nettamente anteriore al periodo di Rodez. Risale infatti all’epoca delle riflessioni sul teatro, all’epoca della Correspondance. È una ricerca che si scopre ricca di ascendenze lontane, un impegno che si iscrive all’interno dell’eterna crociata di Artaud contro il mondo della rappresentazione nel suo significato classico e i valori di quella metafisica dualista che governano la cultura occidentale. L’invenzione (inventare è, in realtà, trovare) di una nuova lingua è uno scopo attivo dichiarato apertamente dallo stesso Artaud, anche a Rodez. A questo proposito nell’ottobre del 1945 una lettera a Parisot annuncia un progetto: scrivere un libro, Mesure sans mesure, per sperimentare "un nuovo linguaggio", sulla scia di un libro che Artaud avrebbe scritto già nel 1934, un libro scritto "in una lingua che non era il francese ma che tutti potevano leggere, di qualunque nazionalità fossero", un libro che "sfortunatamente è andato perduto" (IX, 171), divorato dai ratti. Un brillante articolo della Thévenin, Entendre/ Voir/ Lire, ci fornisce una intelligente interpretazione di questo libro immaginario, ridotto a un titolo (Letura d’Eprahi Falli Tetar Fendi Photia o Fotre Indi) che raccoglie, come spiega la curatrice delle Œvres complètes, tutta la vicenda umana di Artaud.
Artaud, a Rodez, spacca, frantuma il linguaggio, lo fa esplodere minandolo dall’interno. Per questa ri-creazione della lingua deve pensare oltre il linguaggio comune, cioè oltre il linguaggio della "fornicazione universale".
Que le français s’en aille, c’est lui qui a fait souffrir ma tête et les choses entre le martau et la charrue.
[Che il francese se ne vada, è lui che ha fatto soffrire la mia testa fra l’aratro e il martello].
Bisogna dunque muoversi all’interno di un meta-linguaggio, raggiungere il "grado zero della scrittura", per poi creare quel linguaggio universale che sia comprensibile a tutti e che "tocchi" veramente la vita. Un linguaggio che non sia "solamente un riflesso senza possibilità di scelta", come direbbe Barthes (cfr. R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture). A questo scopo Artaud deve innanzitutto spezzare la logica che collega necessariamente il significante al significato – nella scrittura come nel disegno o nella pittura – rompendo la regolarità e l’evidenza del codice. "Ad un segno portatore di significati, che si imprime sopra una materia passiva, ricettacolo essa stessa di tali significati, Artaud contrappone una rottura di questa tradizionale distribuzione di ruoli. […] Sfondare il muro del significante. Oltrepassare le barriere della rappresentazione".
Questo sfondamento, questa nietzscheana Umwertung aller Werte, subìti dall’orizzonte semantico, si dimostreranno produttivi ed efficaci soprattutto alla luce degli scritti post-asilari. I Cahiers du retour à Paris annunceranno:
Porquoi écrire?/ il y a un langage non imprimé avec lequel je mangerai l’imprimé./ Ce langage est inscrit dans le corps sans lettres (XXIII, 139)
[Perché scrivere?/ Vi è un linguaggio non stampato con cui mangerò lo stampato./ Questo linguaggio è iscritto nel corpo senza lettere].
Ma il linguaggio del corpo senza lettere inizia a formarsi già nelle pagine di Rodez. Sempre a Rodez nascono i "dessins écrits", cioè quelle frasi che "s’encarnent dans les formes afin de les précipiter" (XI, 20) [incarnandosi nelle forme allo scopo di precipitarle] e che recano testimonianza di un nuovo canale espressivo per, come sottolinea Derrida (cfr. J. Derrida e P. Thévenin, Antonin Artaud. Portraits et dessins), "forcener le subjéctile".
A Rodez la parola prende corpo; la parola scritta subisce una vera e propria materializzazione sonora e corporea attraverso la voce. Artaud non scrive più senza scandire il suo testo vocalmente, senza provare il valore sonoro di ciò che scrive. I Cahiers sono "scrittura vocale" (espressione della Thévenin); sono fatti per essere letti, recitati ad alta voce, gridati, vissuti.
A Rodez "Artaud cammina sopra il filo invisibile che separa la parola dal grido, il linguaggio dal gesto, onde afferrare quella parola-forza che sta prima della parola: che non è più grido, che non è ancora significante", ma che sicuramente è sempre e ancora dolore.
"Le jour viendra où je pourrai écrire entièrement ce que je pense dans la langue que depuis toujours je ne cesse de perfectionner comme venant de moi par ma douleur" [Verrà il giorno in cui potrò scrivere per intero ciò che penso nella lingua che da sempre non smetto di perfezionare come proveniente da me attraverso il mio dolore], scrive Artaud nel luglio 1946. Quel giorno, da Rodez, non è poi così lontano.
Costruirsi un corpo senza organi
L’homme est malade parce qu’il est mal construit […]. Lorsque vous lui aurez fait un corps sans organes, alors vous l’aurez délivré de tous ses automatismes/ et rendu à sa véritable liberté. Alors vous lui réapprendrez à danser à l’envers/ comme dans le délire des bals musette/ et cet envers sera son véritable endroit*.
Antonin Artaud
Per "ricostruire l’uomo che è", Artaud deve agire su due binari paralleli. Se la ricostruzione dell’io passa attraverso la ricostruzione del linguaggio, non può prescindere dalla costruzione di un nuovo corpo. È infatti attraverso questo "corpo poprio" che le nuove modalità di espressione della parola-forza possono raggiungere possibilità finora inesplorate come attraverso una nuova cassa di risonanza.
La produzione di una parola anteriore alle sue articolazioni significanti, di una "lettre sans lettre/ mot sans mot" [lettera senza lettera/ parola senza parola] è indissolubilmente legata alla ricerca di un "corpo senza organi", di un corpo che venga prima degli organi e che si riproduca da sé. In questo modo Artaud segue le due scansioni fondamentali del processo produttivo schizofrenico (cfr. J. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Edipo). "Ai flussi legati, connessi e interrotti esso oppone il suo flusso amorfo e indifferenziato. Alle parole fonetiche oppone soffi e grida che sono altrettanti blocchi inarticolati".
Come Dioniso smembrato dai Titani, Artaud rinasce a un corpo nuovo, glorioso. Il dispositivo stabilito da Artaud evolve fra le due istanze, i due poli idividuati da Deleuze e Guattari: il molecolare (attribuibile alla dissociazione schizofrenica) e il molare (che rinvia a una forza unificante). Alle frammentarie "macchine-organi" della schizofrenia il poeta oppone un onnipotente e onnisciente corpo senza organi.
Ce qu’on appelle en moi l’homme/ C’est ma vie et c’est ce qu’il m’est impossible d’abandoner, mais je changerai/ mon squelette,/ mon cervau,/ mes poumons,/ mon coeur,/ mon foie,/ ma rate,/ mes fesses,/ mes intestins,/ ma colonne vertébrale/ et mon sexe./ Je garderai mon apparence externe avec modifications* (XIX, 98).
Il corpo, in realtà, è corrotto fin dalla nascita. La nascita è infatti un furto, un’espropriazione, opera di un Dio malvagio assistito da seguaci mortali: la società nel suo insieme ma soprattutto la coppia "père-mère", responsabile di questo corpo che è solo dolore. L’esperienza dell’elettrochoc alimenta sensibilmente il dramma di questo corpo doloroso, diviso e strappato, perduto a se stesso, privato delle sue energie vitali.
A Rodez nasce l’esigenza di una sintesi che riveli l’essere nella sua totalità:
En une seconde, oui, je peux me refair un être, un sentir de moi non en conception et en volonté mais en corps, seulement cette seconde est un enfer (XVII, 92).
[In un secondo, si, posso rifarmi un essere, un sentimento di me non in concezione e in volontà ma in corpo, soltanto questo secondo è un inferno].
Lo stesso corpo senza organi è una officina surriscaldata, dalla quale finalmente, nasce la persona. È quell’insieme di pulsioni anteriore a qualsiasi costituzione simbolica dell’immaginario. Non è uno stato, un fatto, ma una dinamica, un incessante lavoro di creazione. Dunque Artaud è un corpo senza immagine, un corpo che sfugge a qualsiasi rappresentazione, a qualsiasi definizione.
Con Dumoulié possiamo dire che ogni nozione, invece di designare questo nuovo corpo, definisce soltanto i contorni della sua assenza. Questo nuovo corpo non esiste al di fuori del processo di scrittura, in quanto si costituisce unicamente come corpo transferenziale tra il soggetto enunciante e il lettore: "il corpo dell’uno che si sottrae all’organizzazione dell’altro che si inventa un corpo attraverso una pratica intensiva – di respirazione – ritmata della lettura".
Artaud è un mistero che si incarna nella lava incandescente dell’opera; è un corpo invisibile reso palpabile soltanto dalla forza del testo. Nella sua brillante tesi di laurea Katell Floc’h definisce l’opera di Artaud un’"opera al nero che fa esplodere la materia inafferrabile di un corpo unico che, attraverso tutta una serie di travasamenti e di passaggi, ha potuto integrare la resistenza del ferro e divenire quel Semplice infinitamente puro in cammino verso l’infinito".
Mentre i disegni (soprattutto i ritratti) del periodo di Rodez sono la "revendication révolutionnaire" di un corpo sospeso che deve ancora nascere e trovarsi – la manifestazione di un "terrible en suspens, en suspens d’être et de corps" [terribile in sospeso, in sospeso d’essere e di corpo] – i Cahiers sono l’affermazione esplosiva di un "ouvrier-poète" che forgia incessantemente la sua identità di uomo-corpo attraverso l’incandescenza della parola nuova, l’incandescenza della voce di Artaud:
Il faut avoir un corps,
il faut dire je suis,
il n’y a pas de problème,
quand toutes les facultés vous assaillent
y répondre par un corps de fait,
un voix de fer rouge (XV, 268).
[Bisogna avere un corpo,/ Bisogna dire io sono,/ non c’è problema,/ quando tutte le facoltà vi assalgono/ rispondere con un corpo di fatto,/ una voce di ferro rosso].
"Moi, Antonin Artaud, je…"
Mon délire c’est moi./ Moi Antonin Artaud, je ne suis pas du côté où les choses se dissolvent.[…] J’ai un chant par lequel j’ai toujours rassemblé toutes les choses de mon moi* .
Antonin Artaud
Tutta l’opera di Artaud potrebbe essere considerata come un continuo, circolare sviluppo-addensamento di alcuni interessi ricorrenti. Espressioni come "Io non sono…ma", "io, Antonin Artaud, affermo che…", "io, Antonin Artaud, sono…", "Io sono colui che…" ecc. sono indubbiamente un Leitmotiv ridondante, quasi ossessivo, del vasto corpus artaudiano.
Se le Œuvres complètes sono dunque scandite da una certa ciclicità, una lettura attenta potrebbe "ripercorrere, a partire da un casuale punto di partenza, tutti i luoghi della complessa creazione artaudiana e riconoscerli inseriti in un anello di Moebius". All’interno di questo anello gli scritti di Rodez costituiscono una condensazione, direi quasi una esacerbazione del tentativo di auto-definizione. I Cahiers rivelano una vera e propria inflazione dei pronomi declinati alla prima persona, come se, invocata la forma, potesse automaticamente materializzarsi il contenuto.
Fin dal febbraio 1945, data della redazione del primo quaderno (XV), Artaud dichiara nello scritto Le retour de la France aux principes sacrés, testo introduttivo a tutti i Cahiers:
Mon coeur croit que toute satisfaction est dans la pensé et dans l’âme, et qu’il souffit de nommer ses états intérieurs et ses transes, d’en faire un poème réussi et un drame pour les faire vivre et leur donner droit de cité dans les choses avec la même valeur et la même réceptivité qu’une maison édifiée pierre par pierre et cimentée, où le vagissements d’un nouveau-né * (XV, 12).
Abbiamo visto che uno dei primi gesti verso la "désaliénation" fu il reinvestimento del nome proprio nella firma. Nella Lettre sur Lautréamont Artaud individua il conte Lautréamont come l’assassino del poeta Isidore Ducasse. L’invenzione del nome Lautréamont fu il sotterfugio "qui a fait fuir, à la longue l’âme de Isidore Ducasse de la vie" (35). Non si gioca con la firma: se un nome viene "spostato", può, invece di sdoppiarsi in segno, interrompere il significato.
Ora, nel suo articolo Artaud écrit ou la canne de Saint Patrick Guy Scarpetta sostiene che "il significante "Antonin Artaud" farà sempre più spesso ritorno (come in parallelo al Retour d’Artaud, le Momo) non come simbolo dell’identità, ma come inclusione calcolata; o, se vogliamo, meno come firma reinvestita che come agente disseminato nel teatro della scrittura". Credo che Artaud abbia preso molto piú sul serio il gesto sacro – annunciato in Le retour de la France aux principes sacrés – attraverso il quale, in un solo movimento, il soggetto enunciante si proietta nel testo e da questo stesso testo si crea. Come un anti-Narciso che, specchiandosi, rinasce.
Moi, Antonin Artaud, je suis mon fis, mon père,
ma mère
et moi (XII, 77).
[Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre,/ mia madre/ e me].
Certo – lo abbiamo visto nel capitolo precedente – non ogni Je pronunciato e scritto da Artaud ha questo potere. Come un pendolo il soggetto enunciativo dei Cahiers oscilla fra il molare e il molecolare senza fissarsi ad alcuno dei poli, "sezionando l’infinito per meglio dominare la massa, parcellizzando e frammentando per raccogliere in modo più ampio e più profondo il mondo, le anime e se stesso". Artaud oscilla. Il suo io si liquefa e si solidifica nel testo anche all’interno della stessa pagina. La spirale si allarga e si stringe più volte all’interno dello stesso quaderno.
A volte l’atto enunciativo, la proiezione del soggetto nello specchio del testo, quell’iscrizione che fa esistere Artaud non sololetterariamente ma realmente, dura soltanto un attimo: l’istante stesso in cui l’io, esprimendosi, è il suo proprio creatore ("istante senza Dio"):
C’est que ce n’est pas moi mais ce qui en moi fait l’esprit, l’âme, le coeur et le corps, ce n’est pas le moi-même, ni le soi, ni le lui, ni l’autre, et ce n’est pas Dieu, ce sera autre chose parce que je le veux car c’est Je. – Et mon je, à moi, ici, et pas le précédant car c’est dans la lutte de Je à Je que Je suis et je garderai pour moi pour l’instant sans dieu ce 3me Je qui soupprimera les 2 autres parce que, avant la lutte de Je à Je par moi, il n’y avait rien que moi sans moi * (XVI, 167).
Artaud lavora a un io ("3me Je") che annienti ogni differenza fra il soggetto dell’enunciato ("c’est le Je") e il soggetto dell’enunciazione ("que Je"), un io che non lasci spazio alle rappresentazioni alienate e alienanti – come "Monsieur Moâ" – per poter dire, alla fine "moi, simple Antonin Artaud, je…", per raggiungere "la bellezza oggettiva e concreta della vita". Artaud, a Rodez, raggiunge, in un incessante movimento di appropriazione-espropriazione, la meravigliosa semplicità di un io plurale, la ricca stratificazione dell’In-dividuo. Artaud, a Rodez, si prepara a sfoggiare tutti i colori del suo caleidoscopico io.
Se nell’agosto del 1939 Antonin Artaud morì a Ville-Éverard, a Rodez Artaud rinasce come un nuovo Adamo.
Il 25 maggio 1946 Artaud lascia Rodez, scoprendo, come Edipo, di essere stato la chiave dell’enigma. Per rispondere alla domanda "Chi sono?" ha dovuto attraversarsi, negarsi per poi riconoscersi.
Je me detruis jusqu’à que j’ai la preuve que c’est bien moi qui suis cela qui est moi (X, 112).
[Mi distruggo fino a quando non ho la prova di essere io colui che sono io].
A questa domanda Artaud non trova un’unica, definitiva risposta identificatoria, proprio perché sa di avere a che fare con una realtà in continua evoluzione, con un vero e proprio perpetuum mobile. La spirale non si chiude e dalla sua apertura potrà affiorare la poesia dei grandi testi del dopo-Rodez. Da questa fessura, dall’alba del suo corpo senza organi, Artaud può continuare a parlarci, proponendoci il suo straziante canto d’insurgé: quel canto che raccoglie "tutte le cose del suo io", che scandisce il cammino di questo io che avanza promettendoci:
Chi sono?
Da dove vengo?
Sono Antonin Artaud
e che io lo dica
come so dirlo
immediatamente
vedrete il mio corpo attuale
andare in frantumi
e ricomporsi
sotto diecimila aspetti
notorî
un corpo nuovo
e non potrete
dimenticarmi mai più (VIII, 118).
NOTE
- Dare senza perdere se stessi all’idea di dono e non portarla su se stessi come ogni volta un nuovo figlio. Perché allora il figlio del sé che entra in voi prima di essere fatto vi mangia […]/ e lui rendendosi conto che stava per inghiottire il proprio se stesso e diventare come il suo autovampiro si è separato in fulmini dal suo io inghiottitore.
- ma sempre l’idea dell’io perverso ritorna da noi come uno spaventoso rigurgito, e quando troveremo finalmente questo non-io in cui [ci] vediamo in quanto noi stessi, finalmente, e puri, cioè Vergini, nel fodo dello specchio eterno.
- G. Deleuze, Du schizofrène et de la petite fille, in Logique du sens, pp. 102-103
- A proposito di questa elaborazione autobiografica del nome e del "je suis mort" durante il "momento di Rodez"cfr. J.-M. Rey, La Naissance de la poésie. Antonin Artaud, Paris, Métailié, 1991
- Per un’analisi approfondita di questa letteralizzazione della scrittura segnalo l’articolo di P. Bruno, Ar-tau, inBarca! Nr. 2, mai 1994 .
- M. Galzigna, Artaud l’irriducibile, op. cit., p. 79
- J. Derrida, Cogito et histoire de la folie, in L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967
- Cfr. F. Bonardel, Antonin Artaud où la fidélité à l’infini, Paris, Balland, 1987
- …io scrivendo qui passo fra le forche caudine della lingua, una lingua che non ho scelto perché è basata su un movimento del retto, dove l’espulsione psichica dell’idea si tiene diritta, dico diritta, attraverso l’incisione criminale di una coscienza rinviata in liquefazione attorno all’incisivo dell’essere…
- La formula sembra essere ispirata a una celebre frase di Montaigne ("Que le gascon y aille…") ma il seguito è senza dubbio artaudiano (cfr. A. et O. Virmaux, Antonin Artaud. Qui êtes-vous?, Lyon, La Manufacture, 1996)
- M Galzigna, Artaud l’irriducibile, op. cit., p. 73
- ivi, p. 72
- L’uomo è malato perché è mal costruito […]. Quando gli avrete fatto un corpo senza organi, allora lo avrete liberato da tutti i suoi automatismi/ e reso alla sua autentica libertà. Allora gli reinsegnerete a ballare all’incontrario/ come nel delirio dei balli popolari/ e questo contrario sará il suo autentico posto giusto.
- J. Deleuze e F. Guattari, op. cit., p.11
- Ciò che in me si chiama uomo/ È la mia vita ed è ciò che mi è possibile abbandonare, ma cambierò/ il mio scheletro,/ il mio cervello,/ i miei polmoni,/ il mio cuore,/ il mio fegato,/ la mia milza,/ i miei glutei,/ i miei intestini,/ la mia colonna vertebrale/ e il mio sesso./ Manterrò il mio aspetto esteriore con delle modificazioni.
- Il libro di P. Bruno, Antonin Artaud. Réalité et Poésie, è una interessante lettura lacaniana dei testi del dopoguerra. Questi sarebbero la risposta poetica di Artaud al rifiuto della generazione dal Père-Mère, risposta attraverso la quale lo scrittore letteralmente si genera.
- C. Dumoulié, Antonin Artaud, op. cit., p. 121
- K. Floc’h, Antonin Artaud et la conquête du corps, Paris, Découvrir, 1995, 102
- Il mio delirio sono io./ Io Antonin Artaud, io non vengo da quelle parti dove le cose si dissolvono. […] Ho un canto col quale ho sempre raccolto tutte le cose del mio io.
- G. Poli, Antonin Artaud. La poesia in scena, Genova, Erga edizioni, 1997, p. 227
- Io mio cuore crede che ogni soddisfazione sia nel pensiero e nell’anima, e che basti nominare i propri stati ineriori e le proprie angoscie, di farne una poesia riuscita e un dramma per farli vivere e dare loro il diritto di cittadinanza nelle cose con lo stesso valore e la stessa ricettività di una casa edificata pietra per pietra e cementata, o i vagìti di un neonato.
- G. Scarpetta, Artaud écrit ou la canne de saint Patrick, in Tel Quel, nr. 81, 1979, pp. 79-80
- F. de Mèredieu, Sur l’élecrtochoc. Le cas Antonin Artaud, op. cit., p. 154
- È che non sono io ma ciò che in me fa lo spirito, l’anima, il cuore e il corpo, non è il me stesso, né il sé, né il lui, né l’altro, e non è Dio, sarà un’altra cosa perché io lo voglio perché è Io. – E il mio io, il mio, qui, e non il precedente perché è nella lotta da Io a Io che Io sono e terrò per me per il momento senza dio questo terzo Io che sopprimerà gli altri due perché, prima della lotta da Io a Io attraverso di me, non c’era nient’altro che io senza di me.
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