Appunti fenomenologici su percezione e allucinazione

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25 ottobre, 2012 - 21:45

*Intervento all’Ospedale di Camposampiero (Padova) — 8 ottobre 2004 — in occasione di un seminario promosso dalla PSIVE (Società Italiana di Psichiatria, sezione veneta) e diretto dal suo segretario, il dottor L. Cappellari. Questo testo verrà pubblicato sulla rivista "Psichiatria Generale e dell’Età Evolutiva", diretta da G. Gozzetti e L. Cappellari

Che cosa sa un filosofo di allucinazioni? A che serve qui la filosofia? La prima mossa non può che essere cautelativa. Si tratta di mettere le mani avanti. Anche se la filosofia in fondo non fa che mettere le mani avanti, sempre, e domandarsi, sempre, a che serve. Non prende per buoni i suoi oggetti, le sue verità. Di qui il suo carattere esasperante, per chi non la ama o conosce. Di qui il suo carattere ozioso, per chi non la ama o conosce. Altre discipline hanno molto da fare, e poco tempo per fermarsi a riflettere. Ecco che la filosofia inizia a fare la lezione, si potrebbe temere. Sale in cattedra. Forse sì, ma solo per pensare a sé e contro di sé, in certo senso. Vedremo in che modo questa curiosa lotta con se stessa possa offrire anche ad altri qualche spunto. Quello di allucinazioni è infatti un concetto che appartiene alla psichiatria. Sono gli psichiatri a incontrare le allucinazioni nella loro pratica, o meglio, alcuni pazienti che fanno prova di certe ben precise allucinazioni.

Se si chiede a uno psichiatra che cos’è un’allucinazione, la risposta che ho sentito (spesso: non sempre, naturalmente) è più o meno questa: un’allucinazione è una "percezione senza oggetto".

È la definizione di Jean Lhermitte, ancora largamente diffusa, magari in altra forma, magari non sotto il suo nome, ma l’idea è questa. Vedo qui sul tavolo una mela, senza che ci sia. Naturalmente, gli esempi della clinica sono molto più drammatici. Vedo uno scheletro in luogo della mia fidanzata (non è un caso così unico, ma sto citando da uno studio dello psichiatra tedesco Kuhn, che fu tra l’altro scopritore, cinquant’anni, fa dell’imipramina):

Georges ha iniziato ad amare davvero una giovane, Elfriede, nel momento in cui, nella bruma incerta di un tardo pomeriggio piovoso, l’ha vista mutata nel bianco di uno scheletro nerovestito. Da allora, non ama Elfriede che sotto le sembianze e sotto il nome del suo doppio, Ifigenia, tanto più presente in Elfriede quanto meno intensi sono i suoi contatti con gli altri e con il mondo. Georges vive in una sorta di cella, vuota, dai muri nudi. Non sopporta ciò che si intreccia o si accorpa. Arriva a strappare, per questo, i fili di cui è intessuto un tappeto. Delle tre estasi del tempo non gli è cara che quella del passato, perché, spiega, il passato non è più. Queste figure di morte, questi luoghi vuoti, questo passato scomparso non rappresentano, tuttavia, una fine, ma un inizio. È nel vuoto e nel nulla, una volta svuotati del troppo pieno del mondo, che gli si manifesta ciò che esiste davvero. Soprattutto, è nel nulla che l’esistenza, per lui, ha origine.

Insomma: ecco che per definire l’allucinazione si deve parlare di percezione, e per fare questo si deve definire a sua volta la percezione. Tocca al filosofo rispondere? Sì e no. Il medico, il fisiologo, lo psicologo sono altrettanto titolati, se non di più, a dare una risposta. Che significa allora percepire?

Cito da un qualsiasi dizionario (insisto: qualsiasi; e in fondo, consultandone più di uno, si nota presto che si somigliano tutti, in questa definizione almeno; ed è importante, questa loro sostanziale equivalenza; significa che la percezione è oggi intesa anzitutto e per lo più in questo senso):

-- la percezione è "l’atto della coscienza con cui si coglie l’esistenza di un oggetto esterno dal quale sono stati stimolati i sensi."

Concediamoci una prima tipica mossa filosofica: non saltiamo alle conseguenze, guardiamo la definizione parola per parola. Stiamo dicendo questo: ci sono i sensi; ci sono degli oggetti esterni; c’è un’azione di questi oggetti sui sensi; e c’è un atto della coscienza (qui un medico potrebbe suggerire una precisazione: c’è una reazione a livello del cervello, più che della coscienza; ma in fondo non è questo che importa, ora). Tutto bene? Sì e no, di nuovo. Definire la percezione implica definire una quantità di cose molto impegnative: la coscienza (o il cervello); il mondo, suddiviso e ripartito in oggetti (oggetti "esterni": dunque c’è un interno); e c’è uno stimolo che fa da interfaccia tra l’uno e l’altro piano.

Dobbiamo fidarci di questa partizione tra l’interno e l’esterno? È molto evidente, empiricamente affidabile. Eppure, se prendiamo sul serio proprio l’empiricità dell’approccio, è chiaro: non c’è nessun interno. Specie se mi rifiuto di parlare di coscienza (una cosa troppo fumosa) e se parlo piuttosto del cervello (una cosa molto più scientifica, osservabile, documentabile), vedo bene che non c’è nessun interno. Apro la scatola cranica, e che trovo? Un altro esterno. Seziono il cervello, e che trovo? Ancora qualcosa di esterno, di esposto. Dove passa la linea? Sulla pelle? Sì, ma anche in mille altre "soglie". Come se l’esterno entrasse all’infinito, o almeno all’indefinito, dentro all’interno.

Nessuna distinzione rigorosa è possibile, in proposito. Tutto si svolge all’esterno, fuori (il che equivale a dire: tutto si svolge all’interno di un unico sistema corpo-mondo, privo di confini netti, continuamente riarticolato secondo inclusioni ed esclusioni molteplici e variabili).

Altro dubbio. Se mi fido della partizione tra esterno e interno, dove colloco lo stimolo che viaggia dall’esterno all’interno? Dove inizia l’interno? Dove inizia l’esterno? Lo stimolo è dentro o è fuori? È chiaro, di nuovo, che sono localizzazioni buone per intendersi in fretta, ma non per fare "scienza" (si dovrebbe aprire qui una lunga parentesi su che significa "fare scienza").

È ciò che in sostanza obiettava Husserl alle scienze, da filosofo, notando che esse non erano abbastanza scientifiche ("i veri empiristi siamo noi", ha dichiarato un giorno ai suoi allievi di Goettingen).

Non si trattava affatto, per Husserl, di rendere le scienze più filosofiche. Si trattava di renderle finalmente e radicalmente scientifiche, cioè rigorose, cioè coerenti. Tutto quel che hai detto, lo hai detto; non puoi ritrattare e dire che era un modo per farsi capire; devi poter giustificare ogni frase, ogni verbo, ogni preposizione e avverbio: dentro, fuori, interno, esterno… Torniamo alla questione della percezione e del suo essere tramite tra dentro e fuori. Abbiamo almeno intuito, poco fa, che proprio la partizione tra dentro e fuori è da mettere tra parentesi, da tenere in sospeso, come si dice nel lessico della fenomenologia; magari ci torneremo, magari no; per ora non serve a descrivere meglio o a comprendere meglio il fenomeno in questione.

Tenere in sospeso ("epochizzare", dice Husserl) non significa giudicare falso, e neppure vero, ovviamente; significa aprirsi una via laterale, per dire così, di verifica della sensatezza dell’impostazione generale del problema. Propria la via o il metodo della descrizione è caratteristico della fenomenologia. In fenomenologia si tratta di descrivere, sforzandosi di "mettere tra parentesi" nel modo più sistematico, più ripetuto, ogni nozione, ogni traccia di teoria, ogni "idea" che non provenga direttamente dall’esperienza e che non faccia ritorno e non si giustifichi immediatamente rifacendosi all’esperienza.

Descrivere cosa? Questo è uno dei punti più difficili e più caratteristici. Per un verso, descrivere ciò che appare: cfr. l’es. del vaso da fiori citato da Paci (Diario fenomenologico). Come lo vedo? Lo vedo in prospettiva, sempre da un solo lato, ma anche con l’attesa di un secondo profilo, poi di un terzo, e così via; è così che si costruisce via via il carattere di "profondità" di una cosa, e il carattere di profondità della mia visione e più in generale del mio orientamento nel mondo…

…sicché più nel profondo ciò che si tratta di descrivere non sono le cose che appaiono (i "fenomeni" appunto) ma le operazioni, i gesti, gli atti attraverso cui ciò che appare appare (dunque si tratta di descrivere l’apparire di ciò che appare, il suo phainesthai).

Tutto ciò che appare ha, dietro di sé, il lavorio delle operazioni della coscienza, come Husserl dice caratteristicamente.

Il che non significa: tutto ciò che appare è un effetto o un prodotto delle operazioni della coscienza (Husserl non è un idealista). Significa piuttosto: gli oggetti di cui parliamo come fossero oggetti "in sé", puramente "naturali", sono invece carichi di teoria, impregnati delle scelte, delle decisioni del soggetto che li osserva.

(Ogni "fatto scientifico" è il prodotto di operazioni teoriche: è il grande tema della fenomenologia "genetica" e della Krisis: fenomenologia cioè della genesi o della genealogia degli oggetti a partire dalle prassi percettivo-manipolatorie-linguistiche).

Riprendiamo. L’idea di una partizione "dentro/fuori" è poco utile a una descrizione fenomenologicamente rigorosa del "senso" della percezione. L’idea di stimolo anche, così com’è, è di dubbia efficacia. (Che fa lo stimolo? Va da fuori a dentro? Ma se dentro e fuori non sono luoghi così solidi, ma solo costruzioni (legittime!) che presuppongono esse stesse la percezione in atto...

Eppure l’idea di stimolo è anche, per altro verso, importante e anzi decisiva. Proviamo allora a immaginare quest’altra impostazione del problema. Partiamo dallo stimolo, senza decidere pregiudizialmente se è interno o esterno. Diciamo semplicemente così: accade uno stimolo. Diciamo che accade perché uno stimolo non "è" propriamente, non è nulla di statico, ma è una dinamica, un movimento, una trasformazione. Accade uno stimolo. Vedo questo tavolo. Vedo questa sala. Immaginiamo ci sia qui sul tavolo una mela. Tocco questa mela. Che succede esattamente?

Direi così: è per abitudine, per avere infinite volte toccato oggetti e visto oggetti, che ho via via adottato questa immagine della situazione: che la mela è esterna, che io sono interno.

(Basta la semplice domanda: interno a cosa? Io ad es. sono interno al mio sistema nervoso?

Alla mia scatola cranica? A "me stesso"? E le mie mani come le devo definire? Esterne rispetto al mio sistema nervoso, che è più interno, ma interne rispetto alla mela, che certo è più esterna? Difficile dire quale opzione sia meno assurda.

Interno ed esterno non esistono mai "in sé", ma sempre e solo come effetto di un punto di vista scelto, per dire così; sicché si tratta sempre di chiedersi: in base a quale punto di vista? E perché sto adottando proprio questo punto di vista, e non un altro? È l’unico disponibile, questo punto di vista? È congruo con il tipo di fenomeno che vorrei tematizzare?)

È noto che il bambino molto piccolo, che ancora non sa tante di queste cose su cosa sarebbe interno e cosa esterno, ragiona, per dire così, in altro modo. Nulla, per lui, è esterno o interno. Non "sa" che il seno della madre è il seno della madre, e che quel faccione sfuocato è il volto della madre, e che quella là fuori è "la mamma". Questo diventa vero molto più tardi, diventa vero per noi, tanto lontani da quell’esperienza quanto inclini a leggerla per successive sovrapposizioni di nostri modi di intendere l’esperienza stessa.

(Appunto: la fenomenologia è tutt’uno con questo sforzo di esaminare l’esperienza sulla cui base una scienza afferma quello che afferma; di esaminare i motivi che conducono all’assunzione di un certo punto di vista, cioè di una certa forma d’esperienza piuttosto che di un’altra; perché tutto, nelle scienze e fuori delle scienze, è, per dire così, fatto della materia dell’esperienza).

Che cosa c’è per il bambino? Proviamo a rispondere (con l’ovvia consapevolezza che siamo pur sempre noi a rispondere, noi a mettere tra parentesi, noi a descrivere, noi ad eservitare uno sguardo fenomenologico…: con la differenza che ora, però, siamo consapevoli della pazialità di questo sguardo: della sua efficace parzialità, e dunque della sua necessaria limitatezza).

Proviamo a rispondere: per il bambino c’è la fame, ad esempio; c’è il succhiare, la sazietà, il sonno, di nuovo la fame… Il che non significa che quella sia la verità, e il nostro un inganno. Significa che l’esperienza si articola in molti modi, che tendiamo a ricoprire e ingabbiare tutti in una stessa gabbia teorica. Supponiamo di fidarci dell’empiria, mentre abbiamo già filtrato l’empiria attraverso mille eredità concettuali e mille astrazioni.

La definizione più ricorrente della fenomenologia non a caso è quella che invita a tornare "alle cose stesse", ai "vissuti originari", insomma all’incontro con il mondo, con le cose, con gli altri, come matrice a partire da cui soltanto le astrazioni delle teorie possono essere spiegate e intese nel loro significato e nelle loro conseguenze.

(Dico conseguenze perché se astraggo e rappresento il mondo e le cose in un certo modo, le rendo comprensibili e manipolabili secondo certe direttrici: diventa possibile e sensato fare certe cose, e impossibile e insensato fare altre cose; insomma ogni decisione teorica è una decisione immediatamente pratica).

Torniamo alla percezione. Se il bambino non avesse fame, scoprirebbe mai il seno della madre, nella miriade di cose incomprensibili di cui è circondato? Forse no, o forse lo scoprirebbe in chissà quale altra luce, come cuscino, come fonte di riscaldamento, come gioco… Che significa che il bambino percepisce il seno della madre? Possiamo limitarci allo schema che dice: c’è un oggetto esterno, che mi investe e che agisce sui miei sensi (ad esempio sul tatto, attraverso una certa pressione, o la vista, attraverso la riflessione di raggi di luce); e c’è un mio (o del bambino) registrare lo stimolo nel mio interno, nel mio cervello, nella mia memoria, ecc.?

Perché ci sia l’oggetto della percezione, è necessario che ci sia la fame del bambino; se no, mai il seno emergerebbe come "il seno materno". L’attesa in qualche modo precede l’incontro percettivo con la cosa. La fame è la condizione sine qua non del fatto che "si manifesti" il senso della madre (peraltro, la rilevazione del seno della madre è la condizione sine qua non dell’innesco delle gestualità della suzione, della deglutizione, e così via).

Si potrebbe obiettare: ma se il seno materno non profumasse di latte, non fosse caldo, ecc. ecc., ugualmente non emergerebbe nel campo dell’attesa del bambino (e cioè: anzitutto c’è l’oggetto-stimolo; segue la reazione).

Ma di nuovo: se il bambino per vari motivi non si attendesse un certo profumo, un certo calore ecc., se non fosse anzitutto disponibile a registrare quel genere di stimoli, non li registrerebbe di fatto. Serve un’apertura preliminare, per dire così, a cui la percezione è strettamente intrecciata ma che non si esaurisce nella percezione (richiede ciò che chiamavo attesa, e anche una certa dimensione di memoria, senza la quale non si dà evidentemente attesa).

(Dunque, ogni stimolo agisce solo entro uno spazio che lo rende riconoscibile come stimolo significativo; altrimenti, uno stimolo sarebbe uguale a zero)

E questo incontro originario, poi, non è da pensarsi come un incontro tra cose esterne le une alle altre (qui il bambino, là il senso, in mezzo lo stimolo visivo, olfattivo, gustativo, ecc.). Il bambino affamato è tutt’uno col succhiare il seno (almeno, così testimoniano gli studi degli psicologi; cfr. Melanie Klein, nonché le varie rivisitazioni che a Melanie Klein ha dedicato Merleau-Ponty)... Il seno non gli sta propriamente di fronte come un oggetto, e lui non sta di fronte al seno come un "soggetto". Non è questa la struttura d’esperienza che lì accade (e che mille volte accade anche in noi, da quando a nostra volta riviviamo il coinvolgimento del desiderio, dell’appetito, a quando per strada schiviamo all’ultimo momento un’auto che non avevamo notato fino all’ultimo… nulla qui è mai di fronte ed esterno, e la percezione è un far corpo con le cose o uno sfuggirne improvviso, un corteggiare le cose o un distogliersene graduale…).

La percezione stessa è tutt’uno con un intreccio di attesa, memoria, desiderio, cioè, direbbe Heidegger, è un modo di essere-nel-mondo.

(Per Husserl è anzi il modo più originario ed esemplare, significativo e fondativo di tutti gli altri; così è ancora per Merleau-Ponty; mentre per lo stesso Heidegger, fondativo è un certo rapporto pragmatico con le cose, manipolatorio, di cui l’aspetto percettivo è solo un aspetto: le cose le osservo, ma anche e anzitutto le manipolo, e ogni percezione accade in un intreccio vivente di gesti, pratiche, ecc. ecc.)

Dunque: l’accadere di uno stimolo è ogni volta il disporsi di una dentro e di un fuori, di un "qualcosa da raggiungere" e di uno sfondo "a partire da cui ci si muove". Così il mondo inizia ad articolarsi (cioè letteralmente: a darsi nella figura divisa e riunita di cose e intenzioni che si corrispondono, di percorsi e vie percorribili, insomma di zone di significatività, di "simboli", letteralmente, o di eventi di "senso"; l’enigma del senso dell’esperienza è ciò che una definizione della percezione o dell’allucinazione come quelle prima citate non possono, per motivi strutturali, tematizzare).

Torniamo appunto Lhermitte. Che cosa abbiamo guadagnato col percorso svolto fin qui? Che la sua definizione, apparentemente neutra, oggettiva, elementare, spoglia, è invece zeppa di presupposti. Ogni suo termine implica una quantità di altre nozioni.

(È così anche per noi, ovviamente; salvo che noi stiamo facendo del nostro meglio per interrogarci criticamente su questi presupposti, e per non lasciarli agire inavvertitamente.)

(Per non lasciarci agire inavvertitamente da loro, si potrebbe dire: la fenomenologia è un esercizio di consapevolezza, e in questo senso di memoria: si ripensi al modo in cui Husserl parla della "fenomenologia genetica".)

Ogni parola della definizione di Lhermitte è carica di teoria e di storia, dicevo. Ma soprattutto ogni parola implica qui un’intera antropologia e un intero modo di intendere l’esperienza e il senso dell’esperienza. Dunque, anche il senso e il modo di intendere l’esperienza altra, difforme da ciò che è per lo più, l’esperienza psicopatologica ad esempio (ma non soltanto; si pensi all’incontro con esperienze culturali estranee all’orizzonte occidentale, alla ricaduta che questo genere di discorso ha in termini di etnografia, di etnopsichiatria, ecc. ecc.).

Ciò che la mancata comprensione di questo insieme di presupposti porta con sé, è, diciamo così, uno scambio, un fraintendimento, un incontro mancato. Si suppone di sapere che cos’è la percezione, ma la si riveste, come diceva tipicamente Husserl (nella Krisis), di un velo di idee e astrazioni che neppure riconosciamo come tali. Dell’esperienza di quest’uomo che ora percepisce questa mela sul tavolo, noi sapremo molto poco, anche se diremo molte cose intorno ad essa. E così dell’esperienza di questo uomo che percepisce una mela sul tavolo, quando la mela non c’è. Non sapremo molto del senso di questa sua "percezione senza oggetto", anche se diremo, e faremo anche, molte cose intorno ad essa (quale sarà allora il senso di questo nostro fare?).

Ed ecco il punto. Non si tratta solo di un problema di comprensione psicopatologica (e già non sarebbe poco, dato che ogni fenomeno di comprensione implica una trasformazione delle nostre prassi). Si tratta di un problema di azione terapeutica. La posta in gioco, qui, è il senso della cura, il senso della salute, il senso della psichiatria e in senso lato della medicina stessa.

A seconda di come intendo un dato fenomeno, interverrò rispetto ad esso. Qual è il senso di questo mio intervento? Ovviamente non è sempre e comunque identico a se stesso. E poi: per chi un dato intervento ha un dato senso? Qual è il senso dell’azione terapeutica? Per chi una data azione terapeutica ha un dato senso? Sono di nuovo domande destabilizzanti. Proviamo a vedere.

Uno psichiatra verifica l’esistenza di un vissuto allucinatorio. Decide di eliminarlo (per es. farmacologicamente). Che senso ha l’azione terapeutica per chi la esercita? Che senso ha per chi la vive in prima persona, su di sé? Nel primo caso, si è eliminato un sintomo. Anzi: un errore.

È chiaro infatti che la struttura della definizione di Lhermitte (allucinazione = percezione senza oggetto) è eminentemente gnoseologica. Deriva cioè da una impostazione che si interroga sulla percezione come fonte di conoscenza.

È un’eredità tipicamente filosofica, questo modo di impostare la questione: storicamente la percezione è un "personaggio" del discorso filosofico, e un personaggio che ricorre ogni qualvolta sorgano domande del tipo: che cosa posso sapere? Che cosa è vero? Quali sono le fonti della mia conoscenza? Quali sono più affidabili, quali meno?

Si noti che qui la "postura" tacitamente presupposta è quella della contemplazione: la percezione smette di essere un modo del mio concreto essere nel mondo, e diventa qualcosa di molto astratto: ci sono io, che mi interrogo sull’affidabilità di quel che vedo, sulla possibilità di inganni percettivi (illusioni ottiche, ecc.)… Curioso reinterpretare alla luce di questo sistema di (utili, a volte) astrazioni l’intero dell’esperienza di ogni uomo in ogni momento della sua vita…

Torniamo a noi. C’è una mela sul tavolo? Se la vedo e c’è effettivamente: tutto bene. Se la vedo e non c’è: male. Ecco che ho una percezione non veritiera, cioè falsa. Converrà ripristinare l’ordine (ma quale ordine? Chi ha deciso che questo l’ordine? È di questo ordine che c’è bisogno in questo momento? Ecc. ecc.).

Invece: se osserviamo la situazione dal punto di vista che prima ricostruivamo attraverso l’esempio del bambino, che cosa cambia? Che il piano "gnoseologico" viene arricchito e integrato, diciamo così, da tutta una serie di altre considerazioni. Viene, per altro verso, rimesso a camminare, fenomenologicamente, sui piedi. L’astrazione viene riportata al concreto che le era da sempre sotteso, ma che per un insieme di motivi è stato via via cancellato o ricoperto (sarebbe interessante ricostruire questi motivi, ma non ora non ne abbiamo né il tempo né, a dire il vero, gli strumenti).

Che cosa porta con sé quella che chiamiamo "percezione", e che andrebbe forse chiamata d’ora in poi in altro modo (magari "incontro", dicevamo prima)? Porta con sé un intero mondo (l’intero senso che vige al fondo di questo essere nel mondo (e non: di fronte al mondo; e neppure: di fronte a un oggetto, a questa mela, a questa persona, ecc.).

Corollario: se tolgo quella percezione (perché falsa, in ultima analisi) tolgo un intero mondo.

(Tolgo un intero essere-nel-mondo, dato che il mondo non sta mai neppure lui "in sé", ma sta sempre nell’esperienza di un determinato essere-nel-mondo).

Cioè: il medico che agisce come nell’esempio di prima, suppone di togliere un errore percettivo, di ripristinare l’efficacia di un meccanismo; ed è appunto così, per lui medico; ma il suo paziente si vede sottratto un mondo, a volte il suo intero orizzonte di senso; di qui tutta una serie di considerazioni sulle "strategie della cura" che non mi competono: ogni farmacologia implica un lavoro psicoterapeutico, ecc. ecc.;

Mi limito quindi a porre una serie di domande filosofiche che discendono direttamente da questo dissidio tra due "punti di vista" (per il medico avviene questo e quello; ma per il paziente avviene quest’altro e quest’altro…)

(Tutta la "fenomenologia" di Hegel è un gigantesco esercizio di questo genere: per chi è vero questo (e come fa a diventare vero per lui)? Per chi è vero quest’altro (e come fa a diventare vero per lui)? Infine "chi" fa tutto questo discorso sul "per l’uno vale questo", "per l’altro vale l’altro"? E che tipo di verità gli pertiene?)

Dunque riassumo le domande che mi paiono racchiudere il senso dell’esercizio che a mia volta ho provato a svolgere sul tema "percezione e delirio". Che tipo di efficacia ha questa azione terapeutica? Per chi dei due è efficace? Che senso ha questa efficacia?

Il senso dell’invito husserliano "zurueck zu den sachen selbst" mira all’ideale di una teoria e di una prassi libere.

Libere anzitutto dal peso del rimosso, per dire così, facendo il verso (ma con intenzioni serissime!) al gergo della psicoanalisi. E libere dalla carica di violenza e distruzione che ciò che è rimosso esercita proprio in quanto rimosso; di qui l’invito husserliano alla "visione", al "portare alla luce" il senso delle operazioni di una certa scienza o di una certa pratica; di qui il senso anche etimologico del richiamo husserliano a una fenomenologia "eidetica".

 

 

E. Borgna, I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia, Feltrinelli, Milano 1989.

Husserl E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1987.

Kuhn R., Daseinsanalyse eines Falles von Schizophrenie, in "Monatschrift für Psychiatrie und Neurologie", vol. 112, n. 5-6, 1946.

Maldiney H., Pensare l‘uomo e la follia, tr. it. F. Leoni, Einaudi, Torino 2995 (in corso di stampa).

Paci E., Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961.

Sini C., I segni dell’anima. Saggio sull’immagine, Laterza, Roma-Bari 1989

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