Questo contributo rappresenta una rivisitazione di una relazione da me portata al simposio "Epistemologia clinica e psichiatria. Nuovi strumenti per l’integrazione dei saperi e delle pratiche" del XLIII Congresso Nazionale della S.I.P., Bologna 2003, organizzato e presieduto dal Prof. Mario Galzigna.
Nella prima parte del lavoro affronterò il tema della possibile integrazione tra psicopatologia fenomenologica e psicoanalisi nel contesto psicoterapico, problema già ampiamente affrontato da illustri autori. Il confronto, spesso sotto forma di polemica, tra psicoanalisti e fenomenologi (ben riassunto da M. Rossi Monti nel capitolo dal titolo "Il contributo della fenomenologia", in "Epistemologia e psicoterapia", Raffaello Cortina) con l’"accusa" da parte dei primi ai secondi di non avere una teoria della mente, unica in grado di garantire una traducibilità (deontologica) di una conoscenza in strumenti operativi specifici che vadano al di là di un atteggiamento di fondo che costituisce solo il presupposto di ogni psicoterapia, lo trovo personalmente un confronto appassionato ma non così appassionante. Innanzitutto perché ritengo che non siano molti gli psichiatri o psicologi clinici in grado di affrontare con i pazienti gravi (ai quali spesso ci si riferisce in questi dibattiti) una psicoterapia "strutturata": a meno di non avere come minimo una analisi personale alle spalle e un supervisore a disposizione. In secondo luogo perché i pazienti gravi sono pazienti quasi sempre istituzionali in quanto abbisognano di un percorso di cura integrato (dove l’approccio psicoterapico è solo una delle possibili componenti della terapia), e sappiamo bene che nel contesto istituzionale il paziente grave passa gran parte del suo tempo (terapeutico!) con operatori che non sono né psichiatri né psicologi, e che di fatto non hanno una preparazione o una competenza psicoterapica in senso stretto.
Anticipo che un possibile punto di integrazione tra le due diverse discipline ritengo sia rappresentato, da un punto di vista teorico e della prassi terapeutica anche psicoterapeutica, da un versante ermeneutico che accomuna entrambe, prendendo in tal senso distanza critica da quanto sostenuto da R. Steiner (ripreso da Rossi Monti) riguardo ai rischi di una riduzione ermeneutica della psicoanalisi (e direi anche della fenomenologia) la quale verrebbe riassorbita nel relativismo di infinite narratologie, quasi diventando una psicoanalisi nella quale "va bene qualsiasi cosa".
Nella seconda parte del mio intervento cercherò di chiarire in che senso ritengo non solo possibile ma anche auspicabile, se non necessaria, un’integrazione dei due saperi, quello psicoanalitico e quello psicopatologico, nel tentativo di tenere come costante riferimento mentale il quotidiano operato clinico proprio nel contesto istituzionale psichiatrico. In tale direzione, l’aspetto più stimolante del tema in questione consiste, a mio avviso, proprio nel tentativo di riconoscere quale e quanto sapere, e nello specifico quale e quanto sapere di tipo psicoanalitico e psicopatologico, permetta a tutti noi operatori, non solo psichiatri e psicologi ma anche infermieri, educatori, addetti all’assistenza, di raggiunger un livello di comprensibilità del paziente grave che ci metta, sia pur nella diversità della formazione e delle competenze, nelle condizioni di poterlo utilizzare come strumento efficace di cura.
Psicopatologia fenomenologica e psicoanalisi come discipline ermeneutiche
Luigi Boccanegra, durante una supervisione su casi clinici che periodicamente conduce nella equipe del Servizio psichiatrico di Camposampiero, diede un aiuto preziosissimo al gruppo di lavoro quando sottolineò che la teoria, il sapere, di qualsiasi tipo sia, aiuta certamente ad aumentare il campo della comprensibilità del paziente che abbiamo di fronte, a patto però che la stessa teoria non ci allontani dalla possibilità di umanizzare il paziente. Nella speranza di non amputare la profondità del suo pensiero, mi sembra di poter riportare come per Boccanegra sia di vitale importanza nella relazione con il paziente psicotico, o comunque grave, la possibilità di restituirgli un’emozione, una emozione che nasce e si alimenta nel rapporto con lui, che sia per entrambi digeribile, integrabile, un’emozione che non sia quella che lo psicotico non è in grado di recuperare ( non possiamo cioè, seguendo il pensiero di Zapparoli, risarcire allo psicotico ciò che per quel paziente non è più risarcibile) e che al contempo permetta anche a noi operatori di vivere una "commozione per un destino" che diventa in qualche modo abbracciabile, condivisibile. Possibilità, questa, che, a prima vista, potrebbe del tutto esulare da un rigido sapere teorico o tecnico, anche se si appella ad una particolare, profonda, sensibilità terapeutica.
Il problema, tuttavia, sta non solo nel conoscere ciò che può diventare terapeutico con i nostri pazienti, ma anche nel poterlo replicare, sapendo individuare i tempi e le modalità di tali restituzioni. Possono, sulla scia di quanto detto, la psicoanalisi e la psicopatologia fenomenologica, nella diversità e nel rispetto delle loro diverse fondazioni epistemologiche, integrarsi in un sapere e in una pratica fruibili da parte di noi operatori, in un sapere che non sia fredda teoria e in una prassi che diventi più che una specifica tecnica per pochi, un atteggiamento terapeutico alla portata di molti? Questa è la domanda che porrei, e la mia risposta è senz’altro affermativa.
Cercherò dapprima di chiarire che cosa si intende per psicopatologia fenomenologica, per specificare in seguito quale pensiero e prassi di tipo psicoanalitico trovano con questa una evidente integrazione sul piano della prassi terapeutica. Il mio non potrà che essere un discorso anche teorico, ma spero di essere in grado di calarmi, comunque, nell’atmosfera di un discorso che ci avvicini al paziente, al nostro lavoro quotidiano.
Come sottolinea anche Dalle Luche (1) possiamo dire che non esiste "una" psicopatologia fenomenologica, ma impostazioni psicopatologiche diverse tra loro che si fondano però su un atteggiamento comune di fondo che consiste, con Barison (2), nella tendenza a far emergere e risaltare l’irriducibilità del compimento di senso di ogni singola esperienza clinica e terapeutica. Lo psicopatologo fenomenologicamente, o meglio antropofenomenologicamente, orientato è teso alla ricerca del senso e significato delle esperienze interne del paziente, ritenendo che i fenomeni che traspaiono nel rapporto con il malato non sono "sintomi" o sindromi ma modificazioni di senso dell’esistenza, vissuti, modi di essere, progetti di mondo. Questa è una psicopatologia che si spinge oltre i limiti epistemologici della fenomenologia soggettiva jaspersiana, che descrive e analizza da un punto di vista formale le esperienze vissute e la soggettività dell’altro ma che si arena di fronte alle esperienze psicotiche, intese come incomprensibili e quindi estranee a qualsiasi tentativo di interpretazione nel senso di umane possibilità dotate di senso.
La fenomenologia obiettiva, invece, di derivazione heideggeriana e husserliana, "intende accedere direttamente ai fenomeni riguardandoli nella loro immediatezza semantica e nella loro radicale donazione di significato, e ciò indipendentemente dal fatto che i fenomeni in cui si tematizza l’esperienza psicotica siano soggettivamente comprensibili o incomprensibili sia nella loro dimensione orizzontale (sincronica) sia nella loro dimensione longitudinale (diacronica e genetica)" (Borgna) (3). Lo psicopatologo così orientato non considera più le esperienze psicotiche come aggregazioni sintomatologiche destituite di senso, ma come distorte modalità di "essere-nel-mondo" (in riferimento al pensiero heideggeriano) e quindi essenzialmente come disturbi della comunicazione, o sarà orientato, seguendo il filone della fenomenologia di tipo eidetico-trascendentale di Husserl, verso il ritrovamento di una Gestalt, del senso globale di quella presenza che gli sta di fronte, dell’essenza del suo mondo vissuto, dove l’intuizione eidetica di un senso, ancora una volta, non ha nulla a che fare con la registrazione dei vari sintomi ( i "sintomi" della fuga delle idee o dell’arresto del tempo, ad esempio, rispettivamente riscontrabili nel disturbo maniacale e melanconico, non appariranno più come singoli frammenti o sintomi della malattia ma come eidos del mondo maniacale e melanconico nella misura in cui fanno apparire dal loro punto di vista tutto un mondo stravolto nelle varie dimensioni intersoggettiva, corporea, temporale e spaziale).
Da questo tipo di impostazione metodologica derivano le articolazioni tematiche tradizionali della psicopatologia fenomenologica, che Dalle Luche (1) identifica nell’analisi dei processi costitutivi e costituenti del mondo soggettivo nel "sano" e nel "malato" e del loro incontrarsi; nella definizione etica dei modi autentici e inautentici di essere-nel-mondo e del loro confluire o meno nell’orizzonte del mondo-della-vita; infine nei valori di significanza dei vissuti abnormi, intesi come segni e non come sintomi in una prospettiva ermeneutica. Articolazioni tematiche, continua Dalle Luche, "che continuano a vivere a cotè delle procedure cliniche canoniche, attivando modalità conoscitive integrative di quelle empiriche e operative, di cui consentono di colmare le lacune nel continuo tentativo di oltrepassarne i limiti".
Sono in piena sintonia con il pensiero di S. Moravia (4) quando scrive: "L’esistenza vissuta è il luogo del bisogno di consapevolezza più che di esattezza: è il luogo della cura trasformativo-emancipativa più che della comprensione teoretica pura. Il problema della persona sofferente non è il problema della verità: è il problema del riordinamento delle proprie immagini, dei propri sensi, dei propri modi di essere e di agire secondo un sistema semantico affettivo più largo e in grado di aiutare il sofferente dai propri condizionamenti, dai propri fantasmi e ossessioni; è, questo, un obiettivo per il quale il medico deve farsi nello stesso tempo ermeneuta capace di ascoltare-interpretare circostanze, storie, indizi diretti e indiretti, e ausiliario pratico di chi, da solo, non ce la fa".
Ritengo fondamentale sviluppare il mio discorso proprio sulla "svolta ermeneutica" della psicopatologia fenomenologica, o meglio della psichiatria, così come tematizzata e sviluppata da Barison (5), e ripresa tra gli altri da Di Petta (6), Borgna (7,8) e Gozzetti (9,10), e questo perché mi sembra che sia proprio il versante ermeneutico di un certo tipo di psicopatologia e di psicoanalisi a rappresentare un interessante punto di unione e di passaggio tra queste due discipline, sia da un punto di vista teorico che da quello della prassi terapeutica.
La psicopatologia, da questa angolatura, può essere considerata, con Di Petta, tout court "scienza umana, e dunque storica, articolata attorno allo sforzo di rendere possibile una comprensione-interpretazione delle esperienze interne del soggetto, simultaneamente interne a se stesso e co-esperite, nell’incontro con il medico, da una soggettività interpretante" (6).
L’approccio ermeneutico ci porta, come sintetizza ancora Di Petta, alla consapevolezza che " l’essenza intima e profonda dei fenomeni, intesa come verità oggettiva, è inconoscibile e in attingibile" : l’unica verità possibile è quella che nasce dalla unicità e irripetibilità dell’incontro tra i due mondi dell’interprete e dell’interpretato.
La psichiatria diventa ermeneutica quando tra chi vive le esperienze interne patologiche e chi con queste esperienze si confronta si instaura un colloquio. Lo sconfinamento ermeneutico della psichiatria, scrive Borgna (3), è "quello sconfinamento alimentato dal fluire di quel torrente continuo che è l’interpretazione, per cui non esistono esperienze psicotiche e neurotiche, fissate, bloccate, immobili e inaridite, ma esiste solo una permeabilità senza fine tra le esperienze psicotiche e le esperienze di chi con le esperienze psicotiche si confronta".
Barison (2,5) individua le strutture portanti del discorso ermeneutico nel linguaggio delle metafore ("la psichiatria ermeneutica è quella che cerca di comprendere i malati con i <<come se>>"), nel circolo ermeneutico (che consiste in "un continuo divenire consistente nell’interazione del tutto sulle parti e delle parti sul tutto"), nel dialogo ermeneutico ("nel dialogo ermeneutico non ci sono un soggetto ed un oggetto, ma c’è l’incontro di due orizzonti, che si fonde in un orizzonte nuovo, costituito da un cambiamento di entrambi nel momento dell’interpretazione: si verifica un aumento di essere come dice Gadamer") e nella verità ermeneutica.
E’ questo tipo di percezione ermeneutica (fenomenologica in quanto inscritta nel senso, come la fenomenologia giustamente vuole che sia inscritto ogni discorso sull’uomo) del mondo vissuto del paziente che si ha di fronte, che permette a noi operatori di incontrarlo e di trasformarlo in senso dialettico e dialogico. Il valore terapeutico di un atteggiamento psicopatologico ermeneuticamente fondato sta nella possibilità di introdurre una dimensione di senso che apra, nel contesto di un rapporto dialogico, a possibili rimandi significativi, al mondo-degli-altri.
Nel suo testo "I conflitti del conoscere" (7) Borgna accenna al problema dei rapporti tra fenomenologia e psicoanalisi e scrive: " Se consideriamo il conoscere fenomenologico come conoscere fenomenologico-ermeneutico, com’è possibile fare, in questo si inserisce anche il conoscere psicoanalitico. Come acutamente ha osservato Cramer i modelli epistemologici in psicoanalisi si suddividono in un modello scientifico fondato sulla scissione tra "soggetto" e "oggetto" e ancorato al metodo di conoscenza delle scienze naturali, in un modello ermeneutico fondato sulla ricerca e sulla interpretazione del senso e in un modello intersoggettivo che immerge il conoscere nel formarsi e nel costituirsi della relazione tra analista e paziente".
E’ opportuno sottolineare che la tradizione di mettere accanto i due approcci, come ci ricorda Gozzetti (10), risale proprio alle analisi fenomenologiche di Binswanger. " Il processo ermeneutico della psicoanalisi, secondo Binswanger, si compone di tre operazioni: la prima è l’euristica che si basa sul procurarsi il materiale per il compito, sia quello costituito da contenuti verbali come sogni e associazioni, sia quello mimico-espressivo come gesti, mimica, tono della voce; la seconda operazione è quella critica, che consta nell’evitare interpretazioni premature o inesatte; la terza è l’interpretazione che riguarda una sistemazione del materiale da interpretare, sul quale poi cercare un senso con accostamenti, comparazioni, esplicazioni ipotetiche, fondate sull’esperienza dello psicoanalista. Si costruisce così, sempre per Binswanger, un circolo ermeneutico…. L’ermeneutica psicoanalitica, continua Binswanger, ha come suo fine un nuovo modo di comprendere che arricchisce , con un metodo "scientifico" (dove scientifico sta per rigoroso proprio alle scienze umane e non sperimentale), quella conoscenza profonda dell’uomo che, fino allora, sembrava riservata alla grande poesia".
La psicoanalisi si caratterizza come disciplina ermeneutica nel momento in cui, come propone Schafer (citato in Gozzetti, 9) il concetto di narrativa tende a spostare l’enfasi della relazione analitica dall’approccio neutrale dell’interpretazione freudiana al soggettivismo della costruzione compartecipata. Spence a sua volta (citato in Gozzetti, 9) , riporta queste parole illuminanti:" La direzione presa da questo indirizzo (psicoanalitico-ermeneutico) è dunque ermeneutica, soggettiva e fenomenologica; si può aggiungere, ancora, che essa tende verso una dimensione estetica, con una percezione attenta alla totalità, non focalizzata e non penetrante, aliena dal possedere, capace di rimanere nell’ambiguità e di riuscire a provare il senso della scoperta e della sorpresa di fronte alle peculiarità di una vita e di una storia".
La "verità narrativa" di questo tipo di pensiero e prassi psicoanalitico ha a che fare con una sorta di soddisfacimento estetico prodotto dall’interpretazione, in essa c’è spazio per l’invenzione, e comunque è tesa a rivelare ciò che sta dietro al sintomo, una storia o un frammento di storia interiore. La psicoanalisi post kleiniana, soprattutto nel pensiero di Meltzer, pone la propria attenzione ad un modello di conoscenza sempre meno esplicativo e sempre più descrittivo della realtà del paziente nel presente immediato del suo mondo interno. Meltzer (11) afferma che : "il metodo psicoanalitico non tende a cercare soluzioni come un puzzle, ma elabora le speranze e i desideri infantili che a mano a mano si disilludono e vanno abbandonati, in una continua elaborazione di lutti. E ciò avviene a favore di una capacità negativa, quella di tollerare l’ignoto, di vivere nelle incertezze, senza accorrere affannosamente a cercare spiegazioni". "Queste posizioni", commenta Gozzetti (9), "permettono di accostare il metodo comprensivo e fenomenologico di Jaspers e di Minkowski, e certi aspetti del pensiero di Binswanger, al metodo psicoanalitico: con la differenza che la descrizione e penetrazione del vissuto tiene conto, nella psicoanalisi, anche della dimensione inconscia, riattivata nell’hic et nunc della seduta o dell’intervista".
Mario Trevi (12), a sua volta, riconosce nell’ermeneutica lo specifico della psicologia analitica junghiana, l’elemento che la differenzia dalle altre "psicologie". In Jung, infatti, è vivo il problema della presenza ineliminabile del soggetto ricercante nell’oggetto della ricerca psicologica, "dell’interprete nei confronti del testo da interpretare, riconoscendo che non c’è testo "oggettivo", staccato e indifferente all’interprete, ma che testo diviene qualsiasi testimonianza del mondo della vita nel momento in cui un interprete l’assume nel suo orizzonte di senso". Il messaggio della psicologia junghiana non è una dottrina, ma un’apertura, e tale apertura si ripercuote sulla nozione junghiana di simbolo. Scrive ancora Trevi : " Per Jung la psicologia è un atto di interpretazione che, restando nell’ambito della storia e della finitudine, fa arretrare, con altri simboli, i significati dei simboli che altri uomini hanno costruito nel tentativo di comprendere quell’enigma che è l’uomo stesso. La psicologia è dunque la continua costruzione di un universo di linguaggio simbolico, o, per meglio dire, metaforico (il pensiero ri-corre subito a Binswanger e a Barison) che, mentre non pretende affatto di esaurire l’enigma attorno a cui si travaglia, lo interpreta via via aderendo ai limiti e all’intenzione dell’interprete, rispettando la storicità e la concreta esistenzialità di quest’ultimo. La psicologia è linguaggio metaforico che schiude di volta in volta un nuovo orizzonte di comprensione e immediatamente ne riconosce i limiti, permettendo e al contempo appellandosi ad altri possibili orizzonti di comprensione". Qui muta radicalmente il concetto medico di psicoterapia, medico e paziente essendo chiamati a interrogarsi reciprocamente, a farsi ognuno interprete dell’altro. Ancora Trevi : "l’uomo è il testo che interpreta il suo interprete; l’analizzando è il testo che occorre liberare, nell’atto interpretativo, perché possa, interpretando l’analista, riacquistare ogni sua originaria libertà interpretativa, che è la stessa possibilità che lo fonda categorialmente come uomo integro e libero". Ritroviamo, in queste parole e in tutta la loro pregnanza di significato, i concetti di circolo ermeneutico, di dialogo ermeneutico e di verità ermeneutica.
Per Blankenburg (13) la comprensione e la comunicazione ermeneutica rappresenta il territorio di convergenza della Daseinanalyse e della psicoanalisi nella psicoterapia degli schizofrenici. In particolare l’Autore richiama il modello di G. Benedetti della "comunicazione psichiatrica" come elemento comune di fondo.
Per Benedetti (14) l’"essere-con" il paziente è, nella terapia delle psicosi, la risposta del terapeuta all’esistenza negativa del paziente, è l’"abbraccio del controtransfert", ossia la condivisione dell’esperienza del paziente diretta alla positivizzazione del vissuto psicotico.
Anche per Resnik nell’esperienza del transfert e del controtransfert sia il terapeuta che il paziente mettono in gioco la propria identità: il fattore terapeutico fondamentale è la possibilità di un riconoscimento reciproco nella relazione. Tale riconoscimento è sempre attuale e irripetibile, per cui la teoria non è mai data una volta per tutte, ma si crea e si ricrea solo nel rapporto dialogico con l’altro.
Una psicoanalisi di questo tipo condivide, quindi, con l’atteggiamento fenomenologico la mancanza di una tecnica specifica, se non intendendola, appunto, nella metodologia ermeneutica di cui abbiamo parlato. Sul piano psicoterapico la fenomenologia, con le sue applicazioni in campo psicopatologico, e la psicoanalisi condividono l’importanza del vissuto del soggetto e dell’incontro inteso in senso ermeneutico, dialogico, producendo una rilettura della nozione di transfert e di controtransfert che tende a sovrapporsi al concetto fenomenologico di Mit-Dasein.
L’atteggiamento (psico)terapeutico della psicoanalisi e della fenomenologia nel contesto istituzionale
L’Autore che più di ogni altro a mio avviso caratterizza il suo lavoro in direzione di una decisa convergenza di psicoanalisi e fenomenologia è G. Benedetti. Nella sua opera mi sembra di poter individuare alcuni elementi che, caratterizzanti in modo specifico e altamente "specialistico" l’incontro psicoterapeutico con il paziente psicotico, siano trasferibili, riscontrabili anche in un setting diverso da quello psicoterapico stretto ( penso ad esempio alle strutture intermedie in cui lavoro) ma che comunque definiscono un importante atteggiamento terapeutico condivisibile da molti operatori.
"Atteggiamento" terapeutico, quindi, che spesso noi psichiatri o psicologi impariamo dagli altri operatori, che emerge spontaneamente da questi durante la discussione sul nostro quotidiano lavoro: un modo di stare con il paziente che spesso si traduce in immagini, metafore che ci permettono di vedere il paziente da un altro, nuovo punto di vista, che riassumono il senso di un incontro con il paziente che si fa terapeutico nel momento in cui viene vissuto all’insegna di una apertura al senso del mondo di chi ci sta di fronte, anche se lontano da una teoria precostituita. Riconosco in tale atteggiamento una chiara matrice fenomenologica (ma che sostanzia come abbiamo visto anche un certo modo di fare psicoanalisi, al di là di una teoria o tecnica specifica), nel momento stesso in cui, mettendo tra parentesi ogni problema di fondazione causale, si rivolge al confronto con la realtà della condizione umana psicotica riflettendo oltre che sul senso delle esperienze patologiche anche sul modo con cui il malato le affronta e le elabora. L’osservazione fenomenologica diventa una visione antropologica quando avviene nel contesto di un rapporto umano interpersonale, quando si osserva l’altro "dal di dentro", ascoltando quello che ci dice ma anche i palpiti del suo cuore: "orientamento" che non può che rivelare una sua profonda vocazione etica.
Benedetti (14) propone che "la prima interpretazione indiretta di un comportamento schizofrenico consiste nella reazione affettiva del terapeuta ad esso; ossia qualcosa di più fondamentale che non un giro del pensiero, il quale guarda dal di fuori quel comportamento, oggettivandolo per spiegarlo al paziente". Bisogna comunicare un vissuto terapeutico positivo, di speranza che possa neutralizzare quello negativo del paziente. "Essere-con" è la risposta nostra all’esistenza negativa del paziente; il compito dello psicoterapeuta di fronte all’ Io psicotico, ma direi di qualsiasi operatore che si confronta con lo psicotico, è, prima di interpretargli i sintomi, quello di stare con lui nei suoi sintomi, è quello di vivere affetti-emozioni con il paziente che egli può esprimere solo nei sintomi.
Riporto, in conclusione, alcune considerazioni di questo Autore sul significato del rapporto terapeutico con il paziente psicotico, che trovano una indiscutibile eco nel pensiero e nella prassi dell’approccio fenomenologico-antropologico: "In ultima analisi non è una teoria psicoanalitica della psicosi, quanto piuttosto l’introduzione di una dimensione antropologica nel trattamento di un morbo psichico deantropologizzante per eccellenza, che viene riflessa dalla nostra terapia. In fondo essa si basa sui parametri più semplici e più fondamentali della comunicazione, di cui l’ascolto, il saper ascoltare, è il paradigma più frequente. Talora il terapeuta si limita, ascoltando il suo paziente e le traversie infinite del suo calvario, ad un commento discreto che solo riflette la propria partecipazione affettiva agli stralci del diario psicotico, e che è semplicemente un contrappunto della nostra compassione. E’ un commento che scandisce i racconti del paziente con i battiti della nostra presenza. Non è "tecnica", anche se da esso può nascere una tecnica; anche se esso, cioè, può essere adoperato coscientemente. La sua origine sta però al di là della tecnica, in quella disposizione all’ascolto, che si prova o non si prova di fronte a certe cose. Percepito dal paziente come una goccia d’acqua nell’aridità del suo deserto, respinto dalla roccia della resistenza che lo seppellisce, esso poco a poco feconda il deserto e scava la roccia. Al di là di ogni interpretazione, è tuttavia il fondamento di questa".
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