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Il trattamento antipsicotico con neurolettici classici: l’esperienza del paziente

15 Ott 12

Di David-Titelman

Questo lavoro è stato sostenuto da finanziamenti del Consiglio Svedese per la Pianificazione e il Coordinamento della Ricerca (Forskningsrådsnämnden, FRN) e dal Fondo del Consiglio Territoriale di Stoccolma per la Ricerca e lo Sviluppo.

L’autore è psicoanalista didatta presso la Società Psicoanalitica Svedese e psicologo ricercatore presso: "The National Centre for Suicide Research and Prevention of Mental Ill-Health" Box 230, S-171 77 Stockholm, Sweden".

E-mail: <david.titelman@ipm.ki.se>

 

Sedici pazienti psichiatrici sono stati intervistati a proposito dei trattamenti neurolettici cui erano stati sottoposti. Cinque pazienti avevano assunto neurolettici classici a basse dosi per meno di sei mesi, sei pazienti per più di cinque anni e altri cinque avevano interrotto precedenti trattamenti a lungo termine. Mentre i primi sottolineavano che la terapia neurolettica era una una fonte di sicurezza gli altri si lamentavano degli effetti collaterali e del fatto che il trattamento non migliorava le fantasie aggressive e di rabbia portatrici di ansia.

 

Temendo la ricaduta psicotica, molti soggetti affrontarono il dilemma se continuare o meno il trattamento. Verranno qui di seguito discussi aspetti suicidari e aspetti masochistici della compliance al trattamento tra i pazienti psichiatrici, dal momento che vi sono differenze tra i sottogruppi diagnostici nel far fronte agli effetti dei neurolettici classici.

 

Il trattamento antipsicotico con neurolettici classici: l’esperienza del paziente

Lungo l’era neurolettica, dagli anni ‘50 ad oggi, l’efficacia del trattamento farmacologico nell’alleviare i sintomi psicotici ha stimolato un grande ottimismo tra i clinici. Una vasta letteratura si è concentrata sugli effetti benefici dei farmaci neurolettici. Nonostante sia ben documentato uno spettro di effetti motori indesiderati del trattamento, dovuti all’azione antagonista sui recettori dopaminergici, tanto da far raccomandare l’impiego di dosaggi minimi efficaci in modo da minimizzare tali effetti (von Knorring, 1992), la prevalente opinione psichiatrica resta convinta del fatto che i vantaggi per il paziente psicotico sottoposto a trattamento neurolettico siano maggiori degli svantaggi (Hedaya, 1996).

Questo ottimismo terapeutico contrasta con la prospettiva più critica dei pazienti trattati. Nelle registrazioni autobiografiche o nelle interviste con pazienti sotto trattamento o ex-pazienti precedentemente trattati con neurolettici, l'attenzione spesso non è rivolta solo su effetti positivi e effetti indesiderati esternamente osservabili, ma anche sulla sofferenza soggettiva che è difficile per i pazienti comunicare ad altri (Barnes e Berke, 1971; Vonnegut, 1975; Molin, 1992). Tipiche formulazioni contenute in questi relazioni dicono che il farmaco fa sentire "confinati in un vaso di vetro", che non si è più padroni delle proprie emozioni e personalità e che lo staff psichiatrico ed altri spettatori di frequente non si rendono conto che la medicazione ha conseguenze tanto avverse.

In un ampio studio nell’area scandinava, Lingjaerde, Ahlfors, Bech, Dencker, e Elgen (1987) riconobbero le difficoltà di valutazione degli effetti indesiderati soggettivi dei farmaci psicotropi e la discrepanza tra giudizio dei pazienti e dei medici. A confronto dei pazienti, i medici tendevano a sottovatutare reazioni massive; mentre per effetti meno marcati avveniva il contrario. Per esempio, i dottori prendevano nota di leggeri segni di discinesia tardiva con frequenza maggiore dei pazienti stessi. Van Putten (1974) ha classificato i pazienti in due gruppi, come responders sintonici o disforici. Mentre i responders sintonici reagivano al trattamento con neurolettico a bassa potenza (tiotixene) con commenti del tipo: "non mi sento più minacciato" o "mi mette la mente a fuoco" (p. 189), i responders disforici perdevano la loro capacità di concatenazione lineare del pensiero e sentivano le loro condizioni peggiorate dal trattamento. Più tardi questi ultimi avrebbero rifiutato qualsiasi farmaco antipsicotico (cfr. anche Van Putten, May, Marder e Wittman, 1981); Weiden et al. (1989) confermarono la correlazione tra reazioni disforiche precoci e successiva non-compliance in pazienti che erano stati trattati con aloperidolo. Basandosi sugli studi di Strauss (1989), Awad (1993) notò che l’esperienza personale del paziente non è comunemente indagata nelle ricerche sul trattamento con neurolettici. Egli evidenziò che lo stato soggettivo alterato del paziente dipende da un’interazione tra la farmacocinetica e un insieme di fattori psicosociali quali le caratteristiche demografiche, i tratti caratteriali, gli effetti extra-piramidali, le reazioni depressive e l’attitudine verso la salute e la malattia.

In uno scritto sulla disforia da neurolettici Emerich e Sanberg (1991) annotarono che sebbene sia vero che i farmaci hanno portato sollievo a pazienti affetti da schizofrenia e altri disordini, l’aloperidolo ed altri neurolettici causavano anche sedazione, disturbi extra-piramidali, catalessia, incremento ponderale, depressione, attacchi d’ansia e ottundimento cognitivo. Questa affermazione è stata consolidata dalle osservazioni di Bignami (1991) sulla disforia da neurolettici indotta sperimentalmente in animali, e da Harrow, Fichtner, Grossman, Yonan, e Sand (1991) sulla depressione non riconosciuta tra i pazienti schizofrenici trattati con neurolettici. Ha inoltre sostenuto Hollister (1992) nel riconoscere che gli effetti indesiderati dei farmaci psicotropi sono ben noti, e a reiterare l'ipotesi che il paziente tollererà meglio i neurolettici quanto più saranno gravi le sue condizioni. Hollister scriveva che "Bisogna essere pazzi, letteralmente o figurativamente", per assumere questi farmaci (p. 531).

In esperimenti nei quali i ricercatori hanno testato su sè stessi dosi relativamente basse di aloperidolo (Belmaker e Wald, 1977; Kendler, 1976), i risultati puntavano nella stessa direzione: il soggetto-sperimentatore provava ansia, perdita di controllo motorio, e un blocco delle funzioni cognitive, emotive e volitive, cioè quello che in termini psicoanalitici verrebbe descritto come una perdita di funzioni dell'Io. Tuttavia, in uno studiobasato su trattamenti casuali su soggetti sani(Di Mascio et al., 1963a, 1963b) i risultati erano in qualche modo diversi: mentre singole dosi di diversa entità di cloropromazina provocavano sedazione, disturbi delle funzioni vegetative, psicomotorie e cognitive, e una certa tendenza verso il ritiro sociale, dosi equivalenti di perfenazina e trifluperazina portavano ad una leggera psicostimolazione e ad una maggiore velocità nell'eseguire compiti cognitivi. Analogamente King e Henry (1992) hanno osservato migliori tempi di reazione in soggetti normali cui era stata somministrata una dose sperimentale (1 mg) di aloperidolo.

La psicoanalisi fornisce un metodo per studiare aspetti consci e inconsci dell'esperienza soggettiva, e inoltre offre una teoria dei loro fondamenti nel corpo. Eppure studi psicoanalitici sul trattamento farmacologico nel disturbo mentale sono scarsi. Azima (1959) e Ostow (1962) ipotizzarono che i neurolettici modificassero l'intensità delle energie psichiche, innanzitutto l'aggressività. Applicando la teoria psicoanalitica in modo più strettamente psicologico, Sarwer-Foner (1957, 1963) sottolineava che le influenze psicologiche dei farmaci neurolettici interagiscono con fattori come le risorse personali del paziente (la forza dell'Io che deve esistere indipendentemente dal fatto che il paziente possa essere psicotico), l'immagine che il paziente ha di sè, l'ambiente in cui avviene il trattamento, e la relazione terapeutica. Una inibizione, farmacologicamente indotta, a esprimere impulsi può essere sperimentata da un individuo come sostegno alla sua capacità di autocontrollo, mentre un'altra persona può sperimentare lo stesso effetto farmacologico come una perdita della capacità di agire pienamente o come una castrazione.

L'influenza del controtransfert in rapporto al trattamento neurolettico fu illustrata per mezzo della non rara situazione in cui un terapeuta, che provava paura o antipatia per un paziente, sentiva che almeno dava qualcosa al paziente prescrivendo il farmaco. In situazioni del genere, come Sarwer-Foner scriveva (1963), il farmaco viene usato per minimizzare il contatto del medico col paziente, e quest'ultimo può interpretare propriamente il trattamento come un segno del disinteresse o della paura del medico. Questo può contribuire ad un'esperienza della sostanza come "cattiva" o "velenosa" (p. 227). Nevins (1990) ha elaborato il modello multifattoriale di Sarwer-Foner riguardo a come il farmaco viene vissuto e, rifacendosi a Winnicott (1956) e ad Hausner (1985), rimarcava la funzione del farmaco come "oggetto transizionale" e una sorgente psicologica di sicurezza.

L'obbiettivo del presente studio è l'esplorazione di come i pazienti psichiatrici esperimentano consciamente ed inconsciamente il trattamento con basse dosi di neurolettici ad alta potenza. Il lavoro aspira a raccogliere le esperienze individuali così come modelli di esperienze entro e tra i sottogruppi, in un modo che renda conto della complessità del soggettivo.

Metodo

Procedura

Tre gruppi di pazienti psichiatrici (pazienti con essordio recente e breve esperienza di trattamento neurolettico; pazienti cronici con esperienza di trattamento neurolettico prolungato; pazienti "reduci", che hanno usato neurolettici nel passato e cessato il loro trattamento farmacologico) sono stati intervistati da uno dei due intervistatori. Entrambi questi ultimi sono psicoanalisti con ampia esperienza psichiatrica, l'uno come psicologo clinico e l'altro come psichiatra. Ogni intervistatore ha incontrato la metà dei soggetti di ogni gruppo.

I pazienti sono stati intervistati tre volte entro un periodo di 2-4 settimane. Gli incontri duravano 30-60 minuti, in funzione della capacità del soggetto di sostenere il dialogo, venivano registrati con apparecchio audio e riassunti in una nota scritta di 2-3 pagine.

Questi sommari riguardavano background, carattere, diagnosi, aspetti transferali e controtransferali che emergevano durante l'intervista, un profilo farmacologico preciso attuale e remoto, comprendente tipo di farmaci, posologie, e gli aspetti consci e inconsci dell'esperienza del trattamento farmacologico.

Per identificare possibili pregiudizi capaci di influenzare la descrizione delle esperienze riferite dai partecipanti, gli intervistatori hanno scrutinato ognuno i riassunti dell'altro. Curiosamente lo psicologo tendeva a formulare interrogativi relativi a meccanismi somatopsichici sconosciuti più di quanto facesse lo psichiatra. A parte questo non sono state rilevate differenze sistematiche tra le due serie di rapporti. Entrambi gli intervistatori hanno notato in parecchi partecipanti una tendenza ricorrente (connessa con aspetti transferali) secondo cui inizialmente venivano criticati i trattamenti farmacologici nella convinzione che questo fosse ciò che gli intervistatori desideravano sentirsi dire.

Soggetti

Il Gruppo 1 (pazienti di recente esordio) e il Gruppo 2 (pazienti cronici) erano stati reclutati attraverso un servizio psichiatrico in un quartiere di Stoccolma mentre il Gruppo 3 attraverso una organizzazione nazionale di pazienti. I pazienti del Gruppo 1 erano più giovani degli altri (età media 21 vs. 42 e 47). I pazienti recentemente ammalatisi (Gruppo 1) provenivano dalla borghesia medio-alta, mentre i partecipanti nei gruppi dei cronici e dei veterani venivano dalla piccola borghesia e dalla classe lavoratrice.

Dato che il farmaco neurolettico era frequentemente associato con altri (altri neurolettici, antidepressivi e ansiolitici) è stata abbandonata l'idea iniziale di reclutare partecipanti che assumessero (o avessero assunto) solamente neurolettici classici a basse dosi. Nella seguente tabella 1 vengono riportatate diagnosi e terapia.

 

 

Tabella 1

Sigla Paziente, Età, Sesso, Diagnosi e Terapia psicofarmacologica nota

Gruppo 1

Group 2

Group 3

     

A, 31 (f): 
Disturbo psicotico breve 
(flupentixolo, tioridazina)

F, 32 (f): 
Schizofrenia
(perfenazina, 
tioridazina, orfenadrina)

M, 53 (m):

Disturbo schizoaffettivo (clorpromazina, clozapina, 
litio, perfenazina, pimozide, trifluoperazina)

B, 19 (f):

Disturbo psicotico 
(perfenazina)

G, 46 (f):

Disturbo schizoaffettivo 
(levopromazina, orfenadrina, perfenazina, propiomazina)

N, 45 (f):

Schizofrenia 
(flufenazina, aloperidolo, 
litio, orfenadrina,
perfenazina, tioridazina, zuclopentixolo)

C, 33 (m):

Disturbo psicotico
(aloperidolo, orfenadrina, propiomazina)

H, 47 (m):

Disturbo psicotico esplosivo
(clorpromazina, levopromazina, perfenazina, tioridazina)

O, 55 (m):

Disturbo affettivo con episodio psicotico
(clorpromazina, aloperidolo, perfenazina)

D, 21 (f):

Disturbo psicotico dell’umore 
(perfenazina)

J, 42 (m):

Disturbo delirante
(aloperidolo)

P, 38 (m):

Disturbo delirante
(aloperidolo, perfenazina, flufenazina, zuclopentixolo)

E, 22 (f):

Disturbo psicotico
(flupentixolo, tioridazina)

K, 25(f):

Disturbo delirante 
(aloperidolo, levopromazina, 
tioridazina)

Q, 41 (m):

Disturbo ossessivo-compulsivo
(clozapina, flupentixolo, aloperidolo, levopromazina, litio, perfenazina)

 

L, 42 (m):

Disturbo schizofreniforme (clorpromazina, clozapina, aloperidolo, perfenazina, tioridazina, zuclopentixolo)

 
 

 

Gruppo 1 : il gruppo a esordio recente

I partecipanti (un uomo e quattro donne) avevano un'età compresa tra 19 e 33 anni. Nessuno appariva manifestatamente psicotico al momento dell'intervista, mentre tutti si mostravano fortemente ansiosi e inibiti. Essi sembravano spaventati dalla recente esperienza psicotica, si trovavano a contatto con la psichiatria per la prima volta nella loro vita e risentivano di essere esposti una volta in più di fronte ad una figura psichiatrica. Circa il 50% degli individui con un breve trattamento neurolettico che furono contattati rifiutarono di partecipare alle interviste. I cinque in questione che acconsentirono a partecipare allo studio erano sottoposti a trattamento neurolettico da 3 a 10 mesi ( in media 6 mesi)

Gruppo 2: il gruppo dei cronici

Le tre donne e i tre uomini del gruppo dei cronici avevano età compresa tra 25 e 47 anni. Si presentavano più marcatamente disturbati dei soggetti del Gruppo 1. In due casi si evidenziarono segni psicotici durante l'intervista. Tutti erano fortemente sedati e avevano difficoltà a elaborare ed esprimere pensieri e sentimenti. Il loro trattamento neurolettico perdurava da 7 a 21 anni, con una media di 13.5 anni.

Gruppo 3: il gruppo dei reduci

Inizialmente il nostro studio ci sembrò impossibile a causa dalla condizione di costrizione e chiusura del Gruppo 1 e dallo stato di sedazione del Gruppo 2. La soluzione venne dal reclutamento del terzo gruppo: pazienti reduci da un trattamento neurolettico che avevano cessato la terapia. Essi non si presentavano nè acutamente ansiosi nè disturbati dall'effetto di un trattamento farmacologico in corso.

I quattro maschi e la donna del Gruppo 3 avevano età compresa tra 38 e 53 anni, cioè leggermante più vecchi dei membri del gruppo 2. Il periodo di trattamento con neurolettici, prima del termine della terapia farmacologica variava da 2 a 24 anni, con una media di 10,4 anni. La costellazione temporale di ognuno è indicata qui di seguito, con gli anni di trattamento e -tra parentesi successivamente- gli anni trascorsi dal trattamento stesso al momento dell'intervista: 2(18), 2(23), 11(0.4), 13(6), 24(0.8). Una sesta persona dell'originale Gruppo 3 ritirò il suo consenso ad utilizzare i dati forniti, per il timore che questi, resi pubblici, potessero danneggiarla.

Risultati

Esperienze caratteristiche nei gruppi

Il seguente frammento di intervista con B mostra la costrizione che era tipica nel Gruppo 1, ad esordio recente. Mostra inoltre l'importanza che il farmaco assume come fonte di sicurezza per questa giovane.

B, 19enne e studentesssa alle superiori, trattata con perfenazina per 6 mesi (la dose non potè essere appurata), inizialmente non diceva nulla. Si sentiva vuota di pensieri ed emozioni, ma le premeva cooperare con coloro da cui si sentiva dipendere per poter star meglio, e tra questi comprendeva l'intervistatore. B era contenta del fatto che presto la dose sarebbe stata diminuita, anche se non era stata soggetta ad alcuno spiacevole effetto collaterale. In lei era centrale il desiderio di esser normale e considerava il farmaco utile e d'aiuto in questa direzione. Esso migliorava l'autocontrollo e le permetteva di stare a casa e a scuola in una condizione "sufficientemente" normale.

Sebbene i partecipanti del Gruppo 2 dei cronici fossero desiderosi di condividere la loro sofferenza con l'intervistatore, i loro pensieri e il linguaggio erano ottusi, a seguito dell'azione farmacologica. Il seguente riassunto fu scritto dopo ripetuti ascolti della registrazione del colloquio con G, una donna di 46 anni affetta da un disordine schizoaffettivo e trattata con neurolettici da oltre 20 anni. Il materiale rivela l'interazione tra il disturbo primario, l'azione biochimica del farmaco e i suoi significati simbolici. G considerava il farmaco come qualcosa di buono -ancora una fonte di sicurezza- ma anche come una fonte di male.

Il trattamento di G consisteva in 12 mg/die di perfenazina, 75 mg/die di propiomazina, levopromazina a dosaggio non determinato ed un farmaco anticolinergico. Ginoltre beveva una moderata quantità di birra quotidianamente. Non c'è da sorprendersi se ella apparisse instupidita e opaca. La sua vita era ben lontana dai suoi ideali e desideri, e si sentiva deprivata della capacità di far qualcosa in quel senso. Era convinta che i farmaci avessero messo fine ai suoi interessi sessuali. Era lacerata tra l'aprirsi alla propria sessualità o alla rabbia, e quest'ultima a volte la "faceva diventare matta", e accettava di essere sovratrattata, il che la impoveriva psicologicamente. Un residuo del Sè libidico di G si rifletteva attraverso sentimenti positivi verso l'intervistatore, ma questi erano talmente assottigliati da essere discernibili attraverso la sonnolenza solo dopo ripetuti riascolti del nastro registrato. L'intervistatore annotava chiedendosi: come apparirebbe il desiderio di contatto di G senza farmaco? Nascosto dietro il caos e lo splitting psicotico? Soggiogato dietro una futilità difensiva? Dal trattamento farmacologico G ha guadagnato più di quanto ha perso?

Sebbene i reduci, come atteso, non si presentavano acutamente ansiosi nè sedati, anch'essi imposero una problematica alla ricerca. Due dei cinque di questo gruppo si dimostrarono in effetti essere non ex ma effettivi assuntori cronici di neurolettici. Inoltre il reduce che aveva da tre mesi interrotto il trattamento riprese ad assumere perfenazina al tempo dell’intervista, preso dalla paura di una ricaduta. Un altro soggetto del Gruppo 3, N, una donna particolarmente intelligente, che per dieci mesi aveva combattuto per mantenere il proprio equilibrio senza i farmaci, ebbe una ricaduta psicotica e venne ricoverata e risottoposta a terapia farmacologica con neurolettici poco dopo le interviste. Una terza persona era stata esclusa nella fase iniziale del reclutamento per motivi analoghi, prima che si presentasse come elemento degno di nota quello che definiremo il dilemma dello svezzamento da neurolettici.

Il dilemma dello svezzamento da neurolettici

Dopo anni i pazienti sono abituati al trattamento. La vulnerabilità alla psicosi sembra proporzionale alla durata del trattamento avvevnuto, anche per ragioni psicologiche (Gilbert, Harris, McAdams, e Jeste, 1995; Ventura, Neuchterlein, Pedersen-Hardesty, e Gitlin, 1992).

Per i soggetti dei Gruppi 2 e 3, arrendersi al bisogno del farmaco aveva la qualità soggettiva della rassegnazione o dell'identificazione con l'aggressore (A. Freud, 1937/1966). I partecipanti di questi gruppo affermarono ripetutamente che il trattamento li aveva resi malati in un modo nuovo. Eppure la gran parte continuava ad assumere i farmaci.

Compliance e masochismo

La generale e diffusa ambivalenza verso il trattamento psicofarmacologico suggerisce che il termine compliance è, in questo contesto, un eufemismo (cfr. Baldessarini, 1994). L, un paziente psichiatrico da 22 anni, che sembrava trarre gratificazione dalle avversità, fu uno dei molti parteciipanti che sollevò questioni riguardanti autodistruttività e masochismo quali fattori attivi dietro la compliance al trattamento. Con il termine masochismo, qui, ci si riferisce sia al ricavare piacere dal dolore sia al senso addizionale suggerito da Freud (1924/1961) per denotare una pulsione primaria autodistruttiva divenuta erotizzata.

L raccontò che inizialmente aveva accettato di assumere clorpromazina, dato che era stata prescritta da un medico. Il trattamento tuttavia gli procurava crampi e lo faceva sentire male nel profondo. Lo psichiatra giudicò che questi sintomi fossero dovuti dalla malattia mentale di L, piuttosto che effetto del farmaco. Questa situazione scissionale culminò in un tentativo di suicidio per defenestrazione dal quarto piano, dopodichè L fu trattato con perfenazina e aloperidolo per via parenterale, durante il ricovero d'emergenza. crede sinceramente che il trattamento lo rese più psicotico. Essendo sopravvissuto al volo, pensò di essere Gesù Cristo. Recentemente a L è stata proposta la clozapina. Spera che il nuovo farmaco finalmente lo curerà, anche se resta molto critico sui farmaci in generale e non raccomanderebbe un trattamento neurolettico mai e a nessuno. Disse che piuttosto raccomanderebbe la psicoterapia, contraddicendo una sua precedente osservazione che la psicoterapia non gli aveva dato nulla di buono (l’intervistatore aveva colto in questo un commento critico diretto a lui merdesimo in quanto psicoanalista). Il modo in cui L si atteggiava ad umiltà quando, uscendo dal luogo ove si è svolta una delle sue interviste, incontrava un medico rafforza l’impressione che la sua sottomissione sia un metodo per far fronte a sentimenti di umiliazione e rabbia.

Si potrebbe forse obiettare che L e gi altri pazienti semplicemente si sottopongono ad una terapia che è aggressiva in sè (analogamente ad un paziente che accetta un trattamento obbligato per una grave malattia somatica, ad esempio la chemioterapia antineoplastica). Questa obiezione sembra essere confutata dal fatto che i pazienti a recente esordio, più giovani, si sentono rafforzati dal farmaco e sostenuti dai loro psichiatri. Anche i soggetti a lungo termine accettano il loro trattamento, ma non senza deplorare amaramente gli effetti indesiderati. Almeno uno dei cronici, la 25enne K, che aveva assunto fino dai suoi 17 anni varie combinazioni di tioridazina, levopromazina e aloperidolo, dava consciamente il benvenuto al torpore indotto dal trattamento, anche questo la appesantiva in ogni senso del termine (pesava 115 Kg). Senza farmaci K aveva incubi e diveniva preda di frenetiche fantasie di abuso sessuale quando si trovava sola con un uomo.

Altre forme di erotizzazione

Ci sono molti esempi in cui il farmaco si allea con relazioni terapeutiche erotizzate, sia in senso sessuale che antisessuale. Non sono nella posizione di poter sapere in quali casi i curanti erano consapevoli di questo. I seguenti estratti mostrano come l’erotizzazione veniva ripetuta in sede di intervista.

La paziente oscillava tra la autoaffermazione e la sottomissione in molte delle sue relazioni. Dapprincipio era riluttante ad essere intervistata in ogni caso, ma dopo il primo colloquio cambiò idea. Di sua iniziativa smise di prendere la sua terapia, 200 mg di tioridazina, allo scopo, disse, di poter più intensamente percepire sentimenti sessuali e condividerli con l’intervistatore al successivo incontro. La sua eccitazione sembrava riprodurre tratti di una realzione altamente significativa con un medico, che era stata sovraccaricata sessualmente tanto da essere alla fine divenuta poco controllabile. Nella prima intervista A aveva asserito che considerava positivo il fatto che il farmaco le aveva fatto smettere la masturbazione.

Analogamente M, un reduce con quadro maniaco depressivo e episodi psicotici, che aveva usato neurolettici per 13 anni e ne aveva fatto a meno per gli ultimi 6 anni, si sentiva stimolato dall’essere intervistato e dal ruolo di testimone esperto che veniva a ricoprire. Disse e ridisse, abbastanza aggressivamente, che gli piaceva l’intervistatore e che considerava l’interesse di quest’ultimo per lui stesso molto gentile e di cuore. L’intervistatore trovò difficoltoso concludere l’intervista con all’ora convenuta senza sentirsi brusco. Percependo l’eccitamento di M era preoccupato che potesse virare verso la maniacalità e perdere autocontrollo. Mraccontò il seguente episodio:

"Dopo un episodio di rissa in un reparto, una volta mi venne iniettato aloperidolo fino a indurre convulsioni. Io supplicai che lasciassero che fosse una infermiera [specificamente una donna, ndt] a praticare le iniezioni e che mi somministrassero metà della dose prescritta in ogni natica. Ero convinto che questo avrebbe permesso una più equilibrata distribuzione del veleno nel mio corpo. Non fecero come chiedevo."

All’intervistatore parve di cogliere nella richiesta di M ai sanitari in quell’occasione anche il bisogno di mitigare il panico di essere omosessualmente abusato.

Farmaci punitivi

Sebbene la psichiatria continui ad essere compromessa da ciò che appare come un agito di controtransfert negativo, non si può sfuggire il fatto che il paziente con una personalità psicotica spesso rifiuta, a causa delle sue angoscie di vicinanza e intimità, i benintenzionati tentativi di aproccio degli altri. Inevitabilmente noi, questi "altri", ci sentiremo arrabbiati per questi rifiuti (cfr. Winnicott, 1949). Così non fu una sorpresa che molti partecipanti, come M, avessero avuto esperienza di essere stati puniti con i farmaci.

Un altro esempio è fornito da N che, in un acuto stato di confusione su chi ella stessa fosse, una volta insistette a stare stesa nel letto di un’altra paziente e rifiutava di lasciarlo in modo da "essere" quella paziente. Il personale sanitario rispose con l’iniezione forzata di aloperidolo. L’intento conscio era probabilmente semplicemente quello di interrompere il comportamento psicotico ma percepì le iniezioni come un assalto.

Rabbia immodificata

Sia che la sottomissione venga interpretata come "masochismo primario" in azione o come risposta a violenza o coercizione esterne, è in ogni caso sempre vicino alla rabbia. Inoltre l’angoscia dell’aggressività -propria o altrui- è tema ben documentato nella psicologia della psicosi (cf., e.g., Frosh, 1983; Klein, 1946/1977; Little, 1990; Pao, 1979; Vaughn e Leff, 1976).

Anche se i soggetti della ricerca generalmentre sentivano che il farmaco impediva loro l’agito di impulsi aggressivi o rabbiosi molti lamentavano che in effetti i loro sentimenti e fantasie di rabbia non venivano modificati dal trattamento farmacologico. Per esempio, (quella che voleva essere un’altra paziente), è stata trattata prima con tioridazina e in seguito con preparati depot di flufenazina aloperidolo e zuclopentixolo per 20 anni. Al tempo delle interviste si asteneva dalla terapia da 10 mesi. Voleva disperatamente riuscire a vivere senza neurolettici poichè era convinta che questi la privassero delle sue capacità di amore senza peraltro modificare i terrificanti "Führer-Arcidiavoli" ("Oberstürmdevils" nell’originale; si tratta di una costruzione linguistica della paziente stessa. n.d.t.), che era il modo in cui sperimentava certe persone sul luogo di lavoro.

N era consapevole del fatto che demonizzava certe persone. Nonostante questo esse rimanevano odiate e persecutorie anche sotto l’azione dei farmaci. In tutti i suoi affari, incontrava gravi angosce morali. I suoi sentimenti di colpa si riflettevano nel desiderio di combattere la crudeltà nella società, in impegni nel volontariato sociale e nella poesia. Ma i mezzi per realizzare le sue aspirazioni tristemente si disfacevano sotto i nostri occhi. Ella volle essere ricoverata in un ospedale senza essere trattata farmacologicamente e fu dispiaciuta dal fatto che il suo psichiatra non volesse sentirne parlare. Nella sua terza intervista Ndivenne angosciata dopo averlo criticato e alla fine disse che probabilmente è impossibile che qualcuno possa liberarsi dalla psicosi senza farmaci. L’intervistatore scrisse: "Tre settimane più tardi mi chiamò da un’ospedale, in uno stato psicotico acuto, e, sembrava, ancora influenzata dal transfert positivo sviluppato nelle interviste. Mi pregava di intervenire presso il suo curante per suggerire a quest'ultimo di interrompere la terapia, dicendogli che ella era incinta", il che poteva significare che N si sentiva doppiamente vulnerabile agli effetto tossici del trattamento.

Anche altri partecipanti descrissero come il trattamento farmacologico impedì loro di agire in modo folle, senza tuttavia agire sulle sottostanti loro rabbie e paure. Alcuni sentivano che una crepa incomponibile tra un sè interno arrabbiato e spaventato e un sè esterno che si comporta bene rendeva senza senso il trattamento. Un’ultima osservazione relativa alla combinazione di "rabbia liberamente fluttuante" e mancanza di senso (così come anche alla autodistruttività) fu la presenza di fantasie o tentativi suicidari riportati da partecipanti di tutti i gruppi.

Differenze tra sottogruppi diagnostici

E’ stato suggerito che i pazienti che sono in grado di por termine ad un trattamento neurolettico possano avere un disturbo affettivo primario piuttosto che un quadro psicotico. Questa ipotesi è confutata dai due reduci O i quali, con l’aggiunta di Q, che non aveva mai dato segni di psicosi, erano i soli soggetti del campione che avevano permanentemente abbandonato il trattamento farmacologico. Ma è stato d’altra parte chiaro che tutti i partecipanti erano tristi, il che depone per la possibilità che un tono dell’umore depressivo sia un effetto secondario del trattamento neurolettico (Harrow et al., 1991).

I racconti di M, O e su come funzionò il farmaco differivano solo nell'enfasiDi nuovo l'effetto primario era il blocco di funzioni cognitive ed emozionali. O, ad esempio, non riusciva a essere sicuro se questo stato era causato dalla malattia o dal farmaco e raccontò che certa musica che normalmente considerava splendida —sinfonie di Mozart e Sibelius— gli suonava disunita e tortuosa, come "frammenti e pezzi di trin-trun" ["plinkety-plunk bits and pieces" nell'originale, n.d.t], nel periodo in cui era sotto trattamento. Ricordava che i farmaci (clorpromazina, aloperidolo, perfenazina) lo rendevano indolente e indifferente alla sua stessa condizione. La terapia causò un'importante acatisia che era particolare fonte di sofferenza a causa della gratificazione che normalmente egli traeva dall'attività fisica, e per il fatto che lo rese estremamente dipendente dagli altri. O fu sottoposto a terapia farmacologica in seguito ad una crisi che culminò in un accesso esplosivo di rabbia. Ricorda la regressione e la sottomissione seguente la terapia come un'esperienza profondamente umiliante. Solo dopo che interruppe l'assunzione dei farmaci, con l'aiuto di uno psichiatra che prese sul serio le sue lamentele su questi effetti collaterali, O fu in grado di recuperare le sue facoltà di gioire della vita.

Discussione

I partecipanti riconobbero generalmente che i trattamenti diminuivano i sintomi deliranti e li aiutavano a controllare gli acting-out psicotici. Ma rabbia e fantasie rabbiose proiettate rimanevano nella maggior parte dei casi attive e costituivano una fonte di angoscia insensibile al trattamento. Tutti i cronici deploravano gli effetti collaterali motori e la disturbata capacità di concentrarsi su pensieri ed emozioni e coordinarli.

I soggetti del Gruppo 1 (esordi recenti) erano più favorevoli alla loro terapia dei trattati a lungo termine. Questo probabilmente riflette sia il periodo di trattamento più breve che una tendenza dei loro psichiatri ad una maggiore prudenza ed attenzione verso l'impiego farmacologico. I pazienti più giovani tendevano a considerare gli effetti antilibidici della tioridazina come un supporto.

Anche altri soggetti, in certe condizioni, accoglievano con favore l'impatto cumulativo di diversi psicotropi come un aiuto al loro auto-intorpidimento, anche se si rendevano conto che il farmaco interferiva negativamente con la loro vita amorosa. Era assai difficile differenziare l'effetto diretto del trattamento sulla sessualità dalle proiezioni di conflitti interni sul farmaco. In più, come per l'aggressività, aspetti erotizzati del modo in cui veniva sperimentato l'effetto farmacologico venivano condensati con qualità della relazione terapeutica. L'osservazione più certa riguardo l'amore fu che in nessun caso il farmaco neurolettico rafforzò la capacità individuale ad amare (o odiare) senza temerne un immenso danno.

Da un punto di vista psicologico il trattamento con i neurolettici, come agente esterno, socialmente sancito, per attaccare la mente di qualcuno, può unire le forze con la propensione psicotica del paziente all'inconscio tormentarsi e con la funzione autodistruttiva del breakdown psicotico (cfr., p.es., Bion, 1959; Searles, 1965; Pao, 1974). La sottomissione al trattamento ad alte dosi di neurolettici può infine essere un sollievo dalla vergogna dovuta all'autodistruttività e al furore, e dal senso di disperazione di essere posseduti da tali forze. Bisogna considerare il trattamento non solo come un modo di "star meglio stando male" -questa è una dimensione arcaica ed irrazionale presente in molti approcci in psichiatria- ma come un possibile suicidio spirituale assistito.

Neurolettici e suicidio

La combinazione di rabbia, angoscia che la rabbia stessa nutre, solitudine, umiliazione di essere messi K.O. dal farmaco, e l'insolvibile dilemma di continuare o interrompere il trattamento, può portare ad una situazione suicidaria. Stefenson e Cullberg (1995) arrivarono ad una simile ipotesi, precisamente che il fardello esistenziale di lungo periodo della psicosi e del suo trattamento fosse un fattore critico dietro il suicidio di schizofrenici.

Le statistiche danno corpo al fatto che il problema del suicidio tra i pazienti psichiatrici nell'era neurolettica sia un problema reale. I suicidi registrati tra i pazienti ricoverati in Svezia sono cresciuti da 50 casi (circa il 4% dei suicidi totali noti) nel 1950 a più di 200 casi (circa il 12%) nel 1979 (Swedish Board on Welfare e Health, 1985). Alnaes (1990) riportò un incremento di più di quattro volte nei suicidi in un ospedale psichiatrico in Norvegia tra il 1959 e il 1988. Ösby, Nestor, Brandt, Ekbom, e Sparén (2000) riportarono il raddoppio dei suicidi realizzati tra i pazienti schizofrenici nell'area di Stoccolma dal 1976 al 1995. Ci sono molte possibili spiegazioni dell'incremento dei suicidi tra i pazienti psichiatrici, tra le altre la riduzione dei posti disponibili per il ricovero ospedaliero (Ösby et al., 2000). Una analisi meticolosa di questa tendenza dovrebbe, tuttavia, considerare anche il ruolo giocato dal trattamento farmacologico antipsicotico. Ciò vale anche se i farmaci usati attualmente sono di nuovo tipo rispetto ai neurolettici classici.

Problemi metodologici nella ricerca psicoanalitica applicata

Organizzare esperienze complesse sotto classi discrete (rabbia, sessualità, accettazione, sottomissione, ecc.) può voler dire imporre un ordine dove questo in realtà non esiste. La semplificazione, tuttavia, è inevitabile in studi psicologici sistematici. Quando si considerano in aggiunta aspetti inconsci dell'esperienza del paziente, gli interrogativi sulla validità di una narrazione psicologica diventano ancora più pressanti. La mia opinione è che i fenomeni inconsci, ad esempio il masochismo primario, sono tanto fondamentali da poter essere generalizzati almeno ai sottogruppi di popolazione di pazienti trattati con neurolettici. La validità delle formulazioni sul ruolo dell'autodistruttività inconscia nelle modalità dell'individuo psicotico può essere valutata misurando il rilievo clinico e la coerenza con cui dette formulazioni connettono in materiale clinico disponibile e la teoria.

Ma come si fa a sapere che le esperienze inconsce inferite non sono una pura estensione delle fantasie dell'osservatore? In questo caso le inferenze sono state supportate da osservazioni su transfert e controtransfert nelle interviste. Oltre l'auto-analisi questo ha significato il riascolto dei nastri (un'aggiunta al procedimento psicoanalitico vero e propio) e lo scrutinio incrociato delle osservazioni e conclusioni dei due intervistatori. Possibili colorazioni controtransferali nei resoconti degli intervistatori (come ad es. l'identificazione col paziente inteso come vittima e l'uso inconscio di individui narcisistici o suicidofili come bersagli adatti all'esternalizzazione di propri tratti analoghi, anche se più sfumati (cfr. Volkan, 1986), sono stati discussi altrove (Titelman, 1999).

Un ultimo punto metodologico riguarda la selezione dei partecipanti. Per rendere ottimale la formazione di ipotesi, il gruppo era deliberatamente eterogeneo, entro la cornice di comprendere soggetti che erano stati trattati con neurolettici. Ma il tasso elevato di rifiuti a entrare nello studio, tra i pazienti con esordio recente contattati, ha reso il Gruppo 1 omogeneo; alla fine i partecipanti erano tutti timidi e bloccati. Conversazioni telefoniche con coloro che avevano rifiutato suggerivano che questi erano più acutamente psicotici di quelli che avevano accettato di partecipare. Se fosse stato possibile intervistarli, l'apparente maggior stato confusionale di quelli che si erano rifiutati avrebbe potuto aggiungere problematicità allo studio. Il gruppo dei reduci è stato pure selezionato in modo non pianificato. I partecipanti erano attivi in un'organizzazione di pazienti la forma ideologica della quale, fortemente contraria alla prescrizione di routine dei farmaci psicotropi, può aver contribuito a rafforzare le loro vedute critiche.

Ricerche future e considerazioni conclusive

Il ruolo dell'autodistruttività e dell'aggressività nelle psicosi, non ultima l'incapacità del paziente di trattare la propria rabbia, e le reazioni transferali che tali tendenze inducono nel curante, meritano continua attenzione nella situazione clinica e anche nella ricerca futura. Un'estensione del presente studio potrebbe essere uno sguardo su ciò che il trattamento con neurolettici significa per lo psichiatra.

Un'altro aspetto da considerare in futuro riguarda l'esperienza soggettiva del paziente dei nuovi neurolettici atipici. Ogni promessa di una cura della psicosi e della schizofrenia è accolta con grandi aspettative nella comunità psichiatrica come nella società intera. Come già accadde nel caso dei neurolettici classici c'è ora un continuo flusso di rapporti sui benefici effetti dei neurolettici atipici, compresa una diminuita incidenza del suicidio tra i pazienti schizofrenici (Meltzer e Ghadeer, 1995). Eppure rimane il rischio che i fattori emotivi forviino la pratica psichiatrica. Transfert e controtransfert difficili da contenere sono fattori potenti che influenzano chiunque interagisca con pazienti psichiatrici gravi. C'è anche il rischio di esagerazioni motivate da interessi commerciali, relative all'efficacia di nuovi tipi di terapie antipsicotiche, farmacologiche e non.

La distruttività della psicosi è una tale forma di inferno sulla terra che chiama la necessità di una mente aperta verso nuovi trattamenti antipsicotici. D'altronde un solido scetticismo a riguardo delle innovazioni deve ricordare quanto è clinicamente noto, e anche quanto emerge da questo studio. Alla persona psicotica, che è "niente", o che è come in pezzi, e che tenta invano di restaurare il suo Sè cercando di essere qualcosa di fantastico, per esempio Dio o Gesù, l'identità di paziente o lo "stato neurolettico della mente" possono esercitare un richiamo irresistibile per ragioni intrinseche, ma sono anche distruttivi e indegni.

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