D: Come prima domanda, alla quale anche il Suo intervento di oggi sulla psicoeducazione mi ha fatto pensare, vorrei chiederLe la Sua opinione sul problema della formazione medica dello psichiatra.
R: La psichiatria distaccandosi, peraltro molto opportunamente dalla neurologia negli anni 60, ha poi subito spinte sociologiche e ideologiche verso la psicologia e la sociologia. Queste hanno portato molti psichiatri a disdegnare la medicina, a "lasciare il camice" e a praticare una psichiatria, senz'altro importante, fondata da una parte sul contatto con il paziente, la comunicazione, il colloquio, l'ascolto e dall'altra sull'organizzazione dei servizi e degli interventi sul territorio, lontano dall'ospedale, quasi con una fobia dell'ospedale. Adesso c'è un ritorno al malato come portatore non solo della malattia mentale, ma anche di tante altre malattie fisiche. Spostandosi dall'Italia in altre nazioni europee o negli USA la situazione cambia. Durante primo anno di specializzazione negli USA lo specializzando in psichiatria ha un grosso carico di assistenza in reparti neurologici come le stroke unit, oppure in pronto soccorso o medicina interna, con una responsabilità diretta e un supporto più limitato da parte del medico strutturato. L'orario di lavoro settimanale è di 80 ore. Con questa formazione il giovane acquisisce una formazione medica molto solida ed è consapevole delle proprie responsabilità anche nei confronti della malattia fisica dei malati che segue. In Italia questo avviene per lo più sulla carta. Ci sono gli obblighi, ma mancano le strutture.
D: E' anche vero che è in fase di attuazione la riforma delle Scuole di Specializzazione con il passaggio della psichiatria a 5 anni di durata, con 2 anni di medicina di base�
R: Io spero che non cominci mai questa riforma, perché le strutture non sono adatte ad organizzare un sistema di tutoraggio adeguato per un numero così elevato di specializzandi adempiendo nel contempo alla valutazione, molto complessa, dell'attività svolta. Non siamo ancora preparati per qualcosa del genere. Spero che si possa esserlo presto. Sappiamo che la mortalità dei nostri malati è molto elevata, soprattutto nei disturbi bipolari e in certe forme psicotiche, e che questo non è dovuto al suicidio. L'abbassamento della vita media è dovuto anche al concomitare di malattie fisiche, dai tumori alla vasculopatie, trascurate in questi soggetti.
D: Lei ritiene che oggi le terapie psichiatriche in Italia siano scelte in maniera corretta non tanto in rapporto alle linee guida, ma in rapporto alle patologie? E si tratta di scelte intelligenti, anche in considerazione dell'impatto sulla spesa sanitaria?
R: Questo è un problema che si affronta da sempre. Siamo stati i primi ad impiegare farmaci in certe patologie. Ad esempio la clozapina l'abbiamo usata subito nei bipolari e negli schizoaffettivi e abbiamo visto che, nell'ambito delle psicosi, i pazienti che rispondevano meglio erano i bipolari. E così pure per il disturbo da attacchi di panico, per il quale fin dagli anni '70 abbiamo usato l'imipramina a dosi elevate. L'uso di farmaci off label è un dato ormai assodato e negarlo sarebbe come dire che il cortisone si deve usare solo nelle allergie. Il punto è che molto spesso non siamo accurati nella diagnosi, per via della demedicalizzazione della psichiatria in generale e di una tendenza a sottovalutare la diagnosi per vedere l'individuo con il suo problema unico e irripetibile. Io sono d'accordo che ognuno di noi ha una storia unica e irripetibile, ma la diagnosi è qualcosa di ripetibile e la malattia deve essere definita con estrema precisione, non con le rigide categorie diagnostiche di un manuale diagnostico statistico, che serve per studi epidemiologici o comunicare tra colleghi, ma con un approfondimento che veda le cose in una prospettiva lifetime. Io devo sapere che patologie un paziente ha avuto da bambino e come sono andate nel tempo. Sulla base di una definizione accurata di queste situazioni in rapporto all'ambiente e agli eventi stressanti si può caratterizzare lo stato attuale iniziando una terapia che nel 90% dei casi è un trattamento a lungo termine. Molte malattie mentali non vanno incontro a remissione o le remissioni sono parziali e anche quando ci sono si possono verificare ricadute. La terapia va dunque pensata a lungo termine, considerando un trattamento per la fase acuta e uno di mantenimento, oppure decidendo di usare sempre lo stesso farmaco. Il problema della scelta del trattamento è molto serio e non può essere disgiunto da una definizione diagnostica accurata, in psichiatria come nelle altre branche della medicina. Un assesment analitico, che valuti con precisione le patologie fisiche e gli eventi del passato viene troppo spesso trascurato, a favore di eventi più recenti. Così facendo si sottovaluta il ruolo del farmaco e non si somministra il farmaco giusto.
D: Cosa pensa delle prospettive di integrazione tra farmacoterapia e genetica?
R: In futuro ognuno di noi avrà sicuramente una carta d'identità sanitaria (che si chiamerà Drug ID card) che ci dirà quale farmaco dobbiamo assumere qualora si presenti una determinata patologia. Questa carta sarà basata sul genoma e sulle malattie precedenti.
D: Quanto tempo ci vorrà?
R: Ci si arriverà per gradi. Già qualcosa si sa oggi, ad es, sappiamo che ci sono soggetti rapid oppure slow metabolizer. Pazienti che già a piccole dosi sperimentano effetti farmacologici rilevanti e altri che richiedono dosi molto più elevate.
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