Cosa "non è" la psicoanalisi: discussione critica di un contributo di Giovanni Hautmann
Questo contributo fa parte di una serie di lavori, che usciranno nell'area"Psicoterapia" di Pol-it, dedicati alla discussione delle principali premesse teoriche di ogni approccio psicoterapeutico. Nelle intenzioni, i vari contributi dovrevvero essere brevi, agili, capaci disollevare domande e fornire spunti a volte anche critici, che poi possono essere approfonditi singolarmente da chi fosse interessato. In alcuni casi si tratterà di critichedi un approccio fatte dall'esterno, cioè da autori non simpatizzanti per quell'approccio: questo può essere uno dei modi migliori per far emergere le questioni e giungere subito al nodo dei problemi.
Come sappiamo,esistono molti indirizzi psicoterapeutici. Qui verrà discussa perprima la psicoanalisi (o meglio, verrà criticato un modo di presentarla);la psicoanalisi è uno degli indirizzi storicamente più importanti,che ha per certi versi influenzato tutti gli altri approcci. Ma questa discussione verrà fatto in un modo diverso dal solito. In genere,quando si presenta un approccio psicoterapeutico, se ne descrivono in positivole principali caratteristiche.
In questo lavoro invece (di cui una versioneè comparsa nella rivista Il Ruolo Terapeutico, 1996, 73:4-9) la psicoanalisi verrà presentata per così dire "innegativo", cioè dicendo cosa essa "non è",seguendo un metodo che per certi versi si può dire esso stesso analitico(per un tentativo di definire invece la psicoanalisi in positivo, rimando ad un altro mio lavoro -- il cap. 4 del mio libro Terapiapsicoanalitica [Milano: Franco Angeli, 1995] -- dove anche la differenzioda altri approcci).
Più precisamente, qui verrà criticata la presentazione della psicoanalisifatta da Giovanni Hautmann in un lavoro abbastanza autorevole in quantofu scritto dall'autore in qualità di Presidente della SocietàPsicoanalitica Italiana (SPI). Questo contributo gli fu chiesto per un libro a cura di Sergio Benvenuto & Oscar Nicolaus intitolato La bottega dell'anima, Problemi della formazione e della condizione professionale degli psicoterapeuti (Milano: Franco Angeli, 1990), dove furono pubblicati gli interventi di esponenti delle varie scuole di psicoterapiaitaliane e di figure significative di questo campo. Quello di Hautmann,compare per primo. Il libro fu il risultato di una ricerca dell'Istituto di Ricerche sull'Organizzazione Socio-territoriale dei Servizi (IROSS)del Consiglio Nazionaledelle Ricerche (CNR), che aveva lo scopo di studiare "chie cosa sono gli psicoterapeuti", in particolare analizzando i vari processi di formazione, tema oggi diventato di attualità dopo lalegge 56/1989 che regolamenta la professione della psicoterapia.
Il libro è interessante in quanto fornisce un panorama della cosiddetta "galassiapsi" in questo momento così caldo per la recente legge sulla psicoterapia. Una delle impressioni che ho avuto scorrendo queste pagine è stata di sgomento, confrontandomi ancora una volta con lo stato di una disciplina caratterizzata da confusione concettuale e frammentazione in scuole spesso legate a personalismi e a retaggi storici utilizzati per meccanismi di sopravvivenza istituzionale. E purtroppo, per lo meno così come viene presentata in questo lavoro di un presidente della SPI, la psicoanalisi non è da meno.
E' improbabile comunque che questo scritto rispecchi le vedute di tutti i membri della SPI; d'altra parte, si può pensare che se esso contenesse delle affermazioni non condivise, data l'importanza di questo argomento qualche membro della SPI avrebbe potuto intervenire con una recensione critica,e non mi risulta che fin'ora sia stata fatta. La mia critica quindi vuole anche essere un tentativo di combattere quella che potrebbe essere una forma di "omertà culturale", così poco rispetto saper la nostra disciplina
Discussione critica del contributo di Giovanni Hautmann sulla identità della psicoanalisi
Lo scritto di Hautmann è di difficile lettura per le frasi prolisse e lunghe(fino a dieci e più righe), per cui deve essere letto piùvolte per afferrarne bene il senso. Farò quindi un lavoro di "traduzione"in frasi più semplici, per poi brevemente discuterle, e mi scuso con l'autore se in questo modo a volte posso averlo frainteso.
L'autore inizia con una disamina della legge 56/1989 (pp. 21-22). Egli nota come il legislatore,mentre nell'art. 1 per la professionalità degli psicologi non usala parola "terapia" (che sarebbe competenza dei medici) ma solo"abilitazione-riabilitazione" "sostegno" e "diagnosi",nell'art. 3 si occupa di un nuovo soggetto, la "attività psicoterapeutica"(quindi una terapia) e ne estende la competenza agli psicologi, oltre cheunicamente ai medici come in precedenza si poteva ritenere trattandosi di una "terapia". Poi sottolinea che dall'art. 3 è stata tolta la dicitura "comprese quelle analitiche" a sostegno della tesi che la psicoanalisi non è contemplata da questa legge, perchè diversa dalla psicoterapia. Infatti la formazione in psicoanalisi,come la SPI ha ufficialmente e ripetutamente informato il parlamento,... non si basa su un apprendimento cognitivo, ma... su una trasformazione emozionale della personalità, condizione perchè anche l'apprendimento cognitivo della psicoanalisi possa essere effettivamente interiorizzato e verificato e quindi adeguatamente gestito... anche a garanzia di una capacità autentica di teorizzare in psicoanalisi elaborando l'inconscio.
A garanzia cioè sia della formazione psicoanalitica che a difesadello statuto scientifico della psicoanalisi (pp. 22-23). Compare quila parola "statuto scientifico", sulla quale tornerò dopo.Questa "trasformazione emozionale", continua l'autore,è incompatibile con... qualunque tipo di insegnamento universitario. Privilegiando la scelta universitaria e, quindi, coerentemente a ciò, espungendo le terapie analitiche, incompatibili con la formazione universitaria, dalla attività terapeutica, il legislatore non ha legiferato sulla psicoanalisi,che infatti non è una "attività psicoterapeutica",ma una disciplina scientifica completa, teorica e pratica, implicante contemporaneamente conoscenza e terapia, il cui concetto di "terapeuticità" ha un senso peculiare che si dissocia dalla "quantificazione"propria del concetto di terapia nella accezione medica. Scientificamente autosufficiente, la psicoanalisi è aperta alle più diverse provenienze culturali che integrano la sua prevalente base culturale medica(p. 23).
Altrove (vediad esempio i capitoli 4 e 15 del libro Terapia psicoanalitica prima citato) ho ipotizzato che questa esigenza di separare la psicoanalisidalla psicoterapia psicoanalitica nasca in realtà da intenti monopolisticie anticompetitivi (controllo del mercato della formazione, tenere altii prezzi delle sedute dei membri della associazione psicoanalitica facendoleva sul marchio "psicoanalisi", ecc.). Qui abbiamo l'occasionedi vedere esplicitate le motivazioni "scientifiche" di questa scelta.
Ma a questo proposito vorrei fare alcune domande.
La formazione ad una tecnica qualela psicoterapia psicoanalitica, contrariamente dalla psicoanalisi, si basa solo su un apprendimento cognitivo, e non su una "trasformazione emozionale"della personalità?
Nel caso, per quali motivi?
A quale "statuto scientifico" si riferisce l'autore quando parla della "capacità autentica di teorizzare in psicoanalisi elaborando l'inconscio"?
Inche modo comunque questa elaborazione dell'inconscio differisce in psicoanalisi e in psicoterapia psicoanalitica?
Perchè la psicoanalisi è incompatibile con la formazione universitaria, essendo "una disciplina scientifica completa, teorica e pratica", e addirittura a "prevalentebase culturale medica"?
Se il suo "concetto di 'terapeuticità'...si dissocia dalla 'quantificazione' propria del concetto di terapia nella accezione medica" (p. 23), come può nel contempo avere una"prevalente base culturale medica" (p. 23)?
E ancora: se la psicoanalisi"non è una 'attività psicoterapeutica', ma una disciplina scientifica completa, teorica e pratica, implicante contemporaneamente conoscenza e terapia" (p. 23), forse che l'autore intende dire che la psicoterapia psicoanalitica avviene senza conoscenza?
Come si puòc urare senza conoscere?
Inoltre, in che senso l'autore usa il termine "quantificazione"?
Con questo vuole alludere alla differenza tra scienze umane (idiografiche)e scienze naturali (nomotetiche), e in questo modo accennare alla questione dell'appartenenza o meno della psicoanalisi a queste ultime?
Forse l'autoreaderisce alla corrente ermeneutica e ritiene che la psicoanalisi dovrebbe appartenere alle scienze umane, ma allora non si spiegherebbe la sua affermazione secondo cui la psicoanalisi ha una "prevalente base culturale medica",e neppure il riferimento costante a Freud, al suo credo nell'unione inscindibile tra conoscenza e terapia, cosa che come è noto costituisce il bersaglio primo della critica ermeneutica.
Più avanti (p. 24) potrebbe sembrare invece che l'autore aderisca ad una corrente ben diversa, quella post-kleinianache si rifà a Bion (basandosi su alcune parole da lui usate quali"funzione psicoanalitica della mente", "rêverie",contenitore/contenuto, ecc.), che è sicuramente minoritaria (anche se forse non in Italia), e comunque agli antipodi di quello che si intendecomunemente per scienza, se non altro per l'importanza data da Bion a concettiquali "mistica", "fede", ecc.
L'autore poiprocede a illustrare in maggiore dettaglio lo "statuto scientifico"della psicoanalisi, e sottolinea come sia fondamentale la triplice definizione metodo di conoscenza/cura/teoria psicologica datale da Freud, e afferma: L'unità pratica-teorica di conoscenza e terapia intrinseca a questa definizione[è stata] verificata puntualmente in tutte le fasi del Movimentopsicoanalitico (p. 23).
Si rimane perplessi di fronte a questa affermazione, dato che uno dei principali sviluppi della psicoanalisi contemporanea, proprio perchè si sono incontrati dei problemi nel verificare l'unità conoscenza-terapia,consiste nell'aver relativizzato questo progetto freudiano accantonando sempre di più, ad esempio, concetti quali "interpretazione vera", "insight", ecc., per avvicinarsi ad altri concetti, una volta marginali e oggi non a caso di moda e ripresi dall'autore stesso, quali appunto quelli di setting, contenitore/contenuto (p.29), e così via (per un approfondimento su questo punto, rimandoa P.F. Galli, Le ragioni della clinica.Psicoterapia e scienze umane,1988, XXII, 3: 3-8, pag. 5).
Più avanti (p. 23 in basso) l'autore parla di "relazione analitica","processo analitico", "pensiero creativo",ecc. (tutte accezioni in corsivo nel testo): in che modo questi concettisono specifici della psicoanalisi e non della psicoterapia psicoanalitica?
Riesce difficile trovare formulazioni precise e caratterizzanti, anchedopo aver semplificato attraverso la cortina fumogena dei sinonimi. Poi introduce un altro concetto: Il pensiero dell'analista nella stanza dell'analisi... è anche il luogo delle caratteristiche in cui potenzialmente tutti gli analisti possono riconoscersi e sperimentare la loro identificazione nella mente di Freud,cioè nel completo articolarsi, contrapporsi, reciprocamente lumeggiarsi delle sue formulazioni quale si può cogliere in una lettura della sua opera che al di là dei singoli contenuti colga la correlaziones trutturale tra di essi nell'inafferrabile figuralità del suo pensiero,quasi vero modello campione della mente analitica al lavoro (p. 24).
Se il nuovo concetto che qui si è voluto introdurre è quello di una identificazione(affettiva?) in Freud, allora questo appare ben lontano da un piano scientifico,a parte la curiosa affermazione secondo la quale la "figuralità"del pensiero di Freud sarebbe "inafferrabile".
Per favorire questa identificazione in Freud, è certo utile suggerire "la letturadella sua opera" -- seppur nel "completo... reciprocamente lumeggiarsi delle sue formulazioni" -- ma sarebbe interessante conoscere con più precisione i motivi delle posizioni dell'autore, sicuramente critiche,nei confronti delle analisi di quei tanti studiosi dell'opera di Freud che sono giunti a conclusioni opposte, sollevando delle domande riguardo alla coerenza tra le varie implicazioni filosofiche sottostanti (tra i tanti, vedi R.R. Holt:Ripensare Freud [1989]. Torino: Bollati Boringhieri,1994; Una perestroika per la psicoanalisi: crisi e rinnovamento. Psicoterapiae scienze umane, 1990, XXIV, 3: 37-65).
Al termine di questo tentativo di descrizione dello "spessore della psicoanalisi"e del suo "statuto scientifico", l'autore conclude con un plauso al legislatore che ha "operato una distinzione tra psicoanalisi comescienza unitaria e tipi di psicoterapie..." (p. 24). La psicoanalisi quindi sarebbe unitaria, al contrario delle psicoterapie? Si possono avere molte idee diverse in psicoanalisi, ma una delle poche cose chiare, sulla quale concordano proprio tutti (a cominciare dai vari presidenti dell'InternationalPsychoanalytic Association [IPA]) è che la psicoanalisi non è unitaria, ma un coacervo di scuole e idee diverse le une in contraddizione con le altre, pur proponendosi come terapia per disturbi simili, e questo è sicuramente uno degli ostacoli al suo "statuto scientifico".
Forse l'autore qui però non allude alla psicoanalisi come teoria (già poco prima aveva ammesso l'esistenza di diversi modelli e teorie, a patto però che vengano "risoggettivizzati" nella identificazione con il "modello-campione" Freud, "anchea garanzia di una capacità autentica di teorizzare in psicoanalisi elaborando l'inconscio" [p. 23]), ma alla psicoanalisi come istituzione,come IPA o SPI, per l'esattezza. Siamo da capo: come si fa a riconoscere la maggiore autenticità di una teorizzazione o "elaborazione dell'inconscio" di una associazione rispetto a un'altra, quando entrambe affermano di riferirsi allo stesso profeta Freud? La somiglianza qui con le chiese e le religioni è molto imbarazzante, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la scienza (che è tradizionalmente considerata,qualunque definizione si adotti, diversa dalle religioni).
Nel paragrafo successivo l'autore parla della formazione in psicoanalisi, e riprende alcuni adagi bioniani (rêverie, ecc.), forse a riprova delle sue simpatie per questo autore. Poi sottolinea un aspetto: l'identificazione degli allievi o candidati nell'analista, che è "'magister'",e "depositario del sapere psicoanalitico" (p. 25, corsivoe virgolette nel testo), perchè la sua creatività è tutt'uno con il suo sapere psicoanaliticoe quindi con la sua identità di psicoanalista, e tale non puòessere per l'analizzando (p. 25).
Sembra sia esplicitato qui un pericoloso integralismo. Poco più avanti infattidice: Naturalmente l'identità di maestro in ultima analisi ha a che fare con l'identificazione nei leader del Movimento psicoanalitico a cominciare da Freud. Questa è la radice del formarsi di gruppi attorno a determinate figure (p. 25).
Ma non era la psicoanalisi "unitaria"? Comunque poche righe dopo riconoscei rischi di "deterioramento [della] istituzione psicoanalitica",e la sua proposta sembra si limiti a un ulteriore incitamento a una identificazionein Freud, purchè ciò sia fatto in modo "corretto",senza chiedersi come mai questo semplice incitamento a seguire il "magistero"(p. 25) dell'istituzione fin'ora non sia servito a evitare la diaspora.
Nel passaggio seguente parla della importanza della "creatività" dello psicoanalista, e del passaggio dal testo orale a quello scritto, quindi della importanza della ricerca; parla di tre "condizioni minime necessarie"per "l'elaborazione scientifica": 1)la sufficienza della cultura psicoanalitica, 2) la disponibilitàdemocratica..., 3) l'accettazione e la conservazione della passione perogni operazione psicoanalitica (p. 26).
Non mi è chiaro quale sia la pregnanza di queste affermazioni. Nelle altre discipline,o, se è per questo, nella psicoterapia, non vi è forse passione,nè democrazia? E non è di cattivo gusto associare "sufficienza della cultura psicoanalitica" a termini quali "elaborazione scientifica"e "disponibilità democratica"?
Più oltre, l'autore accenna alla storia delle istituzioni ufficiali: l'IPA è progettata nel 1908, e nasce nel 1910; la SPI è costituitanel 1932 ed accolta nell'IPA nel 1935 (p. 26). Tace però sui lunghi anni di "sonno" della SPI, e anche, dopo il suo risveglio, sul fatto che l'IPA fu costretta a mettere la SPI sotto "supervisione"della Società Svizzera dal 1962 al 1967 a causa dei litigi tra i cinque didatti italiani che non riuscivano a mettersi d'accordo per formare candidati (vedi anche P. Parin su Psyche, 1984, 38: 627-635). Come sappiamo, negli anni recenti la SPI ha avuto ulteriori problemi che hanno provocato una scissione e che hanno indotto l'IPA nuovamente a commissariarla.
L'autore poi si accinge a specificare meglio la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia,differenza che va dimostrata bene per sostenere tutta la logica del suo pensiero. All'inizio pare dica che mentre la psicoanalisi è una"disciplina scientifica" (p. 26), le psicoterapie avrebbero "pregnanti finalità direttamente curative" (p. 27), come se vi fosse contraddizionetra scienza e cura (ma se fosse così, ciò contraddirebbe l'affermazione precedente riguardo alla "unità pratica-teoricadi conoscenza e terapia" [p. 23]); poi dice che le psicoterapie possono allontanarsi più o meno dalla psicoanalisi, alludendo forse a una differenza quantitativa tra le due e non quindi qualitativa. Nel paragrafose guente, a scanso di equivoci, pare dia per scontato che la psicoanalisi è quella insegnata nella SPI, usando quindi come criterio l'appartenenza istituzionale, criterio che, ovviamente, non ha niente di scientifico,anzi minaccia la identità scientifica della disciplina. Seguendo comunque questa logica, nota però un "complesso problema"(p. 27): quello delle motivazioni degli analisti che insegnano fuori dalla SPI.
Questo inrealtà è un vecchio problema, come sanno bene tutti quei membri della SPI ai quali per decenni fu esplicitamente impedito di insegnare a gruppi indipendenti, anche se ciò comportava un oggettivo danno allo sviluppo della psicoterapia e della psicoanalisi in Italia. Esistono peraltro direttive precise dell'IPA al riguardo (anzi, esistevano finoal 1989, quando l'IPA, l'AmericanPsychoanalytic Association e altre associazioni psicoanalitiche sono state costrette a fare marcia indietro -- e a pagare anche 650.000 dollari a coloro che avevano danneggiato, in faccia alla cronica carenza di fondi per la ricerca e la formazione psicoanalitica -- ma non per un'improvvisa" disponibilità democratica", quanto perchè sono state costrette dal giudice a seguito della denuncia legale di alcuni psicologi dell'American Psychological Association; per un resoconto dettagliato di questo processo, vedi il cap. 15 del mio libro prima citato, Terapia psicoanalitica).
Ma, dice l'autore, "accantonando in questa sede il complesso problema"(p. 27) - di quello che, diremmo noi, a volte poco eufemisticamente viene chiamato "training pirata" (bootleg training) - riman eil fatto che esso minaccia comunque la identità della psicoanalisi(identità solo "istituzionale", s'intende). Ma potremmo chiederci perchè vi è questo timore della perdita di identità,dato che secondo l'autore la psicoanalisi ha una forte e precisa identità scientifica. Eppure l'autore sente il bisogno, nella frase seguente, di fare riferimento ancora una volta a una identità debole, come quella appunto istituzionale, quando parla di "rigore" nella formazione e nella prassi, ... Istituti, convegni,congressi, e pubblicazioni, e dei collegamenti di analisti italiani conanalisti di società straniere, nonchè di istituzioni a forte connotazione psicoanalitica coma la Tavistock Clinic (p. 27).
A parte l'ovvio ragionamento circolare (la identità della psicoanalisi si fonda sulla forte connotazione psicoanalitica della Tavistock, che a questo punto andrebbe definita) oggi tra le poche cose che moltissime scuole di psicoterapia riescono ad avere con facilità, e che si vantano di avere, sono proprio i legami internazionali, se non altro perchè sono state spinte a cercarli a tutti i costi nella speranza di essere prese in considerazione dalle commissioni previste dalla legge 56/1989, che privilegia appunto criteri formali.
Stabilito comunque che la psicoanalisi ha una identità, il problema, dice l'autore, è l'identità della psicoterapia, e cerca di definirla in uno sforzo teorico che mi sembra il maggiore fatto dall'autore in questo scritto.
Dice che la psicoterapia nasce come risposta a un "bisogno"che comincia a descrivere a partire da un carattere negativo, quello di chi... non è in grado...di farsene carico... responsabilmente,... quindi... coinvolge... gli altri...[diventando] problema del gruppo sociale di appartenenza, così come nasce... una relazione "curativa" e solo faticosamente ed eventualmente..."trasformativa" quale accade nella esperienza primariamente analitica(p. 27).
Mentre prima(p. 23) la psicoanalisi veniva definita anche una cura, ora è "trasformazione",ma non viene spiegato in che modo questa differenza è sostanziale e non solo nominale. Poi afferma che psicoterapia significa prendersi "incarico attivamente" (p. 28) il paziente, dove spesso l'intervento può essere sollecitato dalla famiglia o dal gruppo di appartenenza,o è sul gruppo stesso, dove corregge un "errore comunicativo".Qui ricorrono termini presi non dal linguaggio della terapia psicoanalitica ma da quello della terapia sistemica ("errore comunicativo","nodo relazionale", "paziente designato", ecc. [p.28]), come se stesse parlando di questa tecnica, e non della differenzatra psicoterapia psicoanalitica e psicoanalisi. A parte questo, mi sembraquesta una concezione errata e riduttiva della psicoterapia, dove invece,anche in molte terapie non psicoanalitiche, occorre una precisa responsabilità dell'individuo per intraprenderla (altrimenti la terapia semplicementenon avrebbe luogo). Comunque quello che andrebbe maggiormente chiarito qui è il concetto di "responsabilità": la si intende inconscia o solo fenomenologico-descrittiva?
In un passaggios embra che la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia sia una questionedi gradi (pp. 28-29), ma nel paragrafo seguente afferma che la caratteristica specifica della psicoanalisi, e pertanto caratterizzante, è l'elaborazioneinterpretativa del transfert che è resa possibile dalla costituzione della situazione analitica che è, come ormai ben noto, ilrisultato metodologico dell'integrazione dinamica del pensiero fantasmatico,del setting e del pensiero interpretativo (p. 29, corsivi nel testo), ripetendoc he ciò richiede "responsabilità" dell'analizzando,la quale addirittura diventa "lo spartiacque tra possibilitàdi psicoanalisi e psicoterapia" (p. 29). Se si perde l'unitàdel triangolo "setting-fantasmi-interpretazione", si fa psicoterapia(p. 29).
Riguardo a questi tre poli del triangolo, si possono fare le seguenti domande: questi tre poli sono allo stesso livello di astrazione o sonogerarchicamente differenziati? Come si differenzia l'interpretazione dei fantasmi (se di questo si tratta) in psicoanalisi e in psicoterapia? Come tutto ciò si lega a un tipo di setting? Il setting della psicoterapia è diverso da quello della psicoanalisi, e perchè? In psicoanalisisi deve per forza usare il lettino e fare sedute frequenti? Nel caso, perchè,e come ciò incide sul processo interpretativo dei fantasmi? Questi problemi, che sono sempre stati all'ordine del giorno di tutti quegli autoriche hanno affrontato il tema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia,qui non vengono toccati.
Dopo diceche l'essenziale è che il terapeuta sappia adottare un atteggiamento mentale che definisce "funzione psicoanalitica della mente",che sta con la situazione analitica "in un rapporto contenitore/contenutoquale Bion ha descritto" (p. 29). Questa funzione può essere acquisita attraverso i vari aspetti del training della SPI. Non mi è possibile qui discutere approfonditamente questi concetti bioniani (nati tra l'altro nel contesto della terapia con pazienti gravi, quelli che la tradizione psicoanalitica alla quale si rifà Hautmann considera indicati per la psicoterapia e non per la psicoanalisi), ma sottolinea che "un certo grado di 'funzione psicoanalitica del pensiero' può essere sviluppata anche al di fuori dell'analisi personale" (forse qui vuol dire che anche gli psicoterapeuti possono averla?). Comunque,il compito degli psicoanalisti è... di contribuire alla formazione diretta degli psicoterapeuti secondo la linea che ho descritta (p. 30).
D'accordo,ma dentro o fuori la SPI? Nel primo caso, perchè per tanti anni si è attuata una politica elitaria basata sulla nomina di pochi didatti che ha costretto a respingere le tante richieste di ammissione al training che ogni anno si presentavano? Nel secondo caso, perchè per tanti anni i membri della SPI sono stati ostacolati ad insegnare la psicoterapia a gruppi indipendenti? L'autore continua: L'insieme degli orientamenti in atto nel nostro paese, oggi, presenta qualche confortante indirizzo in questo senso, tuttavia sempre sul confine del terreno scivoloso di pseudo-training psicoanalitici, che è diventato luogo comune indicare come di "serie B", ed il cui rischio è quello di diffuse infiltrazioni, nella psicoterapia, di intellettualizzazionie degenerazioni della psicoanalisi. La funzione psicoanalitica della mente...trova già nelle strutture del training dell'istituzione psicoanalitica il pur necessario momento del perennemente rivitalizzare e problematicizzare(p. 30).
In che modo insomma si prevengono "intellettualizzazioni e degenerazioni della psicoanalisi"? Per fortuna la legge farà chiarezza: medicie psicologi faranno "soltanto" la psicoterapia, e, con un altroragionamento circolare, la psicoanalisi - in quanto disciplina scientifica e non psicoterapia [lapsicoterapia quindi non è scientifica?] - potrà, nella SPI,trovare la istituzione privata collegata internazionalmente, atta a preservarele radici culturali "laiche" [sic] le più ampie,grazie alla garanzia che la completezza dell'essere psicoanalista conferisce...(p. 31).
Le psicoterapie(non la psicoanalisi) dovranno essere insegnate nella università,ma cisi può comunque chiedere se "il pubblico" non si prospetti nell'insieme il luogo privilegiato dei futuri psicoterapeuti (p. 31).
Ecco dunque la proposta del past-president della SPI per l'iter degli psicoterapeuti: l'università come luogo di formazione, il servizio pubblico come luogo in cui andranno ad operare (non si accenna al divario tra le migliaia di psicoterapeuti presenti in Italia e la quasi inesistenzadi posti di lavoro nel servizio pubblico).
Insomma, se non altro da questo scritto un concetto chiaro sembra emergere: il mercato privato deve rimanere alla SPI. Non mi sembra però che siano state date argomentazioni coerenti a sostegno di questa proposta.