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Tavola rotonda: dove va la salute mentale?

10 Ott 12

Di

VIGANÒ:

Abbiamo intitolato questo seminario con l'interrogativo: "Dove va la salute mentale?". Adesso mi accorgo che gli specializzandi terranno un incontro su dove va la specialità di psichiatria, sarà interessante vedere se questi itinerari convergono o divergono. La tavola rotonda è organizzata così: ci sono 5-6 interventi brevi concordati all'inizio e poi il Prof. Freni farà delle considerazioni sui casi discussi quest'anno e io, se ci sarà tempo, qualche altra considerazione. Oggi è presente il Dr Bertoglio, direttore generale dell'azienda ospedaliera di Busto Arsizio, che è anche psichiatra e che abbiamo invitato ad ascoltare dal punto di vista dell'organizzatore dei servizi, il nostro dibattito. Gli abbiamo chiesto di non prepararsi preventivamente, ma di ascoltare le questioni che poniamo e poi di dire la sua su come e se questi temi possono essere recepiti dal punto di vista organizzativo. Quindi, se vuole, può intervenire anche nel dibattito altrimenti alla fine gli riserviamo comunque un tempo che globalmente a questo punto non è moltissimo.

Val la pena che dica un una frase in più per mettere a fuoco l'interrogativo "dove va la salute mentale". Globalmente chi ha seguito gli incontri e anche rivedendoli nelle trascrizioni può aver sedimentato un'idea, a partire dalle discussioni dei casi, di un generale "apprezzamento" molto critico se non negativo dell'operato psichiatrico istituzionale che noi abbiamo "sezionato" caso per caso. Allora dobbiamo concludere "mal practice" generalizzata? Noi dall'alto della nostra tribuna universitaria diciamo: "non ci siamo, la psichiatria corretta non viene applicata nel concreto, nei servizi"? Io credo che, ragionandoci sopra, bisogna assolutamente evitare questa posizione di critica accademica che non ha poi presa sulla realtà dei fatti. Credo che dobbiamo seguire un'altra via per valutare le discussioni svolte, non ci serve dare un giudizio secondo il modello per cui c'è la teoria, quella accademica, e la sua applicazione, quella della pratica clinica quotidiana. Oltrettutto questo modello teoria-pratica non è più seguito neppure in filosofia e in sociologia. Proviamo invece a interrogare la dottrina psichiatrica, così come ci viene trasmessa – diagnosi e terapia – sia davvero un punto di partenza capace di dare un orientamento alla pratica e alla ricerca in campo clinico. Ho l'impressione che quando ci si occupa della salute mentale ci si trovi di fronte ad una rete di operazioni sociali complesse, che il sapere psichiatrico non è in grado, come tale di orientare, di dirigere finalisticamente. Si porrebbe allora un problema di politica della clinica, che in università si insegna poco o, per essere schietti non si insegna punto. Io userei una parola forte, direi l'etica della clinica e quindi la capacità decisionale dell'operatore, non solo nella relazione con il paziente, ma nella relazione intersoggettiva con gli altri operatori. Questo è un compito dell'operatore clinico che non si impara nell'università purtroppo, ma che è decisivo perché l'operatore clinico tende ancora ad organizzarsi piramidalmente, a pensare la decisione, l'atto clinico, con una modalità gerarchica. Il risultato è che, se vuole salvare una dimensione psicodinamica, lo deve fare rinchiudendosi nella sua cella, nella nicchia della relazione duale con il paziente e a cercare, proprio perché è frustrato e umiliato a tutti gli altri livelli, una rivalsa della sua dignità professionale in questa relazione duale con risultati clinici pessimi perché un paziente deve passare da una nicchia all'altra dei suoi interlocutori duali che non si parlano tra di loro, anzi si fanno tendenzialmente "le scarpe". Tutto questo è responsabilità clinica, non è responsabilità direttamente dell'organizzazione ospedaliera o dei servizi.

Quindi oltre alla teoria e all'uso corretto dei concetti (diagnosi, farmaci, ecceteraÖ) c'è questo aspetto di politica e di etica clinica che sono fondamentalmente a carico degli operatori, cioè che l'operatore possa vedere come parte della sua azione terapeutica il creare un gruppo virtuale attorno al paziente, e non creare una schizofrenia di interventi attorno al paziente. E poi, terzo, c'è comunque anche la situazione logistica, amministrativa e organizzativa che può effettivamente favorire un lavoro integrato, come si usa dire qua. Quindi gli interventi brevi che precedono le nostre considerazioni tratteranno un po' di alcuni di questi aspetti. Io, se è d'accordo, darei per primo la parola a Barini che avevo invitato a sviluppare le osservazioni che aveva fatte circa la mancanza di un linguaggio comune a livello della clinica.

BARINI:

La questione del linguaggio comune. Io ho una considerazione da fare relativamente ai casi che abbiamo visto, di cui abbiamo discusso in quest'anno di seminari. Purtroppo casi che sono stati presentati qui non sono l'eccezione, ma tendono purtroppo ad essere una consuetudine. Quello che più è evidente da questi casi è il fatto proprio che, nella loro gestione, manchi proprio un punto di vista osservazionale, un linguaggio comune nella fase iniziale che dovrebbe essere ÖÖ noi siamo in un'epoca in cui abbiamo sempre più possibilità terapeuticheÖ io vedo il progetto di integrazione come un intervento personalizzato per ogni paziente attraverso la "creazione" di un'équipe. Per fare questo, con le possibilità di oggi, paradossalmente, adesso che abbiamo queste possibilità, perdiamo di vista quella che era invece l'unica possibilità che c'era una volta e cioè la pura osservazione, la pura descrizione del fenomeno, quella che dovrebbe essere assolutamente la base, il punto di partenza, quel linguaggio comune sulla base si possa poi instaurare un progetto integrato e personalizzato con la creazione, di conseguenza, di un'équipe che però venga creata sulla base del linguaggio comune che si è stabilito. I nostri casi, io me ne ricordo uno in particolare che mi ha abbastanza colpito, però non era obiettivamente molto diverso dagli altri, mi ricordo il caso di quella ragazza che sbatteva la testa; questa è stata la descrizione del caso sulla quale si era poi investito tutto un progetto di affidamento al CRT, introduzione delle attività riabilitative. C'era stato tutto un bel progetto su un caso di cui era assolutamente carente quella che era l'osservazione fenomenologia. E questo aveva un'immediata ripercussione poi su tutti quelli che via via sono intervenuti nel progetto di questa paziente. Mi ricordo che quando è stata inviata nell'altro CRT, quegli altri non sapevano, avevano interpretato la cosa in un'altra maniera, che le dava un farmaco, chi, interpretando in un'altra maniera, le dava un altro farmaco. Questo denota una carenza alla base, una mancanza di quella che è proprio un'osservazione della paziente fatta con un linguaggio comune che possa essere poi gestito in futuro e che crei proprio una piattaforma dalla quale si possano introdurre altre chiavi di lettura, altri registriÖ

VIGANÒ:

Io mi permetto di fermarla qui perché gli interventi dovevano essere brevi; questo non impedisce che poi riprenda la discussione.mi sembra chiaro quello che ha detto, chiedo solo questa precisazione, se ho capito bene: è un problema di tempo iniziale di osservazione, tempo che poi si può riattualizzare nel corso della cura, di un'osservazione clinica che localizzi la posizione del soggetto, di tipo fenomenologico, che quindi possa utilizzare il linguaggio comune nel senso della lingua che usiamo tutti i giorni.

BARINI:

Ö ma soprattutto finalizzato alla diagnosi e alla prognosi. Perché io come faccio a fare un progetto personalizzato, quindi integrato, quindi a costituire un'équipe intorno a un caso, se non ho una diagnosi e una prognosi? Come faccio? Semplicemente sulla base di una descrizione che tra l'altro non rende assolutamente, una descrizione più assistenziale, più ambientale della paziente più che fenomenologia, cioè più che "ma cosa sta succedendo a questa paziente?" "cos'ha lei?". No, si sapeva che in casa c'erano dei problemi, che il papà era paranoico, quindi in realtà il progetto rispondeva più a un'esigenza di sottrarre la paziente all'ambiente familiare, creando poi un qualcosa, ma che non ha mai tenuto conto comunque di quella che era l'osservazione della paziente, cioè la diagnosi e la prognosi che non sono cose che forseÖ sì, io non sono un accanito sostenitore del DSM IV però sento anche molte critiche a volte ingiustificate su questo DSM IV il quale invece secondo me è l'espressione ormai, attualmente, massima dell'esigenza di creare un linguaggio comune. Io lo vedo come una forte necessità ormai di avere un linguaggio che possa essere gestito nel trattamento del caso. È questo in realtà il DSM IV, non è né una lista della spesa né un elenco del telefono, è una "preghiera" di cominciare a gestire un caso solo quando ti sei reso conto esattamente cos'è in termini di diagnosi e in termini di prognosi dopo di che si possono inserire altri registri, altre chiavi di lettura. In America fanno il colloquio a due tempi, fanno il primo colloquio psicodiagnostico, successivamente possono subentrare altri tipi di colloqui, per esempio quello ad orientamento psicodinamicoÖ

VIGANÒ:

Adesso non apriamo tutta la gammaÖ io la fermerei qui, quindi ha aggiunto una cosa, al linguaggio comune ha aggiunto la diagnosi e l'indicazione del DSM come punto di riferimento per un orientamento. Passerei la parola a Giovanna Di Giovanni.

DI GIOVANNI:

Mi riallaccio un momento anche alle ultime cose dette sulla questione, nei 5 minuti che ho, della diagnosi alla fine, ma soprattutto sul tempo di osservazione per trovare la posizione del soggetto. A me aveva francamente colpito le ultime volte una questione che chiamava in causa la responsabilità dell'operatore e il gruppo, questa tensione fra il singolo operatore e il gruppo, e mi avevano colpito anche alcuni accenni alla questione della morte nella malattia psichica, del dolore e questa della necessità del linguaggio comune che a dire la verità in un modo un pochettino diverso che vorrei rapidamente dire. Io credo che nelle gravi patologie mentali sia vero quello che è stato detto da alcuni cioè che l'operatore è confrontato quotidianamente con un dolore psichico che assume aspetti di morte e non solo, io credo, come è stato detto da più parti, per i rischi di suicidio e tentato suicidio e quindi le ripercussioni anche sui curanti, ma proprio per il senso di morte soggettiva che la malattia mentale, a mio parere, porta con sé.; e non tanto perché credo, come talora si dice, il paziente non è un soggetto di discorso, io credo che un essere vivente sia sempre un soggetto di discorso, però questo discorso nel disturbo mentale non circola a mio parere tra lui e gli altri, non circola fra lui e l'altro familiare, l'altro sociale lavorativo, l'altro anche sanitario, perché parliamo degli operatori. E, a mio parere, ogni volta che c'è un paziente grave, bambino, adolescente, adulto, è come se ci fosse una caduta dell'illusione della comunicazione tra esseri umani che è senz'altro un'illusione che comunque aiuta a vivere. Con il disturbo psichico grave improvvisamente credo che gli operatori, senza spesso accorgersene qui, che ho inteso la questione del linguaggio comune, si trovano confrontati con un vuoto, con un vuoto di comunicazione fortissimo. E allora ci si chiede, non certo come alcune tendenze credo fanno, "come si può colmare quel vuoto con un senso già pronto", anche quella è una relativa teoria, io non credo quello, piuttosto "come si può gettare invece un ponte su questo abisso e tentare appunto una minima circolazione vivibile per il paziente e l'operatore". Quindi io credo che il gruppo, l'équipe (l'équipe non tanto burocratica, proprio funzionale, come si è sempre detto, come sia Vigano che il prof. Freni hanno sempre puntualizzato) una rete di interventi che, senza essere né idealizzata né perfetta, comunque cerchi la posizione del soggetto e un progetto. È vero che qualcuno ha osservato che il gruppo può essere deresponsabilizzante, questo è vero, forse se ne è parlato poco dell'effetto deresponsabilizzante del gruppo, e giustamente queste osservazioni sulla mancanza di capacità di guardare il paziente ai fini anche di una diagnosi, io credo che a volte possa essere favorita da questa deresponsabilizzazione che il gruppo può suscitare, però non è obbligatoria. Io credo invece che sia importante la tensione tra il singolo operatore e il gruppo perché effettivamente, come ha detto Vigano all'inizio, l'atto clinico è sempre individuale però, questo l'aveva detto anche il prof. Freni tempo fa, può essere favorito da un gruppo se questo gruppo crea uno spazio adeguato. Quindi io credo che, si è anche parlato di costruzione del caso che è forse un po' quello che nell'ultimo intervento veniva detto come preliminare per la diagnosi e la prognosi. E credo che sia questo lo strumento che può dare quella specie di linguaggio comune agli operatori, non tanto, io credo, un manuale o per forza la stessa formazione, ma proprio porre al centro un'operatività precisa, la costruzione di quel caso, la lettura delle situazioni di vita del paziente e poi riportarla (ecco è questo il giunto secondo me fondamentale) alla responsabilità individuale di ogni operatore, cioè alla responsabilità di ogni atto. E qui io sito, almeno personalmente, la questione della diagnosi perché effettivamente io non credo che una diagnosi sia un'etichetta, almeno non una diagnosi fatta nel transfert, nella relazione col paziente, non penso proprio che sia un'etichetta, penso proprio che sia un'assunzione di responsabilità da parte dell'operatore che, mentre dà un nome alla situazione di vita dell'altro (al dolore, alla disperazione anche dei familiari, perché non se ne parla quasi mai, ma forse, dato che io lavoro con i minori, credo che anche il dolore e la disperazione e l'assurdo dei familiari richieda di essere almeno nominato), e nel dare un nome a questo, io credo che firma questa diagnosi prima ancora che sulle cartelle cliniche la firma dentro di séÖ che deve prendere un una posizione, deve dire a se stesso che progetto farà per poi condividerlo con gli altri dell'équipe o della rete, in questo senso io trovo che sia grandemente utile che ci sia un'idea diagnostica magari anche sbagliata, perché no? È comunque pur sempre un'assunzione di responsabilità che si pone di fronte alla disperazione dell'altro e degli altri, e questo mi sembra il nocciolo fondamentale del gruppo, secondo meÖ

VIGANÒ:

Facciamo parlareÖ CozziÖ

COZZI:

Mi chiamo Cozzi, sono uno psicologo in una ASL della provincia di Milano. Vorrei centrare i 5 minuti del discorso su un singolo aspetto che è quello della nozione di responsabilità nel rapporto con l'équipe. Io credo di aver visto parecchi gruppi di lavoro in cui l'irrigidimento si poneva su due livelli. Un primo livello poteva essere quello dove il ricorso all'équipe veniva visto il luogo dove venivan prese le decisioni dove in pratica venivano decisi a priori gli atti che il singolo doveva poi compiere sul paziente, e questa è una prima deriva di carattere ideologico dove l'équipe diventa il tutto e l'individuo viene a sparire. Una seconda deriva invece, a cui ho assistito negli anni di lavoro, è stata più una deriva sul piano immaginario cioè che cosa succedeva? Che quei rapporti privilegiati che il paziente poteva giocare con qualche singolo operatore venivano poi ri-giocati all'interno del gruppo, cioè veniva tutto posto su un piano di comprensione, di amore per il paziente e tuttoÖ che veniva ritorto, rivolto contro il resto del gruppo che non capiva. Che cosa c'è al fondo che accomuna, secondo me, entrambi gli atteggiamenti? Il primo è la mancanza di un riferimento comune che possa tenere insieme il gruppo e l'illusione coltivata (a volte anche in opposizione ai familiari o ad altre istituzioni) che basta l'amore per salvare dove il transfert veniva quasi preso sul serio nel reale, cioè come qualcosa che appunto il paziente ha scelto me perché io sono così sono cosà e così viaÖ L'altra deriva è quella che il sapere già esiste, occorre solo metterlo in atto, e non conta chi lo mette in atto. Come si può uscire da una situazione di questo tipo? Io credo che il primo momento diagnostico sia quello di interrogarsi sulla posizione che si occupa per il paziente cioè "quel paziente è arrivato da noi, come mai? che posto ci sta dando?" e allora questo permette di passare da un piano immaginario ad un piano simbolico; ed è un primo passaggio. Il secondo passaggio è quello di mettere al centro del lavoro l'interrogazione che il paziente fa rispetto al sapere, cioè un sapere che non è già pieno, non esaurisce in sé anche la presenza del paziente. E allora il momento diagnostico diventa un momento di interrogazione rispetto al sapere dell'équipe per cui l'équipe può diventare una risorsa nel momento in cui si interroga rispetto alla presenza di un nuovo soggetto che è arrivato al servizio. Il terzo punto è rispetto a un momento, chiamiamolo così, prognostico. Io credo che qua noi spesso coltiviamo delle grandi illusioniÖ Le prognosi hanno senso, proprio anche in letteratura, perché sono fatte a livello epidemiologico cioè sui grandi numeri. Le prognosi riportate in un singolo caso operano un salto di carattere logico: cioè la trasferibilità dei grandi numeri nel singolo caso è come se noi presupponessimo che c'è un sapere di carattere eziologico e così via proprio su quel singolo caso che è già esaurito dalla massa dei dati nei quali noi lo collochiamo. Ecco, io credo invece che il momento prognostico sia molto più difficoltoso e anche lì, il gruppo di lavoro può svolgere una grande funzione, una funzione di apertura verso altri nodi della rete che il paziente può percorrere. Questa è l'unica prognosi che noi possiamo fare cioè favorire un momento di passaggio del paziente da questo nodo della rete ad altri nodi, come un percorso che lui stesso costruisce e che noi possiamo solo favorire come momento di apertura iniziale. Basta

VIGANÒ:

Io ho trovato prezioso questo intervento, molto succintoÖ questi tre punti sono fondamentali, per lei quindi sono il compito del gruppo in alternativa a quelle due deviazioni inizialiÖ che pongono al centro quindi la presenza del soggetto, del paziente che diventa un po' l'animatore, da quello che capisco, del gruppo:

  1. vedere la posizione di partenza in cui lui ci mette (di odio, di amore, di ostilità, di volersi curare, eccetera ecceteraÖ")

  2. l'interpretazione e l'interrogazione che il soggetto si porta dietro circa il sapere cioè che cosa lui si aspetta dal sapere dell'altro che lo cura (se riguarda la malattia, se riguarda i soldi, se riguarda il suo corpo ecceteraÖ)

  3. quello della prognosi mi sembrava più chiaro

In effetti questi elementi molto sintetici sono allora la sua proposta di ciò che nuclearmente costituisce l'oggetto di lavoro dell'équipe. E quindi due questioni che già si avvicinano un po' a quelle di Di Giovanni Ö passiamo la parola alla Dr.ssa Oggionni.

OGGIONNI:

Allora la Dr.ssa Di Giovanni ha già accennato al discorso del dolore, io invece ero rimasta di seminario in seminario piuttosto colpita da due cose: il discorso della formazione dello psichiatra che prevede l'importanza di ottenere una diagnosi che per essere tale deve essere condivisa, condivisibile dal gruppo e quindi la cosiddetta integrazione. Ecco io sottolineerei in maniera forse relativamente provocatoria, ma vicina a un mio modo di sentire e quindi dando un taglio realistico, al fatto che probabilmente l'integrazione non è così indispensabile e che la diagnosi è spesso un discorso teso a rassicurare gli operatori su un controllo della patologia mentale di cui viene facilitato il distacco, diagnosticandola, il distacco da sé. Quindi a volte ho potuto percepire una posizione utopica e astratta, molto ottimistica, direi, ma un po' anche ingenua, negli specializzandi che chiedono e cercano un ideale raggiungimento diagnostico e terapeutico di condivisione. Forse l'integrazione non esiste, forse non serve neanche che ci sia, sicuramente la diagnosi ritengo che si possa fare insieme al paziente più che insieme ai colleghi e poi che la capacità diagnostica sia legata in modo inscindibile a una propria capacità personale di percepire lo psichismo, e quindi anche su un campo esperienziale, sicuramente formativo e di vita, oltre che di manuali dalla A alla Z. L'integrazione è la comunicazione autentica, diretta, coraggiosa (a volte anche) di fronte appunto a una situazione dove le certezze sono forse la cosa meno importante in una scienza che deve essere, più che esatta, rigorosa a mio modo di vedere, che è la psichiatria.

VIGANÒ:

Se mi posso permettere, dato che il tema della diagnosi viene contornato, e oltretutto vi preannuncio che l'anno prossimo si pensava di impostare il seminario su questo titolo: "La doppia diagnosiÖ" presa anche nel senso del DSM (Asse I e Asse II) con tante elaborazioni. La parola diagnosi ha comunque una radice greca che distingue la "gnosi" dalla "dia-gnosi", cioè c'è la "gnosi" = il sapere, la scienza e c'è la "dia-gnosi" che si oppone al sapere scientifico e che vuol dire "riconoscimento", quindi interpretazione, dinamica, creatività, poesia, ecceteraÖ Questa dimensione della diagnosi come un sapere integrativo rispetto a un sapere scientifico, e mi fa piacere che sia stato messo al centro negli ultimi tre interventi: il paziente come creatore della diagnosi, come inventore del nome da dare al proprio doloreÖ Vi sembrerà molto poetica, siamo qui in un ambiente scientifico, medicoÖ parlare in questi termini così poetici. Io dicevo "doppia diagnosi" perché occorre la diagnosiÖ codificata, su basi osservative (DSM ecceteraÖ), però bisogna tenere presente che c'è questo aspetto creativo della diagnosi che, come dire, taglia i saperi codificati e che inventa delle diagnosi estrose, a ciascuno il suo nome. Freud, per fare un esempio che mi è caro, ha fatto delle diagnosi strambe: uno l'ha chiamato "l'uomo dei topi"Ö è una diagnosi individualizzata su quel tipo lì; l'altra l'ha chiamata "Dora"Ö quindi la diagnosi diventa un "nome", è chiaro che "Dora" non è solo uno pseudonimo usato per non far riconoscere la sorella dicciottenne di Otto Bauer, perFreud è anche il riconoscimento della validità clinica della sua teoria sul sogno. Doppia diagnosi: "nevrosi isterica" e "Dora", come dialettizzare queste due diagnosi? La dialettica porta a un uno cioè non è un dualismo, non è una schizofrenia. La dialettica serveÖ non ci avevo mai pensato "l'integrazione come dialettica" la trovo una cosa genialeÖ cioè far comunicare tra loro le due diagnosi e rendere condivisa questa accoppiata dialettica di diagnosi: quella inventata dal paziente col suo sintomo e quella categoriale, insiemistica che lo deve mettere in un gruppo epidemiologico definito.

BERTOGLIO:

Mio compito è quello di essere un brutale interlocutore per cui faccio un'osservazione brutalissima. Ringrazio per l'invito, effettivamente sono stato qui una decina d'anni con alterne e multiformi fortune, e quindi ambienti ben noti. Mi metto dal punto di vista appunto dell'organizzatore, di chi sta frequentando questo mondo piuttosto complesso della legge 31 del 97 della regione Lombardia, della 229, della cosiddetta riforma Bindi e tutto quello che ne sta seguendo. Una prima reazione è questa: siete malmessi perché il modello che vince in questo momento è il modello chirurgico: una diagnosi certa, un intervento possibilmente enucleativo della patologia, una dimissione con magari una riabilitazione, fuori uno, sotto un altro. Il modello assicurativo è un modello che ha bisogno di percorsi certi per sapere come quantificare in tariffe un certo percorso, quindi questo è un modello con cui vi confrontate. Tutta questa problematicità, benedetta problematicità che emerge, certamente non vi pone, non ci pone, in una bella situazione di fronte al mondo con cui dovete confrontarvi. Perché? Perché forse non siamo riusciti, non siete riusciti, a produrre neppure un modello di linguaggio comune con i vostri interlocutori per cui tra operatori, tra capi dei dipartimenti, che sono quelli che dovrebbero essere gli ambasciatori che vanno nei luoghi giusti a cercare le risorse e gli amministratoriÖ cioè: con tutta questa problematicità, qual è il modello che proponete e su cui chiedete risorse? Quali sono i guadagni che il vostro lavoro porta dal punto di vista non certo economico, ma dal punto di vista sociale, dal punto di vista dell'economia aziendale? Qual è questo guadagno? Riuscite a quantificarlo? Siete in grado di non essere autoreferenziali in questa problematicità e di portare delle verifiche, dei confronti? In una situazione in cui, tra controllo di gestione, contabilità analitiche, report, cruscotto aziendale e quanto altro, il mito, almeno in questo momento, è quello di una verifica, di una non autoreferenzialità, di una chiarezza, di una budgettizzazione costante di tutto quello che si fa. Per cui il primo impatto è dire: attenzioneÖ bella la problematicità, la richiesta in questo momento è di una linearità di cui forse la psichiatria non potrà mai essere portatrice, però bisogna farci i conti.

VIGANÒ:

Bene, grazie della provocazione. Secondo me non è un obiettivo irraggiungibile proprio perché c'è dialettica, si deve arrivare a un punto conclusivo che deve essere dialogante, almeno deve fornire delle pseudoquantità, cioè delle quantità empiriche. Addirittura, se non affrontiamo nemmeno la dialettica interna, la conclusione dell'amministratore non saremo noi in grado di modellizzarla. Allora "linguaggio comune" vuol dire uscire dalle lingue della tecnica e riportarle al linguaggio, quello che determina il soggetto e gli può aprire uno spazio progettuale, di ri-contrattazione. Questa quindi è una provocazione che è venuta al momento giusto e ci deve far pensare. Allora, CanegalliÖ

CANEGALLI:

Prendo spunto dall'ultimo intervento perché sicuramente apre immediatamente una questione che è quella dei livelli o, comunque, del punto di vista con cui si affronta la questione; sicuramente questo è un paradigma diverso e nei servizi (non a caso il titolo di quest'anno "dove va la psichiatria nei servizi") ci si confronta proprio con questo paradigma. Questo è molto interessante perché è un punto di vista di cui bisogna tenere conto necessariamente per legge, è una tendenza verso cui si sta andando, e a volte conciliare l'autoreferenzialità di certi tipi di discorsi con un'organizzazione pratica ed operativa diventa problematico. Però io continuo a sostenere che questo modo di essere autoreferenziali dovrebbe portarci quanto meno a riflettere su quello che stiamo facendo. Io condivido completamente il trattamento personalizzato. C'e una cosa però che volevo semplicemente dire ed è la questione che il trattamento dovrà essere personalizzato sia per il paziente sia per il terapeuta sia per il gruppo; per un trattamento non basta una diagnosi. Un trattamento personalizzato deve passare sì per una diagnosi, però evidentemente il DSM IV già è diverso da un approccio fenomenologico puro. Il discorso fenomenologico è diverso ancora dal fare una diagnosi sul singolo caso e passare infine da una diagnosi ad organizzare un progetto terapeutico o riabilitativo richiede altri passaggi, cioè non è che fatta una diagnosi, a tale diagnosi X 297 corrisponda un trattamento standard per quel paziente come potrebbe credere il chirurgo (che poi non è neanche vero per il chirurgo nel senso che il chirurgo una volta che ha inciso, molto spesso o richiude o usa un'altra via di acceso o fa altre coseÖ.). Io non voglio perdere questo entusiasmo, questo interesse per la personalizzazione, ma vorrei che, almeno dal mio punto di vista e per la mia esperienza, si sottolineasse che non è sufficiente la manualistica, è fondamentale anche il discorso della responsabilità del soggettoÖ; a volte la diagnosi la si fa da soli perché in un servizio è difficile condividerla la diagnosi. Quindi per questo valorizzerei la responsabilità e la personalizzazione addirittura in tutto il percorso terapeutico e riabilitativo che va oltre la diagnosi.

VIGANÒ:

Dunque, Castaldi vuole intervenire? Io ho segnato dei nomi più o meno prenotati poi apriamo a chiunque.

CASTALDI:

Volevo fare solo un accennoÖ un'esperienza di self Help che si sta facendo a Saronno con il dr Maranesi, cui partecipa anche Barracco. È un'esperienza estremamente interessante che ritengo economicamente utile riguardo all'azienda. Ma al di là di questo la ritengo estremamente interessante da un punto di vista clinico. C'è un passaggio strutturale nel self Help da una posizione del paziente di oggetto dell'altro sanitario quindi da oggetto dell'altro che lo cura quindi in una situazione di estrema passività, nel senso che si potrebbe proprio dire "mi rimetto nelle tue mani", a una situazione legata alla cura dell'"Io mi curo". Il "Io mi curo da me stesso" non significa in questo caso "Io mi chiudo nella mia stanza, mi chiudo nel mio individualismo e mi curo da solo" quindi non significa assolutamente un'autonomia, un'indipendenza nel senso che l'altro non esiste, ma "Io mi curo attraverso l'altro" e quindi l'altro è funzionale alla mia cura ed è funzionale al senso radicale, e quindi "all'interpretazione che Io dò, Io dò attraverso l'altro del mio sintomo". Questo è assolutamente fondamentale perché produce una posizione di senso forte e quindi anche di riconoscimento sociale che dà luogo anche ad una esplorazione di quel campo che si dice campo della responsabilità individuale. Il paziente psichiatrico, molto spesso, rispetto proprio a questo elemento di passività, non ha piùÖ cioè la cronicizzazione in definitiva del paziente psichiatrico è legata in maniera precisa a questo "fuori senso" e a questo gioco della responsabilità che viene persa sempreÖ

VIGANÒ:

Un momento Barracco, io ho un ultimo nome prenotato, se vuole parlare, è Rivolta e poi il primo intervento del dibattito sarà di Barracco. Vorrei solo che cominciaste a pensare come rispondere alla provocazione di Bertoglio: a questo punto in questi termini perché ormai è stato detto e ridetto perché c'è, oltre alla diagnosi, una responsabilità soggettiva dell'operatore. Allora, il percorso certo che l'amministratore richiede deve essere il frutto di questa sommatoria di diagnosi epidemiologica + responsabilità. Che delle responsabilità molteplici portino ad un percorso certo è quello che si chiama un problema politico. Mettere assieme delle responsabilità differenziate a decidere un percorso certo è l'obiettivo di qualunque lavoro politico. Può usare il metodo democratico, può usare il metodo autoritario, può usare la votazione, può usare il sorteggioÖ comunque, non dimentichiamoci, per come l'abbiamo formalizzato finora, il problema per passare dalla clinica all'amministrazione è un problema di micro-politica dell'équipe, del gruppo. È inutile arrampicarsi sugli specchi, questa è la natura del problema, è già stata affrontata in passato nella storia dell'umanità. Oggi si ripropone in termini nuovi: micro-politica dell'organizzazione della salute mentale.

RIVOLTA:

Sì.proprio partendo da questo concetto, volevo fare una domanda all'amministratore su una questione di questo tipo. L'altra volta avevo presentato un caso dove più che il caso in sé e gli aspetti clinici e terapeutici, ho presentato chiaramente come lavora l'istituzione psichiatrica. E ne è emerso, dal mio punto di vista, una scissione tra strutture ospedaliere ed extraospedaliere, scissione non solo organizzativa, ma anche per quanto riguarda il modello ideologico: mentre nelle strutture ospedaliere il modello è principalmente medico e biologico, per le strutture extraospedaliere il modello è necessariamente più complesso (biopsicosociale).

I pazienti psichiatrici soffrono di disturbi e assumono spesso comportamenti che necessitano di interventi diversi, oltre che diagnostici, medici, farmacologici anche interventi da parte dell'assistente sociale, di educatori, di particolari figure professionali (che non vedo presenti attualmente nelle istituzioni) come ad esempio consulentiÖ parlo di figure tipo l'arteterapeuta, il terapista della riabilitazione etcÖ E quindi la domanda riguarda proprio come l'amministrazione prevede quale strada prenderà la psichiatria proprio a livello pratico in questo senso, nel senso appunto della complessità e di dar voce anche a figure non mediche che possono avere una grande importanza in certe fasi cruciali e delicate della storia del paziente, come può essere per esempio nella casa-alloggio dove credo sia molto più importante che intervengano figure di questo tipo per il percorso della cura e per la presa in carico più generale del paziente.

BARRACCO:

Volevo provare a rispondere un po' alle questioni che poneva il dr Bertoglio quando appunto chiedeva come confrontarsi con i parametri dell'amministrazione. Io penso che tutti noi che lavoriamo nei servizi ci confrontiamo quotidianamente con questo, del resto quando è passata la nuova legge relativa anche ai DRG, al nuovo modo di contabilizzare, diciamo così, gli interventi, questo in psichiatria ha rappresentato un problema specifico, particolare, rispetto agli altri ambiti della medicina. È vero che dobbiamo confrontarci con una quantificazione però è anche vero che esistono termini come "revolving door" che comunque ci danno un'idea di quelle poi che sono anche le ricadute "a volte" di questo modo di concepire la contabilizzazione in particolare in psichiatria. Questo non vuol dire che questo modello sia sbagliato, bisogna comunque misurarsi con questo però tenendo conto anche di quelli che sono gli effetti laddove questo processo di micropolitica in qualche modo viene bypassato, non viene considerato direttamente, gli effetti possono essere questi. Io ricordo l'ultimo caso che abbiamo portato in cui la questione era: "è una psicosi o è un quadro ossessivo-compulsivo?" Il quadro ossessivo-compulsivo forse è la difesa dalla psicosi; l'istituzione, tendendo a individuare l'aspetto sintomatico difensivo, finisce per fare un cortocircuito sulle difese e questo produce una cronicizzazione gravissima, con effetti gravissimi sia in termini di spesa ecceteraÖ ma sia in termini di gravissima frustrazione e di grave impasse etico di chi si trova coinvolto. E allora in questo momento volevo riagganciarmi a quello che diceva prima Castaldi: è vero che c'è questa tendenza, però è anche vero che l'OMS ha dato delle linee molto precise cioè, se ci alziamo un attimo dal contesto regionale che pure è molto importante, vediamo che a livello europeo il concetto di salute, il concetto di responsabilità, il concetto di individuazione personale del proprio percorso di cura vengono sponsorizzati, promossi. Il modello del Self Help non è un'invenzione di Saronno e tanto meno dell'Italia, insomma. È anche interessante vedere come questa parola "Self Help" è un po' intraducibile secondo me perché non ci si aiuta da soli, cioè è una dimensione molto anglosassone, come la parola "enpowerment" che è appunto una parola-chiave del Self Help che è una parola che fa parte del linguaggio politico cioè, come dire, un potere aggiuntivo e non sottrattivo, il mio potere non diminuisce il tuo quando invece molto spesso, nella situazione gerarchica, come è strutturata la medicina, c'è questa dimensione per cui se il paziente prende un potere (perché diventare responsabile della propria cura significa assumere un potere in qualche modo) e questo potere non deve essere visto come sottrattivo, e invece molto spesso si creano questi problemi.

VIGANÒ:

Faccio il filologo, oggi. "Self" è il soggetto attore della cura, mentre "Auto" richiama piuttosto l'autismo, cioè l'automatismo, cioè l'esclusione del soggetto. Quindi è vero, in italiano e nelle lingue anglosassoni si usano due radici completamente distinte.

BARRACCO:

In questo senso io credo che, appunto, volendo, non c'è questa opposizione, questa aporia fra la budgettizzazione e la richiesta di quantificare, di formalizzare anzi è una sfida che va accolta, semplicemente nei processi va spiegata, va individuata. Io credo che questo sia possibile. Io spero che l'anno prossimo si potrà dire qualcosa di questo piccolo percorso, qualunque esso sarà stato, di questo gruppo di Self Help. È questa però io credo la sfida.

BERTOGLIO:

Allora, da una parte il Self Help, dall'altra però il dr Rivolta mi sembra abbia detto, e drammatizzo ovviamente per farmi capire, che si lavorerebbe meglio se ci fosse più personale. Una cosa di questo tipo appare come due linee, forse andrebbero messe insieme, forse no. Certamente per rispondere e rilanciare alla domanda del dr Rivolta, in questo momento dire "si lavorerebbe meglio se ci fosse più personale, più articolato in professionalità, ci fossero più strutture" è un po' viaggiare controcorrente in quanto una delle parole d'ordine in questo momento è "isorisorse" per cui a questo punto come la mettiamo? C'è una via d'uscita in questa situazione?

VIGANÒ:

Tra Self e Auto c'è anche l'Iso-help, isorisorse! Do' la parola a lei, volevo solo capire se quello che diceva Barracco l'ho inteso bene quando dice: va bene che dobbiamo arrivare a progetti definiti però c'è anche il reciproco, anche chi stabilisce i criteri di contabilizzazione, deve tener conto che, se sono sbagliati, producono degli effetti paradossali. È chiaro che noi potremmo contestare i criteri con cui viene fatta la contabilizzazione attuale in psichiatria che sono veramente da modificare secondo me perché così non stanno in piedi, soprattutto nella fase riabilitativa: pagare "le prestazioni" mi sembra così "anti-progetto individualizzato" che diventa paradossale; comunque che ci sia anche la reciprocità del criterio amministrativo rispetto a chi fornisce dei modelli credibili. Prego.

CERVERI:

Sono uno specializzando, sono Giancarlo Cerveri e volevo fare due osservazioni, due domande: una a lei Dr Vigano ed è legata al discorso che faceva il mio collega, il Dr Barini, cioè il fatto che anch'io ho sentito a volte una difficoltà di comunicazione, e questa difficoltà io la farei risalire a qualcosa di più rispetto semplicemente alla diagnosi. A volte io ho avuto la sensazione che noi non condividessimo la stessa idea di malattia, la stessa idea di cura, la stessa idea di guarigione, la stessa idea di operare in psichiatria, nel senso che tra noi specializzandi veniamo da diversi poli, con delle indicazioni lievemente diverse, a volte c'è una diversità nel modo di sentire le cose però una diversità colmabile per certi versi. In alcune situazioni mi è sembrato questa diversità che tra noi specializzandi (almeno tra me specializzando) e voi in alcuni seminari fosse veramente incolmabile perché mancava un sentire comune su "i mattoni" per poi costruire tutto il resto. Invece per quanto riguarda il rapporto tra psichiatria e amministrazione, io sono ancora uno specializzando per cui devo ancora entrare nell'ambito del lavoro vero e proprio, però un po' mi spaventa questa idea delle risorse limitate, bisogna fare quello che possiamo fare con risorse limitate, perché a me faceva venire in mente, lei ha parlato dei chirurghi, io mi ricordo quando ho fatto chirurgia, che si è parlato di "chirurgia di guerra" e c'era una scala, non mi ricordo se era la scala di Glasgow o qualcosa del genere, in cui praticamente il chirurgo sul campo di guerra guardava la gente per terra e diceva: "Lui non si può salvare" per cui passava avanti, "Per Lui si può far qualcosa sì, allora mi fermo 5 minuti, poi vado ancora avanti"Ö Il rischio di far così con al psichiatria è tremendo.

SARTORELLI:

Vorrei dire questo: che il problematizzare quello che si conosce già dovrebbe essere l'atteggiamento continuo che contraddistingue chi avvicina i cosiddetti disturbi psichici. Se non lo fa, se non è problematico, è bene che cambi mestiere. Dico questo per dire che l'intervento dell'amministratore in questo teatro che io trovo utilissimo inscenare dovrebbe essere posto in questi termini cioè che: l'amministratore non ha come interlocutore a cui chiedere le prove dell'efficacia della cura soltanto i curanti. Per quanto riguarda l'ambito psicologico-psichiatrico esiste l'altro interlocutore ineludibile (cioè eludere il quale, non considerare il quale, significa appunto non raccapezzarsi più) che sono i pazienti, i fruitori. Per cui se la tendenza è: viene costituita una polarità di tutori responsabili e curanti che sono gli amministratori e i curanti propriamente detti e dall'altra invece ci sono solo utenti bisognosi e deresponsabilizzati personalmente, non si va da nessuna parte. Quindi io trovo che gli amministratori dovrebbero assumere una posizione terza rispetto agli operatori e rispetto ai pazienti, dando per scontato che attualmente questa posizione terza non ce l'hanno, ce ne hanno una invece rispetto al potere politico che decide l'esistenza di queste amministrazioni che si occupano di queste faccende. Per cui l'efficacia ad esempio delle terapie non deve essere valutata a discrezione dell'amministratore perché l'amministratore "a naso" decide che, sentendosi fare una proposta e sentendosi raccontare dei criteri di efficacia e di terapia, dice: "Ah, sì, peròÖ questa qui mi convince". Questo è un po' poco, dovrebbe avere il parere comprovato ed esplicitato degli utenti e dei familiari degli utenti, ma quelli direttamente coinvolti, non quelli rappresentati dal potere politico istituzionalizzato.

BERTOGLIO:

La questione che ha posto il dr Sartorelli è una questione molto interessante: qualcuno i pazienti non solamente li vorrebbe far parlare, ma li vorrebbe anche far pagare, in altre parole qualcuno dice: "ma perchè non allarghiamo questa libertà di scelta?"Ö.. Appunto io ho colto questo suo accenno e quindi lo esplicito. Qualcuno dice: "Perché specialmente nella Regione Lombardia in cui abbiamo enfatizzato come elemento di dinamicizzazione della situazione il fattore competitivo, non allarghiamo questo elemento di competizione che è nato dalla libera scelta del cliente-paziente, dal pagamento per prestazioni e dall'accreditamento che mette sullo stesso piano strutture private e pubbliche, ugualmente accreditate e quindi con stessi diritti e doveri, perché non apriamo questo clima anche al paziente psichiatrico in maniera che di fatto anche il paziente psichiatrico può spendere anche un suo virtuale bonus economico presso una certa struttura o presso un'altra e quindi mettendo in atto una scelta che non esprime solamente un giudizio di gradimento di quello che è avvenuto, ma un giudizio che implica anche un cambiamento, rompendo quindi un monopolio di fatto territoriale in cui (chi lavora lo sa) più o meno siamo tutti dentro? Corre in certi ambienti il detto che se non fosse vero bisogna cercare di smantellarlo, che una delle prime domande che vengono fatte ai Pronti Soccorsi o nei CPS ai primi arrivi è: "lei dove abita?" in maniera che già immediatamente si possa collocare quel certo signore nel suo luogo giusto territorialmente parlando. Negli altri pezzi dell'ospedale non solamente questa domanda è abbondantemente abbandonata, ma si mettono in atto dei meccanismi per attrarre clienti che normalmente non sono di quell'ambito territoriale dell'ospedale, cioè questo per dire un'ulteriore diversità tra il resto dell'ospedale e la psichiatria. Mi fermo qui per dire che questa questione del parlare dei pazienti è indubbiamente una questione importante che potrebbe avere anche dei modelli operativi assai diversi. Dico un'ultima cosa: io mi chiedo come mai gli psichiatri non reagiscono al pagamento per tariffe? Al programma Psiche che è stato trasportato da programma epidemiologico a programma di fatture, io non capisco perché nessuno dica niente. Io mi immaginerei una grande rivolta, una grande rivoluzione, maÖ mi sembra che vi vada bene, a questo punto perché nessuno dice niente?

—- risposta concitata ma incomprensibile nella registrazione —

CANEGALLI:

Intervengo perché sono stato toccato proprio sul vivo: sono 10 anni che io lotto per la questione di Psiche, evidentemente, con insuccesso anche se qualcosa sta succedendo perché comunque è passata una proposta, sponsorizzata dalla SIP, di modificare le tariffe, sia le tariffe territoriali sia addirittura i DRG ospedalieri; sono proposte, il problema è che si va avanti però con questa inerzia in cui c'è un'imposizione di un sistema di registrazione che è obbligatorio, non è epidemiologico, non raccoglie niente del dato clinico e diventa veramente la mannaia che decide sul finanziamento.

VIGANÒ:

Una piccola domanda: in una scuola di specializzazione in psichiatria, sono tutti ben al corrente di questa modellistica del progetto Psiche? Viene insegnata, spiegata?Ö No. Cioè l'organizzazione attuale della psichiatria in LombardiaÖ? Se posso, già che sto parlando, rispondere alla domanda finalmente chiara sulla difficoltà di comunicazione che faceva Cerveri: quando ci sono dei mattoni che mancano si può parlare di difficoltà di comunicazione. Cioè io non riesco a comunicare con un Inglese se non conosco l'inglese, non ci sono santi! L'Inglese che conosce l'italiano parla con me e io, invece, non riesco a comunicare con luiÖ Al di fuori di polemiche, vorrei porre a voi e a lui proprio in termini di domanda: "va bene pensare in questi termini la difficoltà di comunicazione che voi avete rilevato, che riguarda degli aspetti fondamentali come la concezione della malattia, e noi abbiamo spesso fatto passare molto il sintomo come inizio di guarigione del soggetto, questa è un mattone, una concezione della malattia che non è di tipo accademico, e non viene insegnata all'università; io l'ho acquisito dopo la mia formazione universitaria. Oppure l'altro: il concetto di soggetto e della soggettività, non l'ho imparato all'università, ma solo dopo. Quindi il modello della non-comunicazione sarebbe un po' come quella dell'Inglese e dell'Italiano. Io vi assicuro, rispetto ai discorsi degli specializzandi non ho nessunissima difficoltà di comunicazione. Capisco esattamente quello che dite, l'ho studiato, in altri tempi, in altri modi, ma, sono anche abbastanza aggiornato quando parla anche Smeraldi, quando parlate della diagnosi, della personalizzazione del progettoÖ non mi è assolutamente oscura questa posizione. Però quando io parlo del caso secondo una determinata concezione della malattia, voi non capite. Allora il problema è di non-comunicazione perché certe esperienze acquisite al di là della formazione accademica sono da acquisire come un in più. L'interrogazione è: "allora agli specializzandi può interessare questo "stramberia", questo di più che una serie di operatori ha imparato nella pratica post-universitaria o bisogna aspettare semplicemente che anche loroÖ? Mi trovo nell'imbarazzante situazione di dare una risposta da vecchio, che è sempre spiacevole, però verrebbe da dire "ne riparliamo fra 20 anni di questa difficoltà di comunicazione". Io credo che si possa abbreviare e di molto, o addirittura eliminare questo lasso temporale perché una comunicazione a certi livelli della clinica possa avvenire. E che quindi anche nell'università si possa aprire lo spazio, prima dicevo un po' polemicamente, per altri campi del sapere. Così è anche di quello amministrativo, io non vedo perché non debba essere insegnata "Amministrazione sanitaria" soprattutto della psichiatria che è una materia delicatissima. Poi dopo uno va e si trova a dover fare i conti con i DRG, con i sistemi di pagamento di cui non sapeva niente, che l'università, noblesse oblige, non si occupa neanche di considerare come materia pertinente al campo universitario, e invece secondo me lo è, eccome! Bisogna poi andare alla Bocconi per studiare queste cose, perché non nell'ambito della specializzazione in psichiatria? Però non solo questo, anche questi altri mattoni che sono una concezione della malattia, una concezione della soggettività, non dico neanche strettamente legate alla psicoanalisi, perché non sono specifiche di Freud o di Jung, sono una maturazione, noi qui la chiamiamo Psicodinamica, di un sapere clinico che parte dagli anni 30 a oggi rispetto a cui la trasmissione universitaria è poco aggiornata, lasciatemelo dire, perché sono scoperte, innovazioni, per esempio la Terapia istituzionaleÖ tutta una serie di modalità più dinamiche della concezione della malattia mentale non vengono comunicate in università. Di conseguenza che è specializzando o specializzato, non avendo avuto questa comunicazione, ha una difficoltà di comunicare.. chiedo se questo modello interpretativo della difficoltà non dico che esaurisca tutto, ma vi sembra convincente o vi sembra troppo spocchioso, saputello o da vecchio saccente ?

COZZI:

Ma. È interessante la domanda che aveva posto il dr Bertoglio quando dice: "Come mai gli psichiatri non hanno detto niente sui DRG?" Ora non è vero però che gli psichiatri non hanno detto niente sui DRG. Mi ricordo un numero monografico di "Lettera" che è forse la rivista più diffusa in ambito psichiatrico che era proprio dedicato ad una critica dei DRG. Mi ricordo anche degli articoli apparsi su un numero monografico di "le scienze" quindi una rivista importante a livello divulgativo con articoli di Ciompi e di altri che criticavano questa impostazione. Mi ricordo anche questa impostazione è stata criticata anche da un economista, c'è un numero di "Mental" dove il responsabile del settore economico della sanità svizzera, Carlos Kreiber, criticava questo modello. Il problema è allora "come mai non è riuscito a diventare Cultura?". Io su questo azzarderei due possibili ipotesi. La prima che convoca uno spettro che qui è stato sempre allontanato, che è il problema del Potere. Anche nel funzionamento delle équipes noi facciamo sempre finta che questo problema possa essere accantonato, allontanato, e forse sarà il caso anche l'anno prossimo, tra i tanti temi, di reintrodurre questo problema, del potere nei gruppi, del potere nel campo politico anche perché se la critica scientifica non riesce mai ad accedere al piano politico, probabilmente ci saranno opportunismi, ci sarà tutto quel che si vuole, per cui alcune cose possono essere dette in ambito ristretto e scientifico, però non diventano mai cultura comune. E questo è un primo aspetto. Il secondo aspetto, e qui forse è un po' più difficoltoso perché qua vediamo la parte negativa del consenso. Io credo che ci sia stata una sorta di manovra a metà tra il furbo e l'impotente da parte di tanti ambiti psichiatrici, che è stata quella di scaricare il prezzo che non si riusciva a pagare come peso sulle famiglie in termini di tempo, di aumento della sofferenza, di doversi aggirare tra i tanti nodi della psichiatria esistente, perché credo che oggi se la famiglia ha la sfortuna di avere un familiare affetto da malattia psichiatrica veramente sia una delle disgrazie più grosse che le possano capitare anche in termini di risposte parziali, mancate che riceve da parte delle istituzioniÖ dopo l'eroinaÖ forse anche prima dell'eroinaÖ allora che cosa succede, che il "caso" da caso clinico diventa caso sociale. Questo è stato il vero passaggio. Ed è questo che permette anche di evitare di farla diventare "pressione politica" o quanto meno una richiesta alla politica di farsi carico di un'eventuale modifica dei DRG e cioè lo si è scaricato, il "Caso" non è più un caso clinico, un caso psichiatrico, è diventato un caso sociale. Allora intervengono un po' tutti, ma l'intervento più grosso, e qua dovremmo davvero provare ad interrogarci, oramai grava sulle spalle delle famiglie che si fanno carico di un raddoppio di sofferenze, di un raddoppio di perdite di tempo, di un raddoppio di soldi, anche proprio in termini economici perché si cercano le strade private e così viaÖ senza che nessuno si interroghi. Ecco, questo sì è una complicità che forse anche gli psichiatri e le istituzioni psichiatriche dovrebbero interrogarsi.

DI GIOVANNI:

Anche per i pazienti psichiatrici esiste uno stato sociale infatti, guarda caso, da noi non arrivano mai i figli di alcune famiglie, strano ma vero.

UNO SPECIALIZZANDO:

Io volevo darle una risposta a proposito di quello che ha detto: credo che ci sia un sottile fraintendimento su quello che lei ha detto perché ha parlato del fatto che a noi mancano dei "mattoni" che acquisiremo fra un po' di anni, però in realtà secondo me non è solo un problema di "mattoni" perché lei ha parlato per esempio di un significato del sintomo che sottende un modello teorico. È come se a un certo punto lei ci dicesse: "Comunicheremo quando voi abbraccerete il suo modello teorico" qualunque esso sia, è questo che secondo me non è giusto, nel senso che dovremmo riuscire a comunicare lo stesso.

VIGANÒ:

Lo conosce, mi chiedo, lo vuol conoscere, sì o no? Io il suo lo conosco, il DSM me lo sto studiando, come è stato fatto, i suoi criteri, i modi di applicazione, i casi Ö il modello per cui il sintomo può avere un senso soggettivo non è che l'ho abbracciato, non l'ho erotizzato fino a quel punto, però certo lo usoÖ e mi do' da fare perché sia maggiormente conosciuto, in questo sensoÖ

CANEGALLI:

Prendo spunto da questo perché, a proposito del discorso del potere, credo che vi sia anche scarsa capacità di influire su certi processi, che sono processi amministrativi, effettivamente di politica sanitaria, ed è evidente che nessuno ha la pretesa che ogni piccolo servizio possa influire sulla politica sanitaria del paese, però è possibile influenzare la politica sanitaria della propria azienda. Bisogna però avere in qualche modo anche l'umiltà di mettersi nella condizione di conoscere il modello interpretativo dell'amministrazione. In questo senso è anche vero che, se l'amministrazione ragiona in termini di Psiche piuttosto che di DRG piuttosto che di tariffe, bisogna avere l'umiltà e il coraggio di entrare anche in quel mondo per poter discutere alla pari e comunque trovare un dialogo. In questo sono d'accordo che siamo messi male nel senso che la difficoltà più grossa che ho incontrato in questi anni di dibattito su un certo tipo di modello è stata quella di non essere mai stato sostenuto da qualcuno che, dal versante tecnico, medico, avesse la disponibilità di entrare nel merito. Non si è mai entrati nell'ordine di idee di confrontarsi. In questo riconosco una mancanza da parte nostra. Devo dire che, a vantaggio degli specializzandi e dei giovani medici, che hanno invece più disponibilità in questo senso, essi non si arroccano più in una posizione molto aristocratica, mostrano la loro disponibilità a confrontarsi, "prima vediamo che cos'è questo modello e poi vediamo di discuterlo". Alla fine però il problema è un problema di potere, perchè alla fine chi decide decide.

FRENI:

Devo dire che mi gira la testa con tutte queste cose dette qui, però temo che nelle ultime battute c'è il rischio di buttare adesso sull'amministrazione, sulla politica una problematica che era partita nel nostro dibattito come una problematica relativa al sapere psichiatrico contemporaneo e, soprattutto, i suoi rapporti con la pratica perché se io non avessi la certezza che 4-5 équipes lavorano bene in Lombardia dovrei davvero pensare che la psichiatria potrebbe essere cancellata dalla politica sanitaria. E quindi, se devo pensare, come sarei propenso a fare, che i casi che abbiamo affrontato quest'anno, anche l'anno scorso, sono abbastanza rappresentativi della media di una prassi psichiatrica contemporanea, allora dobbiamo ammettere che c'è una grave carenza formativa negli psichiatri attuali, operanti. In parte sicuramente la responsabilità è degli organi preposti alla formazione degli psichiatri, e le scuole di specializzazione sicuramente hanno il loro ruolo, anche se io ho la presunzione di credere che questa scuola negli ultimi anni qualche cosa negli ultimi anni la sta facendo per metterci una pezza, però ahimè insufficiente perché acquisire la capacità di entrare nel rapporto soggettivo con il paziente è una cosa che non si può insegnare ex cathedra, è una cosa che richiede un tirocinio intensivo, supervisionato e ahimè qualche volta richiede anche un'esperienza personale. Allora mi pare che ci stiamo accorgendo sempre di più che, nel momento i cui ci apriamo a un discorso autentico di integrazione dei trattamenti, emerge l'incongruenza e l'inconsistenza di una clinica psichiatrica basata sul modello medico. "Psichiatria" è poco "Medicina". Se dovessi fare una valutazione percentuale direi che di atti puramente medici in psichiatria ce ne saranno nell'ordine del 20-30 % massimo, il resto è "Psico", molto "Psico", e "Sociale". Quindi il problema delle valutazioni economiche andrebbe riproposto sulla base del se noi siamo in grado di formulare delle modellistiche di economia sanitaria specifiche per la psichiatria tenendo conto della sua particolarità l'abbassamento dei costi a mio avviso lo possiamo ottenere con molta semplicità con un atto sia pur anche autoritario per cui si riveda l'opportunità di questi lunghi ricoveri, all'interno di un Policlinico dove un posto-letto costa un milione al giorno, perché io credo che la psichiatria non ha bisogno di questo. I malati psichiatrici che hanno bisogno di stare qui ricoverato per fare degli esami particolari che è agevole fare qui ce ne saranno un 10% e per periodi al massimo di 10-15 giorni. Quindi il DRG ha ragione nel ragionare in quel modo quando appiattisce l'atto psichiatrico all'atto medico della medicina e della chirurgia, ma non è questa la psichiatria. La Psichiatria medica rappresenta non più del 20% della totalità della prassi quindi noi abbiamo bisogno di diversificare i costi e di andare a vedere di quanto c'è di costo secondo criteri sociali e quanto c'è di costo sulla base dei criteri della medicina. A questo punto però interviene un altro fattore: ci stiamo accorgendo che, man mano che noi ci apriamo all'integrazione, ci siamo dentro fino al collo. La questione che saltava fuori quest'anno era che si capiva mai dove il discorso di transfert del paziente andava a finire: chi lo raccoglieva, chi lo gestiva e chi lo restituiva. Non c'era mai nessuno. Si pensava che l'équipe anonima potesse fare questa operazione. Questo è una bugia. E noi inganniamo i pazienti. Questo è un punto fondamentale con cui dobbiamo fare i conti, è un punto di formazione ed è un punto di prassi per cui io penso che oggi non si possa non credere a questa cosa che viene chiamata transfert o dialettica transfert-controtransfert , identificazione-controidentificazione. Ci siamo dentro fino al collo anche noi perché sono fenomeni basici (basilari) dell'essere umano non del malato psichiatrico in quanto tale. Allora la condivisione è forzata da questi fenomeni cioè il soggetto ci chiama a condividere un'esperienza, e noi ci sottraiamo e gli rispondiamo con bugie, lo inganniamo e creiamo cronicità. Abbiamo visto come la cronicità iatrogenicamente indotta era l'elemento fondamentale, ma non perché son cattivi questi, è cattivo quell'altro, come giustamenente ha detto Viganò all'inizio, ma perchè di fronte a questa specifica prestazione c'è il fuggi fuggi o ci si rifugia dietro ad un'anonima équipe assunta come responsabile della totalità, come è stato detto da Castaldi, da Cozzi etcÖ la responsabilità in clinica è sempre individuale, in ogni caso va condivisa col paziente. Noi abbiamo bisogno di aiutare i pazienti a riacquisire, a ri-assumere la loro responsabilità, quanto meno di se stessi. Io personalmente ritengo che in un approccio integrato, quando uno schizofrenico è capace di assumere la responsabilità della propria cura farmacologia in prima persona, è un grande successo. Finchè invece abbiamo gli schizofrenici a cui gli infiliamo nel culo il long-acting, ci deve essere il familiare paranoico che decide lui se dare o non dare il farmaco, quando darglielo, quale darglielo etcÖ è un grave insuccesso dell'operatore. Allora sono questi i problemi su cui noi dovremo insistere. Allora sì che potremo andare dall'amministratore, dal politico, a dire: "No, guarda, qui se tu vuoi fare una valutazione, si deve valutare come questo specifico tipo di intervento funziona rispetto a quest'altro, come ricoverare il paziente in una casa-alloggio funziona meglio che ricoverarlo in ospedale, se la casa -alloggio ha queste particolari caratteristiche, se il paziente ha un referente preciso, se le Équipes sanno lavorare con queste particolarità che noi riteniamo perché una prassi psichiatrica possa ragionevolmente funzionare. Questa è la sfida che si pone alla psichiatria contemporanea. E abbiamo visto anche casi freschi, giovani, il suo caso, per esempio, lui, che lavora in un ambiente psichiatrico fortemente medico di avanguardia, ci porta il caso di ventenne destinato ad essere trattato come venivano trattati 20 anni fa, dando luogo a questa grave scissione, come accennava Viganò, tra una psichiatria accademica e quello che devi imparare fuori dall'accademia. Altra cosa gravissima: qui non si può fare l'analisi personale, ma se voi seguite e supervisionamo l'approccio integrato che stiamo cercando di ottimizzare qui, mi pare che le cose funzionino in modo diverso. Allora "Prendi questo farmaco e vai" abbiamo visto che il paziente, man mano che si allontanava dalla relazione con il terapeutica, si cronicizzata mentre invece, quando funzionava in una relazione viva e creativa, si responsabilizzava. Allora stiamo scoprendo un altro fattore: che la clinica di Psiche è la clinica della relazione e il suo modello di base è quello psicoterapeutico. Poi il resto (il farmaco etcÖ) è qualcosa che chiamiamo dentro come aiuto. Il ricovero più o meno provvisorio, il ricovero in una situazione di crisi etcÖ non sono quelle le cure È questo errore, questa bugia di base che ci trasciniamo, che è stata in parte determinata dal prof. Cazzullo che ha voluto medicalizzare fortemente la psichiatria. E adesso stiamo assistendo ai danni di questa cosa. Allora l'alternativa al manicomio è stata la medicina generale in psichiatria. No, dobbiamo trovare una terza via che dia a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, dia alla componente della psichiatria la sua referenzialità medica; dia alla parte "Psico" che secondo me è la più importante appunto la centralità della relazione, e dia al sociale quel che gli spetta. Allora vediamo come i conti tornerebbero. Noi abbiamo pazienti ricoverati da un anno, da tre anni, in un ospedale come il Policlinico, ma è un assurdo, è una gravità questa. Allora l'amministrazione a quel punto può e deve avere più fiducia dei suoi operatori, deve dare un margine anche individuale di decisione se no uno si terrorizza, non decide più niente, si deresponsabilizza, oppresso com'è dalle conseguenze medico-legali e non fa nienteÖ e la collusione bugiarda diventa il criterio di cura standard. Questo è il punto forte. Allora dobbiamo vedere se siamo in grado, magari con l'aiuto di economisti etcÖ di fare delle modellistiche specifiche per l'iter psichiatrico che non può essere assimilato al ricovero in medicina, in chirurgia etcÖ è un assurdo questo. Ecco io credo che quest'anno abbiamo toccato con mano che ci siamo dentro fino al collo con i nostri pazienti e non possiamo sfuggire a questa cosa. Non possiamo sfuggire al loro potere, stavolta si potrebbe dire che è il potere di metterci in crisi, di renderci impotenti, di farci sentire ignoranti etcÖ Il paradosso qual è? Che il paziente che si cronicizza è quello che si dimostra più potente di noi perché ci fa vedere quanto siamo incapaci di aiutarlo. Ogni volta che si cronicizza un paziente io vi ho sempre cercato di insegnare su che cosa abbiamo fatto noi per concorrere a questo decorso. In via preventiva è sempre meglio partire da qui, anche se è molto severa come cosa, piuttosto che giustificarsi con la politica, l'amministrazione, non mi danno i soldi, non ho abbastanza personale, perché il "più personale" io non sono affatto d'accordo che significhi subito "migliore qualità di" perché il "più" se non si trasforma in una qualità, rimane una quantità e quindi addirittura con il rischio di far più confusione perché poi, come giustamente diceva il Dr Bertoglio, a furia di degradare questo modello, si assiste al fatto che si va a cercare di "accalappiare" i pazienti, gli utenti, come si dice oggi. Il cittadino utente diventa oggetto di "sequestro" a parte di questo o di quest'altro proprio perché, attraverso questi giri, "Questo lo tengo una settimana io e la Regione paga", poi cambia fruitore, lo tiene una settimana un altro, e la spesa di un unico centro di costo apparentemente si è ridotta, ma nella totalitàÖ? Questo è un punto secondo me dove gli operatori, gli accademici, gli amministrativi, i politici, se vogliono davvero fare una cosa autentica, hanno di che lavorare integrati. Ma questa è un'integrazione di altro livello, a me personalmente interessa quella più clinica perché il resto potrebbe servire per eludere il momento clinico che è quello dove la difficoltà diventa grave.

BERTOGLIO:

Ö

L'azienda deve trovare un interlocutore con cui poter fare dei progetti. Cioè il momento dei progetti è il momento della bontà di dimostrarli, è il momento di essere degli interlocutori che parlino, che dicano, che si espongano all'interno di un clima da budget. Quello che sta andando adesso di moda, ma mi sembra una moda che mi sento di favorire, è quella di una negoziazione. Cioè: "Io ti do' queste risorse, queste risorse non sono obbligatoriamente per te e non ti sono dovute, caro operatore, tu operatore mi dici quali sono i tuoi programmi". A fronte di programmi convincenti possono venire le risorse, non c'è nessun progetto obiettivo che possa dire che ogni 1500 abitanti ci devono essere tot operatori, questo valeva fino a qualche anno fa, adesso non vale più. Io sono stato protagonista, ogni tanto con qualche senso di colpa, insieme ad altri della costruzione di progetti obiettivi della Regione Lombardia. Io mi assolvo dicendo che in quel momento potevano essere utili perché in un'assenza di rete, di strutture, era necessario dare dei parametri minimi per queste strutture per cui definire i parametri del personale, definire la rete delle strutture era necessario farlo, per cui bene o male a questo risultato si è arrivati, si riesce a intravedere una trama di modello presente nel territorio. Adesso però quel vecchio progetto obiettivo non può più essere ri-editato così, assolutamente, dobbiamo trovare un'altra modalità molto più dinamica e molto più negoziale. Questo mi sembra il primo punto, quindi bisogna entrare nell'ottica di una budgettizzazione, di una negoziazione tra risorse possibili e programmi, tenendo conto che le risorse non è vero che siano scarse, non sono dilatabili. Intendo dire: a ben guardare le risorse che spendiamo sono cifre enormi e tutto sommato non sono piccole. Il problema è che non sono più dilatabili. Cioè: se vogliamo trovare delle nuove attività, dobbiamo smetterne di vecchie. Il discorso di Freni è chiarissimo. Dobbiamo trovare dei risparmi e dei ricicli all'interno di quello che spendiamo, cioè togliere le sacche di inefficienza, andare a pescare sacche di non produttività, ma non economica, di non produttività cultural-operativa; e da lì recuperare risorse per nuove iniziative perché aggiungere altre spese non è possibile, ma non solo nella Regione Lombardia, non è possibile da nessuna parte del Mondo nel clima economico del welfare-state che stiamo vivendo tutti per cui le risorse non sono poche, ma non sono più ampliabili, non sono più dilatabili. Da ultimo mi associo, se ho bene inteso, al problema della responsabilità. È vero che un'azienda in questo momento ha bisogno di trovare della gente responsabile, ma anche qui, schematizzando e semplificando, a me pare che le équipes che funzionano, funzionano quando c'è un soggetto che si sbatte, quando c'è un soggetto che si dà da fare, e questo soggetto aggrega altri con lui intorno ad un progetto diventando un soggetto che gioca una sua responsabilità nel campo specifico in cui si trova. Noi abbiamo bisogno di persone così con cui interloquire. E siccome si ha la percezione che non tutti si sia Santi e non sia obbligatorio essere Santi per legge, ecco allora che si capisce come la regione Lombardia ha immaginato l'elemento competitivo, come elemento di pungolo per un cambiamento. Non potendo far leva sulle prediche e sul cambiamento dato per ovvio, dato per certo, semplicemente perché ideologicamente uno deve cambiare ed essere disponibile, è stato inserito l'elemento della competizione, del confronto per inserire un elemento di cambiamento verso l'alto, cioè di una continua ricerca di un equilibrio migliore tra risorse consumate e qualità e quantità delle prestazioni. Una competizione che metta in moto una ricerca di un equilibrio sempre migliorabile. Mi chiedo se per quanto se la psichiatria possa rimanere immune da questo meccanismo, e se non sia il caso prima che altri lo impongano, se non sia il caso, come qualcuno diceva, di non trovare noi per primi dei modelli, dei meccanismi, mettere in atto delle ricerche per fare delle proposte in questo senso. E mi sembra ormai che quasi stiamo perdendo il treno. Siamo ancora proprio sul limitare ultimo del saltare su questo treno.

Grazie dell'attenzione.

VIGANÒ:

Grazie al dr Bertoglio. Io manterrei l'orario e mi permetto di aggiungere un piccolo ringraziamento a tutti voi che avete partecipato, avete interloquito col lavoro di quest'anno con tutte le difficoltà di comunicazione, resistendoÖaffrontandole. Io ho imparato molto quest'anno e ne sono grato a ciascuno di voi. Vi faremo conoscere verso fine settembre 2000 il progetto di un nuovo lavoro per l'anno prossimo. Credo che potrà comprendere una "commissioncella", sicuramente guidata dal Dr Canegalli sui modelli di monetarizzazione e di finanziamento della psichiatria in vigore e le possibili modifiche. Questo mi sembra un dato che è emerso oggi. Non avevamo mai pensato almeno in questo contesto a questa cosa.

Arrivederci

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