PRESENTAZIONE DEL CASO
Mi chiamo Montepilli, sono psicologa e lavoro in un CPS.
Verso la fine di Dicembre 1997, uno psichiatra del SPDC mi chiede di prendere in carico un pz, in quel momento ricoverato in reparto, più con l'obiettivo d i tentare di tenerlo agganciato al servizio, che non di raggiungere qualche ambizione terapeutica. Il caso mi viene brevemente descritto come grave e viene sottolineato lo sguardo inquietante del pz, che sembra aver colpito il personale della Divisione. Alla proposta è presente anche lo psichiatra del CPS, che seguirà il pz dopo la dimissione e che annuisce alle parole del collega.
Il ricovero volontario, avvenuto a seguito di blocco catatonico e la cui diagnosi è di Psicosi NAS, è avvenuto il 15/12/97 e terminerà il 9/1/98, all'incirca un mese prima ce n'era stato un altro: dal 9 al 11/97 con la medesima motivazione. La terapia farmacologica alla dimissione di novembre è: Serenase 25X3; En 2mg 1/2 +1/2 +1 cp; Halcion 0,25 1 cp. Quella alla dimissione del 9/1/98 è: Serenase 30 X 3; En 15+15+30; Halcion invariato e Akineton R 1 cp.
Apro una parentesi. Quando mi viene fatta questa richiesta io mi ero trasferita da un paio di mesi in quel CPS ed era la prima volta ed era la prima volta che incontravo lo psichiatra del SPDC. Nel corso del trattamento col pz, qs psichiatra mi ha più volte espresso impliciti segni di critica nei confronti del collega del CPS. Preciso che le critiche erano in una sola direzione.
L'esposizione del caso segue la scansione temporale reale, sia sugli avvenimenti, sia sull'apprendimento di dati ad esso relativi.
Le notizie che ora comunicherò sul pz, mi vengono in parte verbalmente trasmesse nella riunione in reparto con lo psichiatra proponente, prima dell'incontro che avrò con il pz e la madre, ed in parte sono attinte dalla lettura della cartella.
Si tratta di un giovane di 22 anni, che vive con la madre ed un fratello di lei. Lo zio ha avuto, qualche anno fa, un ictus cerebrale di cui non si conosce il grado della menomazione. La madre si sposa intorno a i 40 anni. Durante la gravidanza da cui nascerà F. (nome fittizio) avviene alla separazione dei coniugi.
Nell'infanzia, adolescenza, giovinezza, F incontrerà a più riprese il padre, persona violenta, etilista, probabilmente psicotico. I loro incontri hanno sempre un esito burrascoso. Da bambino F veniva frequentemente picchiato dai genitori per futili motivi, anche con la cinghia dei pantaloni. Le percosse si verificavano sia durante le visite che il ragazzo faceva nell'abitazione del padre, sia quando questi lo aspettava per strada, sia dopo improvvise incursioni a casa, dove l'uomo faceva chiamare il figlio fuori dalla classe. In merito a qs eventi, viene rilevato dal compilatore della cartella, la colpevole assenza di interventi per fermare il sadismo dell'uomo. Durante la frequentazione delle scuole medie, il padre fa un esposto al tribunale dei minori, dichiarando che il figlio è un drogato. Segue un'indagine per stabilire la veridicità delle affermazioni e per più volte F si deve sottoporre a degli accertamenti, che risulteranno negativi. Dopo qs evento, F ha circa 12 anni, la madre denuncia l'ex marito e fa domanda per togliere il cognome del padre al figlio. Malgrado tale denuncia e il decadimento della patria potestà, il padre continuerà a molestare il ragazzo. Dal raggiungimento della maggiore età, F porterà il cognome della madre.
Dopo le scuole medie, frequenta il liceo scientifico. In seconda viene bocciato a seguito di un trauma testicolare subito durante una partita di calcio, trauma che gli impedirà per lungo tempo di seguire le lezioni. In un istituto privato supera la seconda e terza liceo in un solo anno. Al quarto anno il rendimento scolastico diminuisce. Verso la fine dell'anno scolastico Maggio 1994, (F ha 17 anni) avviene il primo ricovero psichiatrico. E' la madre che ha chiamato la polizia a seguito delle percosse subito dal figlio. La signora dice che diverse volte aveva dovuto ricorrere al pronto soccorso, sempre mentendo sull'origine delle lesioni. Il padre risulta, in quella circostanza, irreperibile. Leggo che F "accetta senza problemi il breve ricovero (5 gg). Dice di non sopportare la madre, il modo in cui parla. Dopo i pestaggi prova rimorso, ma continua a picchiarla. In casa il suo comportamento è dispotico ed autoritario, la vita di relazione è povero, nessuna esperienza affettiva femminile. Dai curanti viene definito " di intelligenza molto acuta, con una lettura profonda delle dinamiche che accadono. I diversi operatori evidenziano il comportamento provocatorio della madre, al sua aggressività verbale e l'enorme collusione col pz". Alla dimissione si precisa che il pz "ha tratto comprensione dal ricovero" e vengono ancora rilevate le sue "notevoli capacità di riflessione nel valutare e considerare l'accaduto".
La terapia farmacologica alla dimissione è di: Serenase 20 gtt X2; Disipal 1cp e, al bisogno, 20 gtt di En. Viene inviato al CPS di zona dove avrà un solo incontro con lo psichiatra.
Un anno dopo 1995, c'è una breve certificazione della responsabile del CPS relativa alla richiesta di esonero dal servizio dove era.
A fine 1997, come ho detto, avvengono due ricoveri in tempi ravvicinati, entrambi per blocco catatonico. Le informazioni che si acquisiscono – sempre desunte dalla lettura della cartella clinica del SPDC – sono le seguenti:
F è stato in terapia, privatamente, per circa due anni. Dal primo ricovero Maggio 1994 fino all'Autunno del 1996. Nel giugno del 1997 ha preso la maturità per Geometri, dopo aver abbandonato il Liceo, frequentando un anno integrativo di scuole serali. Durante la maturità è andato a vivere da solo, in una stanza molto disagiata e si è trovato un lavoro come cameriere. Entrambe le esperienze sono durate per un paio di settimane. Nel Settembre 1996, un anno prima dei ricoveri avvicinati, F aveva ripreso i contatti col padre su sollecito di una telefonata da un'altra regione, da parte di un'Assistente sociale, preoccupata per lo stato di salute dell'uomo. In seguito, sembra che qs non fosse una AS, ma un'amica. Verso la fine del medesimo anno ci sono state, tra F ed il padre, diverse telefonate. Telefonate che F faceva con l'intento di riunire la famiglia. Durante le vacanze dell'estate 97, F va ancora in Sardegna per incontrare il padre. Hanno un incidente in macchina, per una lite insorta tra i due. (successivamente, F mi ha parlato dell'episodio, ascrivendo a sé stesso la responsabilità dell'incidente. In quella seduta, come nelle poche altre in cui mi ha parlato di lui, le sue parole non erano accusatorie e il suo atteggiamento era di tutela nei confronti del padre).
Primo mio incontro con F e la madre insieme al medico del reparto.
A F viene fatta la proposta di essere seguito da una psicologa. Sollecitato premurosamente dalla madre, accetta con un vago sorriso scettico. Nel successivo colloquio senza F la signora mi dà alcune notizie sul suo matrimonio. Dice che è stato voluto e combinato dalla famiglia che voleva farla sposare ad un uomo della stessa regione loro. Giustifica il suo assenso passivo con le argomentazioni dei familiari: "Non sei più giovane, devi farti una famiglia, lui è come noi… ecc." Aggiunge di essersi subito resa conto della impossibilità del legame a causa del carattere violento del marito. Dopo due mesi si separa. (Non è noto se al momento della separazione la signora sapesse già di essere incinta). Torna a vivere con la propria madre ed il fratello. Di F dice che è molto intelligente, ma chiuso. Il trattamento privato col neurologo X, con cui F si era trovato benissimo, sembra sia terminato per ragioni economiche, non è chiara in merito.
Implicitamente attribuisce l'aggressività del figlio alle aggressioni subite dal padre. Mi ripete la vicenda del presunto uso di droga, sottolineando il trauma che il ragazzo ha risentito nel dover compiere gli accertamenti richiesti dal tribunale M. Aggiunge osservazioni sulla violenza dell'ex marito, che si scatenava per un nonnulla. Di sè dice di aver lavorato per 30 anni alla Rinascente e fino all'età della pensione. L'atteggiamento della signora è diffidente, proteso ad una collaborazione che avverto come forzata. Io non avrò più incontri con lei, se non brevi scambi di saluti occasionali e di auguri durante le ultime festività natalizie.
Dopo qs incontro il caso viene discusso in supervisione: si decide di dare anche alla madre un ascolto. Tale intervento verrà fatto dallo psichiatra del CPS che avrà in carico F, sulla base di una collaborazione per il controllo della terapia farmacologica. Valutiamo che la separazione tra i due è più che auspicabile, ma di là da venire.
Durante la degenza di F, quella di fine 97, lo psichiatra del SPDC ha uno scontro forte con la madre. Tale scontro è suscitato sia dall'ambiguità dell'atteggiamento della donna nel rapporto con lo psichiatra, sia dal suo comportamento con F, al quale – leggo- lei sembra concedere ogni cosa. Per inciso, ma non riportato in cartella, la signora dirà che : "per l'amore di un figlio si può arrivare anche ad uccidere". Lo psichiatra la rimprovera di aver ospitato l'ex marito, fatto venire da F poco prima del ricovero e, a seguito delle reiterate richieste di dimissioni sollecitate dalla signora, a sua volta sollecitate telefonicamente a lei da F, il medico le risponde: " che non ha nessuna intenzione di dimettere il pz subito dopo la crisi catatonica, in un ambiente che ritiene emotivamente malsano". La signora si infuria e minaccia di denunciarlo.
Nel primo colloquio che io ho con F in Cps, dopo il quale il silenzio si protrarrà per settimane, mi comunica, con un linguaggio lavoro adeguato al suo diploma di geometra. Da qs incontro e per i successivi, quando riprenderà a parlare, sarà qs il tema costante delle sue comunicazioni.
Nel secondo colloquio, F, dopo qualche sguardo che mi mette a disagio, abbassa la testa e rimane in quella posizione per tutto il tempo della seduta. Mi resi subito conto che io dovevo elaborare la paura, in parte fisica, in parte indefinita, che lo sguardo del pz mi suscitava. Se io avevo paura del suo sguardo, lui aveva paura della mia paura. Era evidente che in quelle condizioni gli incontri si sarebbero presto esauriti. chiarito a me stessa che non c'erano ragioni oggettive per sentirmi minacciata, ho affrontato i successivi colloqui con serenità.
F veniva alle sedute, non pronunciava una parola, stava con la testa bassa, ogni tanto sbadigliava e guardava l'orologio. La medesima situazione si verificava negli incontri con lo psichiatra. Dopo circa un mese di silenzio mi accorsi che, guardando casualmente fuori dalla finestra, F alzava la testa per guardare me, ma intuii che non voleva che facessi altrettanto. Da quel momento e gradatamente, f diventa meno chiuso e diffidente. In CPS viene sempre accompagnato dalla madre. Quando incomincia a passare dai monosillabi a brevi discorsi, il soggetto di essi è sempre il lavoro. Io gli dico che per raggiungere tale obiettivo occorre fare un percorso che comprende sia lo spostarsi autonomamente, e lo incito a venire in CPS non accompagnato, sia dare avvio a minime relazioni con gli altri. Spesso ribatte che è inutile. Tuttavia incominca a venire da solo prendendo i mezzi pubblici. In maggio farà dei giri in bicicletta e incomincerà a portare il cane ai giardini.
A giugno arriva a dirmi di stare meglio "dentro". Il soggetto dei suoi discorsi è sempre il lavoro. Lavoro che gli permetterà di acquisire l'agognata autonomia e soprattutto di andarsene da casa. Il mio lavoro è quello di fargli assumere al riguardo una posizione più realistica: vagheggia di andare i America, magari in Australia. Io gli rispondo che il suo obiettivo potrà essere raggiunto per gradi. In qs periodo vengo a sapere dallo psichiatra che la madre lo imbocca e, attraverso domande sull'andamento domestico, lo sollecito ad essere più attivo in casa, ad accompagnare la mamma a fare la spesa ed a prepararsi da sè la colazione.
A volte è attento, a volte annoiato, abbastanza spesso replica che è "inutile". E' inutile venire, è inutile parlare di qs cose, quello di cui ha bisogno è un lavoro. In una seduta mi dice che sono gli altri che lo evitano, anzi che "scappano" quando lui li guarda. A conferma, dice che mentre camminava lungo il marciapiede, vede un camion fermo, guarda l'autista e questi mette in moto e via!, "ha guardato me ed è scappato" – dice – . Replico che io non sono scappata e aggiungo che anch'io mi sono sentita a disagio nei primi incontri a sostenere il suo sguardo. Intorno a giugno, su sollecito della madre allo psichiatra, si prospetta la possibilità di un inserimento in una comunità terapeutica, lo vengo a sapere dal pz stesso. La prossima dimissione di una pz del CPS da una comunità, rende possibile in tempi abbastanza brevi il progetto. Io lo sostengo dicendo a F che in comunità avrebbe potuto apprendere l'uso del computer, acquisendo in tal modo competenze ulteriori in ambito lavorativo. Si mostra interessato a tale eventualità. Intorno a metà luglio, F e la madre visitano la comunità. So dallo psichiatra che l'esito della visita non è stato favorevole. F me ne parla solo dietro mio sollecito: sbrigativamente mi comunica di essere rimasto colpito dagli ospiti, che " avevano tutti un aspetto molto malato". Verso fine luglio esprime sentimenti depressivi, si chiede perchè è nato. Mi riferisce che le sue uscite sono inutili e fallimentari rispetto ad un obiettivo di maggiore integrazione sociale: lui non è fatto per la società e la società lo respinge. Mi porta un altro episodio: ha portato il cane al parco, un signore con il cane gli si avvicina e gli chiede di che razza è il suo. F risponde e chiede a sua volta la razza dell'altro. "Il tizio – dice- ha incominciato a sudare, ha acceso una sigaretta e se ne è andato." Io faccio rilevare a F il cambiamento avvenuto nel nostro rapporto in qs mesi. E' l'ultima seduta prima delle vacanze estive. Mi informo sulla meta delle sue vacanze e dice che forse andrà al mare con la madre in un istituto di suore: ha un'aria rassegnata.
I primi di settembre ha un colloquio con lo psichiatra dove si descrive come cambiato. E' "un'altra persona rispetto al 94", – dice- non c'è più aggressività nei confronti della madre ed è d'accordo nel valutare un progetto riabilitativo nel C. diurno del nostro servizio, che gli era stato proposto nel frattempo dallo psichiatra. (Anche qs intervento lo vengo a sapere dopo).
Insieme alla responsabile del Centro d. e alo psichiatra valutiamo le modalità per un inserimento. Viene stabilito un programma in cui F, per i primi tempi, avrà a che fare con un solo operatore, un educatore molto esperto. Incontro F il 21 Settembre, nel frattempo aveva incontrato un responsabile del CD e aveva fissato le date per i primi incontri. In qs seduta F mi dice che le proposte che gli vengono fatte sono inutili perchè non le trova correlabili al suo progetto di lavoro al più presto. Ci diamo appuntamento per la settimana successiva ma quattro giorni dopo è ricoverato in SPDC per crisi catatonica. Egli stesso aveva chiesto il ricovero. Verrà dimesso dopo 10 gg (5/10/98) con al seguente terapia: Serenase 30+25+30, En 1 mg 1cpX3, Halcion 0,25 1cp, Akineton 1cp.
In cartella (28.9.98) è annotato che "il pz esprime una profonda angoscia legata ad idee di morte: teme di poter morire, che la madre possa morire e dunque egli rimane solo. Chiede rassicurzione al riguardo. Non sono presenti disturbi del contenuto ideico di tipo delirante. Il pz esprime piuttosto tematiche d'angoscia legate al fallimento, alla possibilità di cambiare ecc." Nel colloquio, che lo psichiatra del reparto ha con la madre, viene ribadita "l'atmosfera di ambiguità, di falsità, di esagerata oblatività, che sembra segnalare il contrario delle parole dette". La madre minimizza l'accaduto e ipotizza che la crisi di F sia legata a disturbi digestivi. F dirà successivamente che la terapia farmacologica era incostante da 1- 2 settimane perchè, dopo l'assunzione, vomitava.
Durante il ricovero, F si lamentava "del colloquio deludente, ma soprattutto irritante, avuto con lo psichiatra del CPS al quale avrebbe espresso la propria angoscia di rimanere solo, se la madre morisse e quindi di finire come un barbone, senza alloggio, denaro, affetti. Rabbioso e deluso interpreta la risposta dello psichiatra come un invito ad arrangiarsi". Lo psichiatra del SPDC gli dice che, se non fosse in grado di lavorare, lo aiuteremmo con una pensione. Viene rilevato che durante qs ricovero c'è stata una rapida soluzione della crisi.
Fino all'ultima seduta, quella del 21 settembre, F non mi aveva portato i temi angosciosi sopra detti. io lo vedo 8.10 (arriva un'ora prima, ma dovrà attendere). Riferisce di uscire di casa perchè non ne può può del male che "lo pungola dentro" e qs è stata anche la ragione per cui si è fatto ricoverare. Poichè fuori non trova ciò che cerca, rientra in casa e si attacca sempre di più alla famiglia. Il "male" lo verbalizza come senso di vuoto e e paura che i suoi possano morire e anche lui morire. Teme di rimanere solo. In qs seduta gli dico che io e gli altri operatori ci stiamo prendendo cura di lui e che continueremo a farlo. Lo sollecito a considerare tale evidenza. Nella seduta del 16.10.98 confronta il suo attuale stato con quello in cui era "violento" ed afferma di avere, a differenza di allora, consapevolezza di sè e, proprio per qs, di sperimentare angoscia. Teme come prossima la morte della mamma.
Lo psichiatra del CPS, quattro gg dopo, ha un colloquio con la madre che mette in luce un problema economico piuttosto pressante. (Non viene precisato altro).
Il 23/10 F viene alla seduta. Il suo atteggiamento è di totale chiusura : lo sguardo è torvo e spaventato. Accenna ad un principio di pianto subito rintuzzato. Lo sollecito a dirmi che cosa gli sta succedendo ma non pronuncia una parola. Gli dico di chiamarmi durante la giornata se lo desidera. Al commiato guarda la mano che gli tendo ma non la prende. Gli fisso un incontro per il26.
Avverto lo psichiatra del CPS dello stato di F e nel pomeriggio incontro casualmente la psichiatra del SPDC e gli comunico il mio timore che possa quanto prima ricoverare di nuovo F. a posteriori vengo a sapere che lo stesso giorno in cui gli avevo fissato la prossima seduta aveva appuntamento in Centro Diurno. Ed è al CD che ha una nuova crisi catatonica. Viene chiamata l'ambulanza e ricoverato.
Il ricovero sarà dal 26/10/98 al 21/11/98. Alla dimissione la terapia è : Serenase 25×3; En 2 '+1/2cp; Halcion 0.25 1cp ; Akineton R 1cp.
Durante il ricovero la madre riferisce che da qualche giorno non assumeva la terapia e F diceva di sentirsi "strano". Leggo in cartella :
"che per circa 3 giorni il pz è mutacico ed oppositivo. Sguardo fuggente e angosciato. Successivamente pone egli stesso delle domande angoscianti che esprimono la sua capacità di uccidere e di pensare. Ma i dubbi più devastanti e l'ambivalenza maggiore sono centrati nel rapporto con la madre. Dice: "devo andare via di casa"………"non voglio rimanere a vedere la morte di mia madre e mio zio"…….."se muore mia madre morirò anch'io." (la domenica precedente, quando già F era mutacico lo zio aveva avuto un malore.) Nel colloquio con la madre lo psichiatra rileva la tendenza della signora a banalizzare e minimizzare lo stato attuale di F. In questo colloquio riemerge il problema economico. La signora: "afferma genericamente che la vita è più cara e che i soldi della sua pensione e di quella dello zio (1.700.000 lei, 500.000 lo zio) non sarebbero sufficienti. Sembra che dopo aver cercato un sistemazione economica per F tramite il padre ore la cerchi tramite la malattia. Avrebbe già fatto domanda di pensione di invalidità e la scorsa settimana avrebbe chiesto il sussidio.
F non me ne aveva mai parlato. Il 3/11 sempre dalla cartella si dice che "il pz è più collaborante ed è possibile il colloquio. F riferisce di avere autonomamente sospeso la terapia farmacologica perché non voleva rimanere sempre in cura presso i Servizi Psichiatrici………Sembra sempre alla ricerca di una distanza emotiva dalla madre : ipotizza di scomparire da un giorno all'altro. È questo per lui l'unico modo di allontanarsi e di diventare un giorno indipendente……..Può uscire di casa solo scomparendo". Nel colloquio del 5/11, che lo psichiatra del SPDC ha con la madre, emerge il problema della casa.
"La signora dice che ha ricevuto la visita di un agente immobiliare che gli ha comunicato che il proprietario ha venduto tutto l'immobile e gli inquilini hanno la possibilità di acquistare oppure di lasciare liberi i locali. Dice di non avere detto niente a F, ma subito dopo aggiunge di avergli detto che ha raccolto voci a tale proposito. Emerge altresì la paura fisica della madre per gli scoppi d'ira di F, comunque rari rispetto al passato".
Durante un giorno di permesso, la madre riferisce che f l'ha assalita con domande su che cosa sarà il suo futuro. Lo psichiatra nota che il pz gli ha posto generiche domande personali : come sta ?, quanti anni ha ? nell'ultimo incontro con la mamma di F, la signora si sofferma ancora sui problemi economici e di abitazione affermando che : "non c'è un uomo valido in famiglia che mi possa aiutare". Lo psichiatra le propone l'aiuto di un uomo valido nella figura dell'AS del CPS. Il giorno della dimissione che è stata più volte sollecitata, F è dubbioso. Avverrà il giorno seguente dopo che F precisa di aver meditato sul rientro a casa ed averlo accettato.
L' 11/12 vedo F in CPS, mi parla dell'attaccamento "assoluto" verso la madre e della sua incapacità a pensarsi separato da lei. Gli chiedo se le ultime crisi hanno una relazione con le proposte di Comunità e di CD, luoghi in cui si sarebbe recato senza di lei, mi risponde che è possibile, ma che ritiene anche che tali interventi sono inutili. Si anima letteralmente quando gli faccio alcune domande sull'ultimo ricovero. Mi parla di un ragazzo "grave" con il quale si è identificato. La gravità della malattia l'ha dedotta dalle attenzioni che riceveva da parte del personale. Lui non ha potuto parlargli perché il malato era inaccessibile al dialogo : "proprio come me un tempo – dice – il problema è che il troppo amore (le attenzioni del personale) soffoca, ti opprime e allora si diventa violenti come lo ero io". (Il ricoverato in questione era sotto stretta sorveglianza per la sua pericolosità : aveva ammazzato il vicino di casa con una mezzaluna ed era in attesa del trasferimento a Castiglione delle Stiviere.)
Il 15/12 lo psichiatra del CPS annota che F " ha nettamente ridotto le sue uscite e a casa fa frequente richiesta di rassicurazione".
Il 17/12, nella seduta con me, mi dice che non sta bene. Ha vomitato le pastiglie e si è sentito subito strano, pensa che tutto sia inutile e che " è destino che io muoia giovane". Il malato grave incontrato nell'ultimo ricovero l'ha riconosciuto come un suo vecchio compagno delle elementari, ed anche qs è un segno del destino. Teme di uscire di casa perché le persone lo evitano e mi chiede che cosa sarà di lui. Faccio il possibile per rassicurarlo. Tranquillizzandolo anche sulla sua paura dello sfratto, avendo io ricevuto rassicurazioni da parte dell'AS che tale evenienza non si sarebbe verificata.
Lo vedo ancora una volta prima di Natale. Mi porta un regalino che scarto subito. È molto soddisfatto della mia sorpresa per il piacevole omaggio.
Il 31/12 lo vede lo psichiatra. Annota che il pz è più disponibile al colloquio e più tranquillo. Ha tuttavia due incontri con la madre in cui nel primo la signora dice di essere "impressionata dalla violenza che sente in F", e nel secondo (13/1/99) che F " fa paura". Dice anche di aver preso uno schiaffo. Nella seduta con me del14/1/99 F è preoccupato per come stanno andando le cose in casa e per come andranno in futuro : "sempre peggio" – dice-. È irritato perché nell'incontro ce la madre ha avuto il giorno prima con lo psichiatra, questi ha rifiutato il sussidio. Sussidio che gli avrebbe permesso di vivere autonomamente e andarsene da casa. Io gli dico che l'importo, anche se lo ricevesse, è troppo esiguo per realizzare il su progetto.
Il 18/1 nell'incontro con lo psichiatra, dopo un lungo silenzio, fa richiesta del sussidio.
Il 22/1 in previsione della preparazione del caso da portare qui dico ad F che so poco di lui. Mi risponde che poiché sono laureata conosco benissimo la persona che ho di fronte. Avverto che F mi attribuisce poteri onnipotenti e gli rispondo con fermezza che so di lui quello che lui mi fa sapere. Accetta poi di parlare di sé, e da questa seduta fino all'ultima che avverrà il 12/2 è abbastanza interessato e loquace. A volte interrompe i ricordi introducendo il tema del presente : il lavoro. Io accolgo la sua richiesta facendo le considerazioni opportune. Comunico allo psichiatra questa comunicatività e interesse del pz. Mi dice che la madre, invece, continua con le sue preoccupazione e dice che F non va tanto bene.
Il 2/2 nell'incontro della madre con lo psichiatra, la signora riferisce anche sulle difficoltà nella gestione del fratello, ribadisce la difficoltà della situazione del figlio e propone "di metterlo in qualche posto".
Il 19/2 ancora la signora allo psichiatra dice "che non ci capisce più niente". F presenta "tante facce diverse" e lei non sa qual è quella giusta.
Il 26/2 giorno della seduta mi telefona la madre per dirmi che F ha l'influenza.
Il 1/3 F si defenestra. Non muore. Giustificherà il suo gesto allo psichiatra del SPDC con una frase che sembra una macabra barzelletta : "volevo uscire di casa".
Nell'ultimo, recente incontro che ho avuto con lo psichiatra del SPDC e a seguito del mio rilievo che ciò che sappiamo di F è raccolto durante le degenze ospedaliere, esprime la convinzione che è solo in questa sede, lontano dall'influenza della madre, che F può parlare d'altro che non sia il lavoro, il sussidio, la pensione d'invalidità. Rileva inoltre che è sempre durante le degenze che compaiono sulla scena personaggi la cui esistenza era prima ignorata da tutti. Lo psichiatra è convinto della presenza di un "mistero", di qualcosa che non si dice. Nel ricovero attualmente in corso, dopo il mancato suicidio.
F ha raccontato due eventi. Il primo riguarda il febbraio del '96, quando lui ha costretto a suon di botte la madre a ritirare una denuncia, che essa aveva sporto nei confronti del padre, per molestie e maltrattamenti a F e per il mancato contributo economico stabilito a suo tempo dal tribunale. secondo lo psichiatra F si sarebbe aspettato una "riconoscenza" da parte del padre mai avvenuta.
Il 18/3 ho un colloquio co F insieme allo psichiatra del SPDC.
Quando entro nello studio F è già presente e lo psichiatra gli chiede se è d'accordo che io ci sia, F fa un gesto di consenso e dice: "la dottoressa sa tutto". Prosegue il racconto interrotto dalla mia venuta ed io sono piuttosto sorpresa. Racconta sui suoi rapporti con la madre all'epoca dei suoi 11-12 anni. La chiama la "matrona". La parola onnipotente viene ripetuta più volte, ma è originata, mi pare, più dagli interventi dello psichiatra che non da F. In sostanza dice che la sua opposizione alle proposte della madre non era per le proposte in se stesse, ma perchè derivavano da lei. "Se me le avesse fatte mio padre – dice – o lei (rivolto al medico) le avrei accettate". Poi racconta un episodio abbastanza recente: pochi mesi fa ci sono state varie telefonate con il padre in cui quest'ultimo gli ha proposto di andare in Sardegna in una Comunità, da cui, quando sarebbe uscito dopo due anni, "avrebbe potuto afre quello che voleva". F dice di aver riflettuto sulla proposta, ma siccome suo padre è "inaffidabile e l'avrebbe lasciato marcire per due anni in quel posto", ha rifiutato. "Lui mi vuole sradicare da qui". Al rifiuto il padre gli ha risposto: "tu per me non esisti più". "Capisce?- mi dice – io non esisto più?, e l'ho perso per sempre" aggiunge. Io ho chiesto a f come mai non me ne aveva mai parlato e mi ha risposto che non se lo ricordava. Lo psichiatra ha obiettato che non ci credeva. F è parso inquieto. Ad un certo punto ha detto: "io me ne devo andare, devo andare via di casa". Lo psichiatra dice: "dove? nella legione straniera?". F rianimato replica: "c'è ancora?", "ma non so"- dice lo psichiatra. Io intervengo dicendo a F che qs è un suo desiderio da molto tempo e che dobbiamo valutare insieme dove, come,….non si può partire così. Il medico aggiunge: " sì, però F a casa sta male". "Certo – dico io – vediamo insieme cosa è meglio fare". F abbassa la testa e assume la posizione di chiusura che aveva nei primi incontri. Il colloquio volge al termine, lo psichiatra dice qualche parola di commiato. F mi dà la mano, trattenendo la mia più del normale e su qs stretta prolungata, che poi entrambi carichiamo un po' scherzosamente nel gesto, ci accomiatiamo.
Io mi sono chiesta che cosa rappresentavo per F e perchè con me parlava quasi esclusivamente di lavoro. Io ero l'onnipotenza benigna – quella che sa tutto – e che ha la magica facoltà di metterlo in condizioni di lavorare.
DISCUSSIONE DEL CASO
Freni: … il rapporto tra certe manifestazioni sintomatiche e la terapia farmacologica. Allora mi piacerebbe sentire dal suo punto di vista del terapeuta se lei ritiene che ci sia davvero stata una collaborazione tra lei e chi dà i farmaci, se lei è soddisfatta della farmacoterapia di questo pz. Opp. lei non è interessata alla farmacoterapia di questo pz. A lei interessa che questo pz prenda il farmaco x o y, o no?
D: no, perché non ho nessuna competenza.
Freni: no, perché non ha nessuna competenza. Le interessa indagare il vissuto soggettivo del pz rispetto ai farmaci? Quando il pz vomita i farmaci è interessata ad indagare questo vissuto, o no perché non è di sua competenza?
D: sì, sono interessata ad indagarlo. Infatti ne parlo con Francesco, gli chiedo perché arbitrariamente intende sospendere la terapia, perché non ne discute con il suo psichiatra, perché non mette in risalto questa difficoltà che lui ha con la sua terapia
Freni: si, il pz cosa dice?
Montepilli: ma, non è molto, è sempre, ha un atteggiamento sempre verso lo scettico, come se la terapia lui è in lotta con l'assunzione della terapia, perché l'assunzione della terapia lo qualifica come malato e quindi lui combatte sempre con questo comportamento che lo connota come malato.
Freni: gli ha anche proposto che lei avrebbe potuto, se lui vuole, parlarne lei con il collega della questione dei farmaci?
Montepilli: no, non gliel'ho proposto
Freni: allora, ho voluto chiarire queste cose, perché mi sembra che qs è un esempio classico della psichiatria media corrente, purtroppo e che spero che i giovani futuri specializzandi che sono qui non rappresentano più, insomma. E' un classico esempio dimalpractice da tutti i pdv; dal pdv diagnostico, dal pdv terapeutico, dal pdv della dinamica del (inc) e dal pdv di una presunta intentazione di un trattamento, che c'è in questo caso. E purtroppo devo scendere ad un ulteriore dettaglio : dal pdv del fatto che oggi non è più possibile che uno psicoterapeuta non sappia come funzionino i farmaci, così come non è più possibile che uno psichiatra non sappia in che cosa consiste il lavoro psicoterapeutico, non è più possibile, altrimenti non c'è l'equipe, altrimenti si danno risposte del cavolo, risposte burocratiche, ci sono dei servizi preconfezionati che danno questo, danno questo, danno questo, danno questo ma in una situazione di scissione più grave della scissione che porta (inc), quindi destinata a cronicizzare il pz, a contenere (inc) funziona meglio, ma certamente non creare fattori di evoluzione. Credo che questo caso tra l'altro, per come lo percepisco io, nono sia poi più grave se si (inc) potrebbe essere uno schizoaffettivo. Un paziente giovane trattato così, è una (inc) perché non si coglie per esempio la dinamica tra l'effetto svuotante del farmaco e l'emergenza di un sentimento di vuoto e dell'angoscia di morte e del desiderio di suicidarsi, che è un classico. Cioè quando noi attraverso i farmaci svuotiamo i contenuti deliranti dei pz, esponiamo il pz alla possibilità di suicidio, perché perde l'identità delirante, non ha più niente e i farmaci questo lo fanno. Allora io quando faccio psicoterapia e vedo una cosa del genere, io chiedo al collega che dà i farmaci di (inc) la dose o di cambiare farmaco. L'Aloperidolo tra l'altro è un farmaco oggi superato, in questa prospettiva, oggi abbiamo dei farmaci straordinari che ci aiutano a fare psicoterapia con questi pz, allora la psicoterapeuta di questo pz, se conoscesse questo tipi di farmaci, anche se non è competente a prescriverlo ecc., può pretendere dal farmacoterapeuta un diverso formulario, una diversa prescrizione, la può pretendere, però per pretendere deve conoscere. Allora, vediamo un attimo, a me sembra che la defenestrazione, che poi è successiva a vomitare i farmaci ecc., è già una morte annunciata (inc). questo pz mi colpisce perché è molto lucido, ha uno straordinario insight della propria posizione, avverte tutti quanti, ma non è ascoltato. Allora, il SPDC veramente mi sembra un luogo di un sadismo indescrivibile, perché il ricovero, anziché essere utilizzato come modello per fare il punto della situazione, per rivisitare ciò che è stato fatto, viene utilizzato semplicemente a scopo di punire l'ammalato. Oggi nessuno, nella moderna psichiatria, nessuno consiglia più di maltrattare le madri degli psicotici, anzi si consiglia il massimo dell'accoglimento
Montepilli : succede quotidianamente qs negli SPDC, i parenti vengono disprezzati, puniti e maltrattati, nel modo più assoluto.
Freni : ma qs è la vecchia psichiatria che continua a far così, la psichiatria moderna, ormai ci sono fior di libri, trattati, compreso nel Gabbard c'è scritto che si sconsiglia proprio per la natura teorica della malattia, se noi diciamo simbiosi, ma davvero siamo così imbecilli da credere che una simbiosi, noi la risolviamo impedendo alla madre di visitare il figlio, ma veramente qs vuol dire essere imbecilli, non capire niente. Eppure molti sono convinti che la simbiosi sia un fatto puramente comportamentale, non hanno l'idea che è un fatto intrapsichico, più perfino che interpersonale. Mi colpisce molto la stereotipia anche della prescrizione del farmaco, qs è un pz non responder e gli si continua nel 98 a dargli sto cavolo di Serenase a dosi piuttosto importanti, perché 30X 3, sono 9 mg al giorno di Serenase, che è una dose che svuota il pz, lo catatonizza; quindi è un fatto puramente psicofarmacologico qs, non c'entra niente la psicodinamica qui. Quindi c'è un'ignoranza clinica psichiatrica, che non vede la possibilità di pensare a farmaci diversi, a farmaci meno coartanti. Quando il pz si catatonizza, si catatonizza per l'influenza del farmaco e per un'altra cosa, che dice molto bene "più interventi più malato", lui si catatonizza quando gli viene proposta la riabilitazione : più mi stimolate, più mi esponete, più sto male. E come non capire una cosa del genere ?, lui sta cercando una simbiosi alternativa, una simbiosi sana per guarire la simbiosi malata, la realizza abbastanza bene nel rapporto psicologico, e però qs rapporto viene continuamente disturbato, attaccato, distrutto, sfinito, spinto verso altro, verso agiti che non c'entrano niente, non aiutato dal farmaco. Quindi io vi prego, visto che ci sono anche psicologi qui, sappiate che oggi con i nuovi farmaci, soprattutto nel campo della schizofrenia, non è più possibile dire "io non mi ritengo impegnata a sapere che esistono qs farmaci", non è possibile, non è possibile, perché poi, quando avete qs razza di psichiatri come collaboratori, i danni maggiori li subite voi, voi potete dire :" guarda, io i farmaci non li conosco, non è mia competenza prescriverli, però mi risulta che esiste qs, quest'altro, che agisce così, agisce cosà. Il Serenase, poi, è un altro farmaco che dà le cosiddette stigmate del pazzo, perché la stigmate neurolettica consiste in quella maschera (inc), in quel modo di camminare un po' rallentato, perché c'è una contrazione muscolare; oggi abbiamo farmaci che non danno niente di tutto qs, e lei non li individuerebbe dall'espressione mimica del pz malato, loro stessi percepiscono qs cosa ; quindi la condizione dell'essere ammalato è più privatizzata e il paziente si sente meno esposto allo sguardo degli altri da qs pdv, mentre la facies (inc) dà luogo a qs tipo di delirio : "non ti guardo, non ti vedo, non ti parlo ecc.". poi c'è per finire un ultimo rapporto, molto bello secondo me, purtroppo bello dal pdv teorico – clinico, però catastrofico dal pdv della vita del ragazzo : qs strano rapporto tra i farmaci, lo svuotamento delirante e l'insorgenza di uno stato che potremmo dire genericamente depressivo, ma che ha a che fare il vuoto, la madre che muore ecc.. La madre che muore è un tema che si ripete in tutti gli schizofrenici e che se uno leggesse (inc) "I disturbi schizofrenici dal pdv psicodinamico" trova lì qs punto, la madre che muore è l'emergenza di una angoscia di frammentazione del Sé, laddove la madre non è qs signora qui che fa tutti sti pasticci, ma è un oggetto interno che dà contenimento, che garantisce qs bisogno fusionale, quindi la madre che muore annuncia, è un indicatore prognostico di una grave situazione di frammentazione del Sé che sta per sopravvenire e può annunciare, è un indicatore prognostico anche della probabile esposizione al suicidio del pz, la troviamo quasi sempre in tutti gli esordi di schizofrenia, se fate attenzione ad ascoltare il pz all'esordio, quasi sempre vi dicono la madre che muore. La si riscontra anche in tutte le situazioni di ricaduta grave acutissima, la madre che muore. Ecco, allora, se noi ascoltiamo il pz attentamente, se sappiamo capirlo, allora la madre che muore, non è la madre che sta a casa che muore, poi può darsi che il paziente proietti sulla madre qs cosa, può darsi che la proietta anche sulla terapeuta, può darsi che lui si sia sentito rinfrancato quando la terapeuta gli ha dato un segno di essere viva, di essere vitale, di esserci, ma la madre che muore annuncia qs due elementi : grave frammentazione del Sé, che è vissuta in termini di morte, e anche altra possibilità di suicidio del pz. Quindi qs cose che raccomando agli specializzandi di psichiatria, voi che siete giovani, qs tipo di psichiatria ormai deve appartenere al passato, oggi abbiamo bisogno di una psichiatria veramente integrata, di una psichiatria attenta, anche da un pdv rigorosamente clinico, psicofarmacologico. Qui manca tutto qs, mi dispiace dirlo, ma qs colleghi non hanno lavorato bene, c'è poco da fare : non hanno lavorato bene da un pdv clinico, non hanno saputo utilizzare il momento del ricovero come un momento di programmazione terapeutica su misura del pz e non sulla base di una, come dire, una specie di logaritmo burocratico, insomma, no e dal pdv farmacologico dimostrano di dare un trattamento, e qs è un segno di aggressività nei confronti dello psicoterapeuta, perché, se io penso che il pz può migliorare tanto che lo mando in psicoterapia, vuol dire che immagino un progetto evolutivo, giusto ?, però gli do il farmaco, che meno di tutti aiuta qs processo, anzi gli do il farmaco, che di solito è pensato come farmaco di contenimento per la cronicità, un farmaco tipo Cloziapina, oggi c'é l'Olanzerpina, sono farmaci pensati in un'ottica di guarigione del pz, e spesso danno delle guarigioni miracolose qs farmaci. Un pz del genere, sotto Cloziapina, farebbe dei progressi enormi, allora vuol dire che lo psichiatra pensa che qs pz non può migliorare, non può capire, allora perché lo manda in psicoterapia ?
Viganò : l'avevano detto all'inizio: per agganciarlo e non per curarlo.
Freni : agganciare, qs espressione del cavolo, agganciare. Lei come si sente come agganciatrice ?
Montepilli : molto a disagio
Freni : percepita dai suoi colleghi come agganciatrice, quindi più rispetto anche per il lavoro che facciamo. E' ora di finirla con qs stereotipi. Ecco però noi possiamo pretendere qs dagli altri, se a nostra volta entriamo nel vivo di competenze che tradizionalmente crediamo di non dover avere, purtroppo oggi non è possibile. Oggi forse è meglio che si vada verso una sorta di operatore unico, forse ha ragione Ungherini, che bisognerebbe fare una facoltà che produca persone che curino la psiche nella sua globalità, insomma. Forse, non è possibile pensare oggi uno psichiatra a cui non frega niente della psicoterapia e che usi lo psicoterapeuta come un agganciatore. Non è possibile che uno psicoterapeuta non sappia dire ad uno psichiatra : "guarda che tu non stai facendo il tuo lavoro, guarda che non lo stai curando bene il pz, guarda che occorre qs, quest'altro, mi sembra che qs farmaco non funzioni ecc. ecc.. Quindi qs caso è veramente molto didattico di qs pratica che purtroppo è la media pratica della psichiatria italiana, non che quelle straniere siano migliori della nostra, più o meno, ma la pratica media psichiatrica, nella media dei servizi psichiatrici italiani, è questa, anzi medio – alta, perché tra l'altro non credo che ci siano persone che si piglino la briga di portare un caso, discutere ecc., quindi, da qs pdv, forse, è un filino meglio ancora, però ripeto, io ormai sento parecchi colleghi, ho girato mezza Italia per via di tutti qs seminari (inc), la clozapina ha costretto le equipe che l'hanno adottata come farmaco di riferimento moderno ha costretto a cambiare il modo di funzionare, perché prima, a qs poveri ragazzi gli si dava la punturina di Haldol decanoato nei glutei una volta al mese e buonanotte, che il Serenaese long-acting, per cui non c'è neanche bisogno di un controllo più ravvicinato. Gli si faceva quella nel sedere e ci vediamo tra un mese, con l'altra puntura, a quel punto eravamo arrivati. La Cloziapina ha costretto a mutare, perché non si presta ad essere usata in quel modo lì.
Viganò: forse la dottoressa Arduini, mi pare che prima aveva qualcosa da dire
Arduini: non può che trovarmi d'accordo, sia con con quanto detto dal prof. Viganò, sia con quanto detto dal prof. Freni, perché uno dei grossi problemi, quello dell'integrazione all'interno dell'equipe che passa dal rispetto dell'altro e qs implica di fatto, poi, nella relazione, il rispetto per il pz. Quello che mi ha colpito è non solo il fatto che qs ragazzo, Francesco, fosse in uno stato di desoggettivizzazione, ma che tutti concorrevano concordemente a renderlo sempre più desoggettivizzato.
X: vanificando lo sforzo dello psicoterapueta
Arduini: infatti, quasi che ci fosse proprio una corsa a distruggere l'operato l'uno dell'altro e a far sempre, a rendere sempre più, come dire, appunto burocratica e in fondo un oggetto funzionale, diventava un oggetto funzionale Francesco, ad in fondo (inc) l'incapacità, se vogliamo l'incompetenza o il bisogno di emergere a qualche livello e quindi diventava una, si funzionale, la cosa che consentiva di agire tutte qs dinamiche, che sono anche dinamiche interne al servizio, che rispettano evidentemente anche delle cose di ogni operatore, no, si intersecavano tutti qs aspetti, qs meccaniche, addirittura irriflesse, non sottoposte ad un momento di riflessione. La cosa che mi ha colpito, poi, è stato che qs ragazzo era stato, come dire, si era riscontrata un'alta capacità riflessiva; allora sembra che a qs alta capacità riflessiva del ragazzo rispondesse, abbia corrisposto una scarsa capacità riflessiva all'interno dell'equipe. Ora qs lo dico, per carità, perché tutti i giorni ci troviamo di fronte a casi in cui non sappiamo cosa fare, non è una critica, perché io ci sono dentro e quindi so cosa significa, so cosa vuol dire, uno cerca di fare come può, ma l'importante è avere, almeno, un altro modello che non sia appunto quello in cui ognuno fa la sua cosa senza sapere cosa avviene all'altro, cosa fa l'altro e qs trattando di fatto il pz come un numero, non c'è, la persona non c'è, il soggetto non c'è, fuori da qualsiasi possibilità esistenziale, di esistere, cioè non esiste. Qs non è che il rimarcare il suo vissuto, aimè, di non esserci, di non esserci per nessuno, nemmeno per se stesso, non è pensabile, non è una persona pensabile dall'altro.
Freni: qs mi sembra una buona formula: "non è pensabile dall'altro", cioè nessuno di qs operatori è in grado, qs vorrei precisarlo, perché è importante: che cosa fa l'equipe rispetto alla burocrazia?, non è tanto che tutti sappiano tutto ciò che gli altri fanno, allora bisognerebbe ogni sera fare la riunione prima di andare a casa e dire ognuno cosa ha visto, quindi non è a livello delle informazioni che si costruisce l'equipe, nello scambio delle informazioni, quello caso mai viene di conseguenza, ma l'equipe è il livello in cui il soggetto diventa pensabile o non pensabile ed esiste equipe quando c'è, come dire, qs clima culturale, direi, o etico del, centrato sulla pensabilità del sg., quindi quando l'interesse primo della collaborazione delle persone, che lavorano assieme, è quello di credere innanzitutto, perché è una questione di transfert dell'equipe sul pz, di supporre che il pz esista come sg., a priori, in modo militante, diciamo, in modo preconcetto. Ecco qs fa equipe, poi allora tutto lo sforzo si finalizza, se qs è l'obiettivo da raggiungere, come clima dell'equpe, gli atti che ciascuno compie saranno guidati da qs politica culturale, da qs politica etica, quindi prima ancora di essre una regola, è, direi proprio una, mi sembra che qs formula della pensabilità del soggetto sia importante, dopo di che, allora , il sg trova la curiosità rispetto ai suoi movimenti ecc.
Arduini: in quel senso, credo proprio se che quella persona lì non è pensabile, non mi è rappresentabile, e io non la posso rappresentare all'interno di un'equipe, in cui, diciamo, tutta l'equipe diventa una testa pensante e qs oggetto fa parte di qs, no, acquisisce caratteristiche umane, no, umane, di esserci, io credo che è inevitabile l'agito da parte dell'equipe, perché l'agito diventa, si sostituisce alla capacità di pensare.
Freni: l' agito ha un fare confusionario, che non tiene conto di niente, perché non c'è mai il dubbio di dire: ma, come mai il pz gli do qs farmaco e lo vomita, non funziona, ma forse non va bene?
Viganò: poi, il vomito non è frequente, tra l'altro
Freni: ma, io credo che qs pz non sia uno schizofrenico cronico nel senso deteriore del termine, molto schizoaffettivo. Fra l'altro è molto affettivo qs pz e l'affettività nel sg schizofrenico è ritenuta un indicatore prognostico di possibile guarigione se ben utilizzata ecc., ecc.
Invece in qs modo la si distrugge, perché i movimenti affettivi del pz rimangono letteralmente
Viganò: è stato capace di pensare di andare ad acquistare e di portare un regalo, ora qs vuol dire una certa proiezione, un rapporto con l'altro…
Freni: ma tutto quello che ha fatto sul padre, per recuperarlo. E' molto affettivo qs bambino, mi viene da chiamarlo.
Viganò: si anche a me.
Arduini: e poi anche un'altra cosa, il problema del farmaco. Il farmaco, non considerato come elemento che può intervenire all'interno di una relazione in senso dinamico e che è carico di significato e di investimento, no?, e quindi può essere anche, come dire, usato come possibilità di costruire nella relazione un qualche cosa intorno al farmaco, a come viene assunto ecc., invece c'è, come dire, una specie di catatonicizzazione, di irrigidimento sul farmaco, quello, è il farmaco che, è il paziente che deve adattarsi al farmaco, non il farmaco che deve essere adattato volta a volta, sia nel dosaggio sia nella molecola al paziente, secondo quale pz. Sembra quasi una specie di gemellaggio fatto in modo molto burocratico, non pensato.
Freni: monotono
X diventa persecutorio anche il farmaco, dato così, se non passa nella parola. Volevo dire anche un'altra cosa
Viganò: no, c'era
Freni: noi vediamo tutta la sala, c'era prima la richiesta da parte di Colombo.
X: ah, scusate.
Colombo: io volevo chiedere una cosa alla dottoressa di sentire qualche cosa di più sulla sequenza in cui … quando l'incontra era silenzioso, catatonico, no, e poi però ha…
Montepilli: dell'ultimo incontro?
Colombo: si, mi è sfuggito qualche cosa, quando lei diceva, raccontava quella situazione in cui lui guardava fuori dalla finestra
Montepilli: ah, quello è stato…
Freni: il primo intervento analitico
Montepilli: questo è stato proprio all'inizio dei nostri incontri, dove io ho veramente avuto delle grosse difficoltà a non sentirmi particolarmente minacciata da Francesco, anche perché, non l'ho messo, però durante un ricovero in SPDC ha staccato il lobo di un orecchio, aggredendo un'altra pz. Quindi mi era stato presentato come un pz molto aggressivo, tanto è vero che mi avevano detto: vedilo durante l'orario di maggior affollamento, avverti anche un infermiere ecc, ecc.
X: mettiti un copri orecchie
Montepilli: metti un copri orecchie. Per cui c'era una certa ansia da parte mia nell'affrontare un pz che mi era stato dipinto così, insomma un personaggio da cui bisognava tutelarsi, un pochino proprio dalla paura fisica. Poi c'era qs suo modo di guardare veramente scombussolante. Io però mi sono accorta che Francesco aveva paura del fatto che io avessi paura del suo modo di guardare e me la sono risolta subito qs faccenda, una volta che non c'era ragione per essere minacciata da lui, basta la cosa è andata avanti. Poi è stato del tutto casualmente, dopo diverse sedute di assoluto silenzio con Francesco con la testa così, che io casualmente, ecco come se fossi da qs parte, ho guardato fuori dalla finestra e mi sono accorta, io sempre guardavo fuori dalla finestra, che Francesco aveva bisogno di guardare me. Quindi, alzava la testa, mi guardava, ma io dovevo continuare a guardare fuori dalla finestra, io non lo dovevo guardare. Quindi io mi sono lasciata guardare da F. e siamo andati avanti per diverse settimane con lui che alternava una posizione china della testa a guardarmi e con io, che ero consapevole del fatto che lui mi guardasse, ma che non ricambiavo qs sguardo ed è stato su qs reciproca disponibilità, io a farmi vedere e lui ad autorizzarsi a guardarmi, che piano piano si è instaurato il discorso, si è proprio passati dalla mancanza di parole ai primi monosillabi.
Viganò: va be', c'è stato qui un elemento che ha fatto triangolazione, che quindi ha aperto la possibilità della parola, che è, Lacan lo chiama, l'ha chiamato "lo stadio dello specchio", quindi un'illustrazione più chiara di qs è difficile trovarla, è la finestra, che rispecchia. Quindi c'è stato un istante, in cui non solo la dottoressa guardava altrove per permettere allo sguardo di F di non incontrante lo sguardo diretto della dott.ssa, però c'è stato quel cenno, per cui, attraverso la finestra, F. ha potuto accorgersi, in maniera non persecutoria, che la dott.ssa aveva ricambiato lo sguardo, si era stabilita una triangolazione, un terzo aveva potuto inserirsi tra i due. E' quell'istante lì che ha permesso di parlare. Quindi, si è visto, non direttamente, ma attraverso lo specchio e qs ha permesso qs inizio di triangolazione, … terzo della parola; però, almeno io ho colto così la dinamica degli sguardi attraverso la finestra, che c'è stato un istante in cui il sg ha potuto tollerare che lei si fosse accorta che la stava guardando.
Freni: c'è anche che con Winnicott ulteriormente si approfondisce qs discorso del bambino che si rispecchia nello sguardo della madre come prototipo di una (inc), quindi come un primo nucleo di scambio di identificazioni prima adesivo-mimetiche, poi introiettivo-proiettive che fondano e (inc) qs possibilità di dialogo. Ecco a me sembra molto importante qs punto, come pure il racconto che centra il vomitare i farmaci e come identificazione con il malato assassino, mi sembra un punto molto grave che andava riferito immediatamente, come se il pz sentisse una scissione tra un Sé terrorizzato, di essere in preda e un'altra parte di sé assassina, che poi è (inc). E' probabile che lui possa avere il terrore di poter assassinare la madre o la terapeuta e quindi il terrore che hanno vissuto nell'ambito dell'ospedale può essere dato da qs percezione strana da una parte folle, assassina, che li ha messi in agitazione, chiamando lo psicoterapeuta agganciatore. come carceriere del malato assassino, quindi attribuendole una funzione assolutamente impropria, tra l'altro. Cioè, loro che hanno in carcere a disposizione, che hanno l'ammalato lì in carcere, per contenere il malato assassino, chiamano uno dall'esterno per contenere l'assassino, è veramente folle qs cosa.
Di Giovanni: dal pdv degli operatori, perché mi è sembrato estremamente interessante le osservazioni fatte, le ultime, molto, veramente precise, però ecco, mi sembra che oltre tutto si potrebbe allargare ad altri campi. Cioè quello che si rimprovera in qs caso alla madre, no, ai parenti di qs (inc)di qs fare del pz un oggetto finisce per essere fatto, l'ha detto molto bene la dott.ssa Arduini, dagli operatori.
Freni: chi lo rimprovera alla madre?
Di Giovanni: gli psichiatri lo rimproverano.
X: no, lo psichiatra dice, quello che diceva il prof. Freni, che effettivamente non è più moderno …, allora di fatto poi lo fanno gli operatori di trattarlo come un oggetto, no e quindi di non come oggetto, e quindi non farne invece un sg pensante. Ma qs è allargabile a tutti i campi, perché poi si propinano, e dico proprio si propinano, tutte le cose: i farmaci, la psicoterapia, la riabilitazione, le comunità per minori, gli interventi di affido. Quindi mi sembra estremamente interessante, perché tutto, quando non viene pensato il sg, viene propinato e si sprecano in qs modo non solo le risorse economiche, come ci dice il Ministro della Sanità, ma succede anche, poi si legge sui giornali, che la madre con la bambina di 10 anni si uccida. Allora qs secondo me è una cosa estremamente drammatica, io ho vissuto tutto qs con estremo interesse e lo riporto per il campo dei minori di cui mi occupo, che è una cosa angosciantissima, dove occorre vedere, voi parlavate di un operatore unico, però io non so quanto sia attuabile, perché, per es., nel campo dei minori, il Servizio Sociale, tutte le altre Cooperative, le forme che entrano non sono riportabili ad un operatore unico, è impossibile, anzi io credo che la vita moderna vada verso più operatori. E qs io lo vivo in modo molto drammatico per me, come operatore, perché effettivamente fare di quell'oggetto che viene portato, rimproverandolo ai parenti, ma che poi facciamo anche noi, un solo oggetto che noi pensiamo non è facilissimo e non è per niente (inc); qs caso mi sembra estremamente insegnante
Freni: ma qs caso non è affatto eccezionale da qs pdv, è la norma della norma, è quello che fa dire che il pz viene usato dall'istituzione per auto mantenersi. Quindi è come se l'istituzione non avesse nessun interesse, tra virgolette, a guarire le persone, a dimetterle. Lo stesso può accadere agli operatori, gli operatori trovano la loro legittimazione, pigliano lo stipendio nella misura in cui ci sono i matti, se i matti guarissero gli operatori sarebbero licenziati. Io ho il terrore che si vada verso un ulteriore moltiplicazione degli operatori, perché ciascuno di essi dovrà legittimare la propria competenza acchiappando, sequestrando una parte del pz e sottraendola alla cura, come mi piace dire, allora chi sarà, siccome qui si parla di transfert, di equipe, ma allora chi si occupa di qs benedetto transfert, chi è che lo elabora insieme al pz? Nessuno.
Viganò: mah… nessuno… a qs punto dedicheremo senz'altro l'incontro di giugno a qs tema, che anche alla fine l'anno scorso era venuto fuori qs preoccupazione del prof. Freni di chi si occupa di gestire terapeuticamente, analiticamente il transfert sull'istituzione che, ci stiamo rendendo conto, che è un transfert molto forte. Lo psicotico ha un transfert quasi reale, molto importante, magari solo sui muri, ma, ora, un'ipotesi, ma adesso non è possibile svilupparla, l'accenno solo. E' stata molto eleborata in un corso all'USSL di corso Italia, che si faceva prima di qs incontri; era l'idea che l'equipe si coagula nella gestione di ogni pz su un operatore di riferimento, che in qualche modo viene individuato a partire quasi dalla scelta spontanea del sg, del pz e che quindi costruisce un'autorità clinica, una leadership dell'equipe di volta in volta a partire da un riconoscimento di un transfert che si è generato; può essere anche un infermiere, può essere uno psicologo, spesso è uno psicologo, uno psicoterapeuta, ma non necessariamente, direi mai lo psichiatrica perché è così strutturalmente caricato della posizione legale, autorevole, che non conviene, rischierebbe di fare corto circuito se fosse, almeno, qs è una cosa che discuteremo. Comunque l'individuazione di un elemento di lettura della soggettività a partire dal transfert è un problema fondamentale, altrimenti stiamo parlando e tutti qs nostre ideali di equipe accogliente diventerebbero un'utopia se non si strumenta la cosa. Non so se forse c'è ancora tempo per andare avanti?
Barracco: io volevo dire una cosa sul problema del … Io penso che, appunto, il discorso dei parenti sia importantissimo e in qs caso va, be, noi di scuola cadiamo poi nei tecnicismi, però penso che alcune cose siano vere. Parliamo di barrare l'altro, l'altro sregolato che deve essere messo in condizione di mordere altrove rispetto al pz. e in qs caso, secondo me, un pochino, nella supervisione iniziale, era stato intuito qs fatto. Era stato intuito che alla madre bisognasse dare un ruolo, bisognasse riconoscere una competenza e quindi lei dovesse essere inserita nel contesto di cura e qs competenza le è stata attribuita sul discorso di controllare la farmacoterapia, quindi intuizione di dare alla madre un ruolo molto importante con la cura che lei potesse condividerlo attivamente con l'equipe e che, però, di fatto è stato utilizzato da questa equipe nel solito modo ambivalente: cioè le affidiamo un contentino, le diamo la possibilità in quell'ambito, ma semplicemente lo psichiatra le chiedeva: "come va, come non va, se Francesco sta bene, F. sta male?", ma di fatto si è ottenuto solamente un ambivalente corto circuito tra il luogo d'ascolto della madre e il luogo di cura di F., però qs problema di mettere il familiare nella condizione di essere riconosciuto nel suo sapere, perché egli, che ha vissuto 10 anni, 15 anni, ha un sapere di come funzionano qs situazioni di crisi e ha certamente ha una sua grande ambivalenza e simbiosi, ecc. Ma qs cose, se non si lavorano a partire da una grande fiducia che il familiare può avere nella benevolenza dell'altro anche nei suoi confronti, nell'accoglienza, ecc, è una cosa difficilissima, secondo me è la cosa più difficile. Io vedo che quasi sempre
invece succede che i genitori, magari inconsciamente, inconsapevolmente, vengono trattati così. C'è poi quella paura così di perdere il proprio ruolo, il proprio ruolo di operatore, per cui il genitore deve essere tenuto fuori, quella paura di essere fagocitati, però io penso che qs sia molto, molto importante: la presa in cura proprio dell'altro, in qs casi. Grazie
Freni: c'è da dire che i genitori degli schizofrenici sono personaggi che suscitano rigetto, sono antipaticcisimi, no?, però, se noi ci ricordiamo quanto dolore, quanta sofferenza sentono qs poveretti, fino al punto di dover avere un figlio schizofrenico che si offre in pasto alla loro pazzia, forse li guardiamo con una maggiore benevolenza, forse li osserviamo anche come pazienti. Il fatto di dare il compito di controllare i farmaci, a maggior ragione enfatizza il fatto del significato simbolico del farmaco, che acquisisce una valenza di transfert nel momento in cui il pz vomitando il farmaco probabilmente vomita l'oggetto materno cattivo. Lo psichiatra glielo rimette dentro senza neanche discutere con lui: "beh, insomma, se lo vomiti possiamo cambiare, ti possiamo dare un farmaco migliore, ecc, cambiamo qs oggetto cattivo in oggetto buono". Questo è il discorso, il farmaco ha in sè un valore simbolico importantissimo, ivi compreso quello di transfert. In qs caso lo ha, perché c'è una scissione di transfert dove l'oggetto negativo vomitato fuori è giusto il farmaco, ma il farmaco in quanto tale, in quanto dato dalla madre, in quanto dato attraverso qs circuito un po' collusivo tra psichiatra, madre. Insomma sono qs i problemi che vanno approfonditi. E' qs un lavoro che però può fare solo lo psicoterapeuta e a volte può farlo solo tra sè e sè, non può farlo condividendolo col pz, ma deve potere modellizzare dentro di sè qs (inc), qs deambulazioni; col pz, di tanto in tanto, può cominciare ad avviare il discorso: che cos'è il farmaco, come mai lo vomita, che male gli fa ecc., ma come mai non ne discute con lo psichiatra, ma non ne esiste un altro buono, un altro buono? E' chiaro che qui non si parla più il farmaco come ne parla uno psichiatra medico, qui stiamo parlando, stiamo deducendo il simbolo.
Viganò: si, psicodinamico. E' chiaro che…
Arduini: volevo dire che il farmaco depot,m una volta al mese, … si può fare un lavoro per farlo diventare un terzo, insomma.
A qs riguardo mi ricordo un intervento che ha fatto dott. Tebaldo Galli sull'uso anche del … Infatti a suo tempo …. anche la supervisione di infermieri fatta da uno psicanalista, che proprio sottolineava anche qs aspetto del come si può fare diventare anche il farmaco che l'infermiere dà, no, al pz sotto forma appunto di iniezioni e può diventare un elemento su cui riflettere come viene investito dal pz e cosa diventa nel rapporto tra il pz e l'infermiere, come si può farlo circuitare poi anche lo psichiatra, che significato e che valore ha. Ecco, qs anche sul depot probabilmente si può fare un lavoro di qs tipo.
Viganò : anzi, credo che lo si debba fare, perché, essendo depot, quindi tendenzialmente crea una situazione di protezione, no, come
Freni : o di incarceramento
Viganò : o di incarceramento. Perché in genere l'uso dei farmaci, come noi prendiamo l'aspirina quando abbiamo il mal di testa, in qs somministrazione noi diciamo ai pz : "prenda l'aspirina la mattina, a mezzo giorno e la sera, così il mal di testa non le viene più". Tendenzialmente il rapporto soggettivo tra male e medicina, che si viene a creare, è un po' di qs genere, si dice, protezione, è sotto Haldol quindi, siamo tranquilli, no?, si crea questa idea di una immunità parlamentare del sg, però è chiaro che si può elaborare questo. In certi sg, può essere veicolata proprio l'idea di qs protezione , sono d'accordo. E siccome l'infermiere è gestore dell'iniezione, è con lui che, qs sono temi su cui senz'altro potremmo ritornare. Io volevo chiudere qui e vorrei chiudere qui con particolare ringraziamento non solo alla dott.ssa Montepilli, che ha avuto il coraggio di mettere a cielo aperto una situazione per lei stessa dolorosa, difficile, era molto titubante se portare qs caso
Freni : ha fatto benissimo, magari tutte avessero qs coraggio, di discutere perché si impara da qs.
Viganò : aveva timore lei e devo dire anch'io ero un po' preoccupato, perché con un caso così si sarebbe potuta scatenare la bagarre, no? Quindi volevo dare anche un riconoscimento al pubblico che sa discutere con discrezione.
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