Incrociare lo sguardo. Narciso filosofo.

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6 ottobre, 2012 - 12:55

Gli sguardi si incrociano, come lame di luce o spade. Duello. Situazione di un doppio, posizione di un taglio. Lo sguardo funziona come “scotoma”: campisce, suddivide, separa, distanzia. Apre lo spazio di una visione, delimita il campo di una scena. Una “scena” - che in psicanalisi viene chiamata un “fantasma” - è un luogo organizzato dallo sguardo e ritagliato dal reale che ricade nell'invisibile.
La visibilità invece è già da subito doppia: di/visibilità. E Valéry, ripensando al paradosso di Zenone, cerca di trovare un punto di visibilità della freccia in volo: “Noi sappiamo bene che la freccia vola e che Achille acchiapperà la tartaruga - ma sappiamo anche che, se pensiamo davvero alla freccia, perdiamo subito il volo. Sappiamo che non è vero che il mobile percorre innanzitutto la metà della strada, la metà della metà ecc. Giacché metà è una sosta che esclude il movimento. È un'altra operazione, perché non posso dividere il percorso. Esso è tanto divisibile quanto superabile... Come fare per interrompere Achille e “fissare” la freccia nell'aria? Basta “pensare” nitidamente la freccia. È mediante delle sostituzioni da prestidigiatore che ci si riesce... Si finge un “movimento” che non è affatto un movimento, un “tempo” che si tramuta in oggetto divisibile, e ridiventa tempo”.
Valéry distingue continuamente il “movimento/spostamento” e la “suddivisione/sosta/divisibilità”: quest'ultima è il momento di possibile captazione della freccia in movimento da parte dello sguardo. Non a caso il titolo che aleggia intorno a queste considerazioni è “Narciso filosofo”. C'è sguardo nel punto di di-visibilità, ed è un gioco di prestigio: “La nostra scala o ottica, dalla quale dipendono il nostro `mistero', i nostri problemi, è tale che ci impone di assistere a una ridda di raggiri e giochi di prestigio”. Un sentimento di inganno, di illusione ottica, di trompe-l'oeil... È esattamente ciò che intende Jacques Lacan, nel suo commento all'Amleto, quando individua nel fenomeno di sguardo “la struttura di fiction della verità”.
L'argomento di Zenone è truccato, secondo Valéry, proprio perché evita di parlare di divisibilità: “Dividere un tempo significa far finta di dividere una linea. Dividere una linea equivale a immaginare un tracciato, e successivamente immaginare dei punti. Due idee alternative. Niente di concludente”.
Invece: “Il movimento è senza mobile. Esso è indivisibile, o divisibile solo in movimenti finiti - in pulsazioni - ... chi pensa linea, pensa movimento”.
In opposizione alla logica del moto lineare si situa invece lo sguardo, che assume piuttosto uno statuto di punto, o di pausa, di barra, capace di catturare l'oggetto nel suo punto di distinzione; prestiamo attenzione all'idea di “pulsazioni” introdotta da Valéry... Questa “funzione pulsante”, intermittente, dello sguardo è molto freudiana. Vi si riconosce l'insistenza ritmica della pulsione scopica. L'oggetto reale (qui la freccia) è percepibile soltanto come “istantaneo”: “Direi che anche il reale è istantaneo”, aggiunge poco oltre Valéry.
Abbiamo qui l'oggetto “passivo” dello sguardo: la sua “apparizione” è pensata come un découpage ottico. Valéry non riesce però a fermarsi a una geometria dell'ottica: non può non introdurre nella dialettica scopica del suo Narciso filosofo il desiderio e il conflitto. Così, nel frammento intitolato “Pneuma” aggiunge: “Ciò che sembra distinguere l'uomo da un sistema meccanico è il suo conflitto `interno' ... Concepisco il mio atto come `scelto' perché non vedo al di qua di questa scelta. L'uomo veramente libero tirerebbe i suoi atti a sorte. ... Egli fissa il suo io sull'uno o sull'altro, vi si riconosce, vi si attacca, viene conosciuto come tale. Ma in quell'arresto - (che può essere, d'altronde, oscillante) - c'è qualcosa di accidentale. Quel certo oggetto attira, desta la mia attenzione. Quell'altro, no. Io posso combattere sia l'una sia l'altra azione. Volermi interessare, non volermi interessare”.
Penso qui a Lacan, lucidissimo nel designare al posto dell'oggetto, sia l'oggetto dello sguardo, sia lo sguardo stesso, entrambi dunque objet cause du désir (objet' a, nell'algebra lacaniana).
È l'effetto “Tyche”, l'effetto di un incontro fatale e inaspettato, dove qualcuno che prima era assente o nascosto sorge in una scena che non lo includeva precedentemente. Proprio come per Valéry, tutto è dominato da Tyche, la fortuna, la sorte (dal verbo greco Tunchàno, imbattersi, incontrare); anche le vicissitudini dello sguardo soggiacciono a Eutuchìa o a Distuchìa (la bonne ou la mauvaise rencontre), come nella memoria, nel transfert, nel sogno, nel reale.
La schisi, il clivage tra l'occhio e lo sguardo, il cui modello strutturale è già leggibile nella morfologia anatomica dell'occhio (bordo della palpebra, possibilità di “obliquare” lo sguardo, di chiudere o socchiudere l'occhio come un magico sfintere manovrabile e sapiente), viene riconosciuta da Lacan nella sua forma essenziale “nella schisi che si produce nel soggetto nel luogo dell'incontro, schisi che costituisce la dimensione caratteristica della scoperta e dell'esperienza analitica, facendoci cogliere il reale, nella sua incidenza dialettica, come “originellement malvenu”. Per questo appunto il reale viene a trovarsi, nel soggetto, come il massimo complice della pulsione”.
“Perché infatti la scena primaria è così traumatica? Perché arriva sempre troppo presto o troppo tardi? Perché il soggetto vi prende troppo piacere - così abbiam concepito, almeno all'inizio, la causalità traumatizzante dell'ossessivo - o troppo poco, come nell'isterico? Perché non risveglia immediatamente il soggetto, se è vero che è così profondamente libidica? Perché l'evento è qui dystychìa? Perché la pretesa maturazione degli pseudo-istinti è traversata, perforata, trafitta da ciò che - dalla parola Tyche - denominerò l'effetto `tychico' o di destino?”. Effetto che appare già straniante quando l'oggetto di desiderio è inanimato, ma ancora più drammaticamente inquietante quando si tratta di un “oggetto umano”, forzatamente narcisistico dunque, o quando - ancor più paradossalmente - l'oggetto che causa il desiderio è “un altro sguardo”, tema già sartriano, molto caro a Lacan.
Ma ritorniamo al Narciso Filosofo di Valéry, per il quale tutto si gioca sullo “stupore” della relazione speculare: “Questo fatto, il cui immemoriale stupore non ha affatto smesso di esistere, questo fenomeno ottico che fa sì che l'uomo si veda all'incirca come lo vedono gli altri - che mostra l'estraneo a se stesso - che dipende dal mio irraggiamento, e da una fontana... da luci, che emano io”. “È una relazione reciproca. Niente di più. C'è qualcosa d'altro, oltre me, se ci sono io, e inversamente. - È impossibile credere che questa immagine così nitida, così animata, che risponde in modo così appropriato, e persino tanto più appropriato di quanto io non mi aspetti, sia del tutto indipendente da me; che le mie palpebre comandino la sua esistenza come la mia opinione comanda la sua, che è una volta su due contraria alla mia. Questo fogliame così sottile, che intriga i miei sguardi, che si aggroviglia, e si imita e si diversifica quasi all'infinito sfidando il mio pensiero - visibile e non immaginabile - non è mio. Tu mi stupisci, dunque sei. Il reale è il mio equivalente. Noi siamo voi e io, della stessa potenza quali noi si sia, e quali siano gli effetti che noi ci produciamo. Tu hai un bel sorprendermi, io ho un bel contenerti, noi abbiamo sempre soltanto la medesima realtà, lo stesso bisogno l'uno dell'altro”.
L'“altro” speculare, per Valéry, sembra qui essere non tanto - ma certo sì, un poco - il petit autre del mon prochain, quanto il Grand Autre del reale del mondo. La sua argomentazione coglie lucidamente l'essenza della dialettica narcisistica di cui Lacan fornisce una bella elaborazione nel I Seminario, quando, dopo aver affrontato ciò che definisce “la tòpica dell'immaginario” e le differenze strutturali tra i due narcisismi freudiani (Ich-Ideal e Ideal-Ich), si serve di alcune idee avanzate da Sartre in L'être et le néant, per illustrare la relazione perversa, che si gioca interamente a livello della pulsione scopica.
“Nel miraggio del gioco (perverso) ciascuno s'identifica all'altro. L'intersoggettività è la dimensione essenziale. Non posso non far riferimento all'autore che ha descritto questo gioco nel modo più magistrale - alludo a Jean Paul Sartre e alla fenomenologia della percezione dell'altro nella seconda parte de L'essere e il nulla-... L'autore fa ruotare tutta la sua dimostrazione attorno al fenomeno fondamentale che chiama sguardo. L'oggetto umano si distingue originalmente, ab initio, nel campo della mia esperienza; non è assimilabile ad alcun altro oggetto percepibile, in quanto è `un oggetto che mi osserva' ... Lo sguardo di cui si tratta non si confonde assolutamente col fatto, per esempio, che io veda i suoi occhi. Posso sentirmi osservato da qualcuno di cui non vedo neppure gli occhi, e neppure l'apparenza. Basta che qualcosa mi significhi che qualcuno può essere là. Questa finestra, se fa un po' buio, e se vi sono ragioni per pensare che vi sia qualcuno dietro, è già, sin da ora, uno sguardo. A partire dal momento in cui questo sguardo esiste, io sono già qualcosa d'altro, in quanto sento che io stesso divento oggetto per lo sguardo di altri. Ma, in questa posizione, che è reciproca, anche l'altro sa che io sono un oggetto che sa di essere visto”.
Ciò che interessa a Lacan è la “posizione passiva” di godimento di un soggetto che sa di essere “oggetto di uno sguardo”, e che il suo sapere è percepito dal soggetto che lo guarda. Doppio sguardo, doppio riconoscimento, doppio sapere, doppio godimento: è il registro dell'esperienza perversa. Voler sapere del godimento dell'altro.
Questo modello dell'intersoggettività immaginaria - così la definisce Lacan - sostiene sia la relazione scopofilico/esibizionista che quella sadico/masochista.
Lacan si serve sia del modello hegeliano della relazione del servo e del padrone, sia della fenomenologia del voyeur e della spia, ma non rinuncia a citare la “prodigiosa analisi dell'omosessualità” sviluppata da Proust nel “mito di Albertine”, dove lo stile del desiderio è tale che “non può soddisfarsi altro che di una cattura inesauribile del desiderio dell'altro... implicando a ogni istante un'abdicazione completa al proprio desiderio da parte dell'altro”.
Siamo sempre nel campo della pulsione scopica intensificata dalla sovrapposizione metaforica tra guardare e sapere: si ha nel caso di Proust una relazione che “non sostenendosi altro che sull'annientamento del desiderio dell'altro o del desiderio del soggetto”, non può che approdare a una pulsionalità letale sul piano dell'immaginario, determinata dalla volontà di vanificazione (“afanìsi”) dell'oggetto fantasmato come “causa di desiderio”, oppure, specularmente, dalla spinta all'autosparizione. La ragione analitica di questo processo pulsionale sta nel presupposto che “il desiderio perverso si sostiene sull'ideale di un `oggetto inanimato'” (Lacan), come viene chiarito dalle forme più radicali dell'esperienza sadiana.
La dialettica del “doppio sguardo” si fonda, dunque, essenzialmente sulla pulsione di morte come effet léthal, il che spiega come il fenomeno di sguardo possa includere le categorie della lotta, del dominio, della sovranità, del despotismo. Anche il godimento si negativizza assumendo la forma assoluta dell'autoannientamento, elusione, elisione o cancellazione di sé. Il soggetto sperimenta alla lettera il suo statuto di “assoggettamento” nella forma dell'afanìsi. La relazione servo-padrone è evidentemente un esempio limite di pulsionalità negativa dello sguardo, ma Lacan mostra come la pulsione scopica sostenga ogni aspetto della fenomenologia quotidiana del prestigio, del pudore, della vergogna.
Nella forma voyeristica dello spionaggio, per esempio, l'erotismo è complicato dall'atteggiamento di “messa in guardia” (cfr. “guardare”, “sguardo”, con l'anglosassone To ward, vigilare, che indica anche la “posa di guardia” nella scherma. La guerra - War - non è lontana), e anche dalle manovre di occultamento o di pseudosvelamento, dall'astuzia, dal segreto.
Bello l'esempio di Lacan: “Siamo in guerra. Avanzo nella pianura e `suppongo di essere sotto uno sguardo che mi spia'. Se lo suppongo, non è perché tema qualche manifestazione del mio nemico o qualche attacco, perché la situazione si allenterebbe immediatamente ed io saprei con chi ho a che fare. `Quel che m'importa di più è sapere quel che l'altro immagina' ... ciò che scopre delle mie intenzioni in me che avanzo, dato che mi è necessario nascondergli i miei movimenti. Si tratta di astuzia”.
Ogni scivolamento metaforico verso la dialettica amorosa è ovviamente legittimo.
Guardare per sedurre, o per essere sedotti. Guardare per far sparire, o guardare per sparire. Guardare per sapere dell'altro, o per “essere saputi” dall'altro. Effetti fatali dello sguardo, e dei suoi incroci.
Jacques Lacan è giunto a pensare che si possa parlare di una fonction de la voyure: deve esserci sempre uno sguardo da cui sono sorpreso, come la Jeune Parque della lirica di Valéry, colta come “... se voyant se voir...”.
Detto con altre parole...” Ce que je désire là-dedans, c'est à vous de le savoir”.

*Pubblicato in La Ginestra. Rivista di Cultura PsicanaliticaLo sguardo. Franco Angeli Editore

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