NOTA DI REDAZIONE (Alfredo Verde):
Questo contributo, dovuto a Carlo Valitutti, segretario della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria, costituisce un importante stimolo che la sezione di psichatria forense intendo portare alla riflessione ed al dibattito. Valitutti, infatti, dopo aver tracciato la cartografia del problema carcerario, propone un tipo di intervento integrato fra i vari ruoli e le varie funzioni che vengono svolte, all'interno dell'istituzione totale, da personale custodiale, medici, psichiatri, psicologi ed operatori del trattamento.
Chi scrive aveva spesso contestato questo tipo di impostazioni, da un punto di vista però piuttosto ideologico, e adesso tende invece più a considerare il problema della cura/pena in carcere, e del trattamento rieducativo, in modo pragmatico: esperienze simili dal punto di vista dell'organizzazione (come gli SMPR francesi, piccole enclaves psichiatriche dipendenti dal ministero della sanità presenti in carcere) si rivelano, in realtà, molto differenti fra loro a seconda delle pratiche messe in atto dalle diverse equipes (composte di persone e del loro modo di trovare un equilibrio) che sono al lavoro.
Speriamo che il contributo di Carlo Valitutti susciti un ampio dibattito legato ai problemi della cura e del trattamento in ambienti punitivi (vale a dire, istituzionalmente perversi, se questa definizione ci è concessa), in cui la questione fondamentale è quella di costruire uno "spazio" in cui siano possibili quei rapporti "altri" che rientrano nelle più svariate definizioni del "terapeutico".
“Stagione antica”
Il passo stanco accarezza il passato che se ne va,
i ricordi mi vengono incontro in qualunque stagione io vada,
per strade antiche della mia città,
la pizza fumante e il gusto della fame giovane.
Dai forni l'odore del pane,
spavaldo io solo
coi ricordi negli occhi,
l'odore di urina
e le carrozzelle della vecchia Roma.
Per strade antiche della mia città
in qualunque stagione io vada
rimbalzano bestemmie soffocate sui muri dei vicoli,
con mani sporche di pensieri
i ricordi mi vengono incontro.
Armigi Loy Pasquale,
un detenuto.
1. La presenza del carcere
Negli ultimi mesi, forse anche a causa di stravolgimenti politici e sociali piuttosto significativi, la cosiddetta opinione pubblica si è accorta ( a volte abilmente guidata in modo strumentale e fuorviante) della presenza incombente e scomoda del carcere e della sua drammatica realtà. Tutti siamo diventati giudici e accusatori, aguzzini e vittime di una coscienza civile troppo spesso addormentata e condizionata da falsi sensi di colpa e da rivendicazioni esasperate di giustizia e di libertà. Le mie riflessioni possono sembrare di parte ma il mio lavoro di psichiatra all'interno del carcere mi obbliga ad un confronto aperto, spero proficuo e stimolante, seppure a volte perturbante e conflittuale. Quindi non sempre necessariamente obiettivo. Ma non credo che questo sia sempre un male.
Lo psichiatra che lavora in carcere vive quotidianamente in un'area di confine e di reclusione emotiva, un territorio di frontiera che evoca però anche un'immagine di contiguità, di vicinanza, di conoscenza. La sofferenza e la malattia all'interno delle mura di un carcere sembrano a volte assumere altre sembianze oltre a quelle dolorose ed apparentemente inavvicinabili che siamo abituati ad incontrare ed a riconoscere nel nostro lavoro. I cancelli e le sbarre suggellano ineludibili distinzioni e spesso sembrano schiudersi su vissuti di seducente onnipotenza o di reale incapacità. Entrare in contatto con la trasgressione e la colpa, la reclusione e la pena, e dunque con l'ambiguità e la contraddizione dialettica di concetti come quelli di assistenza e di repressione insiti nel lavoro psichiatrico, costituisce in carcere un'abitudine dolorosa e mai indifferente.
La prigione, come forma di meccanismo disciplinare, é piuttosto antica e precede quasi la sua stessa utilizzazione nei sistemi penali. Rendere gli individui docili ed utili, con un lavoro preciso sul loro corpo e la loro mente, ha generato l'istituzione penitenziaria prima ancora che la legge la definisse una pena eccellente. L'evidenza del carcere, ineludibile e dolorosamente presente, é prima di tutto una semplice ed essenziale privazione di libertà, a cui si aggiunge poi la possibilità di quantificare presumibilmente la pena secondo la variabile del tempo. Questa sottrazione di tempo alla vita del detenuto sembra rendere concretamente l'idea che sia l'intera società ad essere stata lesa. Da questo punto di vista dunque il carcere potrebbe considerarsi quasi naturale, come é naturale nella nostra società l'uso del tempo per misurare gli scambi. Ma l'evidenza della prigione si fonda anche sul suo ruolo, supposto o preteso, di sistema per trasformare gli individui. La solidità del carcere forse sta proprio in questa duplice finalità, giuridico-economica da una parte e tecnico-disciplinare dall'altra, privazione di libertà e funzione correttiva e rieducativa..
Questo doppio fondamento ha fatto spesso apparire il carcere come una forma immediata e civilizzata di pena. Ecco dunque che il carcere diventa non solo il luogo di esecuzione della pena, ma il luogo di osservazione degli individui puniti, conoscenza di ogni detenuto, del suo comportamento, delle sue disposizioni profonde, del suo eventuale progressivo miglioramento.
2. Il sapere del carcere
Per questo il carcere non dovrebbe essere soltanto un luogo di applicazione di principi stabiliti altrove, ma un luogo di costituzione di un sapere che può diventare esso stesso un principio regolatore per l'esercizio della pratica penitenziaria. L'autonomia del regime carcerario ed il sapere che essa rende possibile permettono così di amplificare quell'utilità rieducativa così spesso prevista nei principi più significativi della filosofia punitiva.
Il carcere é dunque anche una struttura artificiale creata per l'applicazione di principi nati nel suo contesto di appartenenza ma significativamente al di fuori delle sue mura e dei suoi confini. Queste stesse mura rappresentano un contenitore ed un contenimento, un'ambiguità ed una contraddizione legate alla segregazione, all'isolamento, al distanziamento ed insieme alle aspettative di risoluzione di problematiche sociali ed individuali. La società stessa richiede una protezione rispetto al delinquere ed una rieducazione del soggetto che delinque, protezione sociale e rieducazione individuale dunque, concetti che sopravvivono in una zona di confine che spesso é fortemente determinata da regole e da gerarchie organizzative, forse riparative di un vissuto di colpa, di sofferenza e di fallimento antico ed ineliminabile. Il carcere é fondamentalmente un luogo in cui spesso si racchiudono esperienze umane basate sul dolore, un dolore sordo e complesso difficile da riconoscere dall'esterno, stigmatizzato dalla privazione di libertà, dalla perdita di autonomia, da una sorta di riaggiustamento dell'identità personale ora più che mai turbata da sostanziali e reali perdite affettive.
L'obiettivo finale comune che dovrebbe realizzarsi é il fine della pena che non é (o almeno non dovrebbe essere) solo restrittivo o intimidativo, ma anche emendativo e rieducativo: Le finalità rieducative della pena sono state infatti sempre individuate come principi da perseguire: Nella tradizione romana la stessa concezione ricorre di continuo quando si afferma che “poena constituitur in emendationem hominum”. Ma anche oggi la riaffermazione decisa del fine rieducativo della pena e dell'umanità del trattamento (come recita l'art.1 dell'ordinamento penitenziario), va ben al di là di una sia pur doverosa ricognizione storica, perché assume contenuti ideali che in-formano ed orientano l'azione. Il trattamento penitenziario attualmente coinvolge il complesso degli interventi offerti al detenuto per sostenere i suoi interessi umani, culturali e professionali. Quest'atteggiamento di offerta é essenziale e comporta inevitabilmente una esigenza di partecipazione responsabile da parte del soggetto. Una relazione infatti basata unicamente sul “dare” e sviluppata in una sola direzione può produrre false aspettative, generare facili pretese, fino a portare ad implicite e grottesche perversioni di onnipotenza che non danno più alcuna informazione, e ripetono inconsapevolmente inutili e dannosi schemi trasgressivi.
Inoltre non si può non considerare che il rapporto con il detenuto é tanto più continuo e intenso quanto più basso é il livello della scala gerarchica che di lui si occupa e si preoccupa. Si sviluppa così un sottosistema che vive di vita propria e non integrata con i ruoli e le autorità delle gerarchie superiori, e questa può diventare una scissione dura e difficile da superare. Una collaborazione feconda presuppone perciò un'alleanza e questa presuppone a sua volta il consenso sulla finalità specifica di quella specifica relazione e sulle modalità e le procedure messe in atto per raggiungerla. Consenso vuol dire conformità di giudizio e accordo di volontà al fine di rispettare e realizzare un impegno ugualmente vincolante per tutti i partecipanti a quella determinata relazione.
Anche quando, per raggiungere il suo fine tramite la restrizione, il sistema si irrigidisce ed usa la forza del comando che non ammette dialettica o della coercizione fisica nei confronti del detenuto, dovrebbe essere implicito e costitutivo il consenso tra le parti del sistema che collaborano alla decisione ed all'uso della forza. Quando poi si vuole raggiungere un fine emendativo e rieducativo, allora diventa assolutamente imprescindibile anche il consenso del detenuto. A questo punto é facile intuire come non tutti i detenuti siano disposti, soprattutto all'inizio, ad usufruire dell'offerta di interventi che prevede il trattamento penitenziario. E' significativo, e spesso determinante a tal fine, suscitare motivazioni adeguate nei detenuti, ridefinire e rendere consapevole il loro stato di bisogno, correggendo eventualmente aspettative ingenue od incongrue. Naturalmente é importante che il detenuto acquisti fiducia negli interventi offerti, e ciò in larga misura dipende dal livello di capacità organizzativa dell'amministrazione penitenziaria in genere e dal singolo istituto più in particolare. Gli interventi di cui parlo infatti sono proprio quelli resi possibili in concreto dai servizi organizzati nell'ambito penitenziario.
3. Lo psichiatra e il carcere
Tra le diverse figure che entrano a far parte del sistema complesso e confinato del carcere voglio ricordare, e non solo per comprensibile e vicino interesse, quelle sanitarie del medico e dello psichiatra. Quando il medico attua la sua opera diagnostica e terapeutica nei confronti del detenuto, questo acquisisce significati diversi rispetto al potere carcerario: da una parte é sub-ordinato, dall'atra é extra-ordinato. E' sub-ordinato perché, come tutti gli appartenenti al sistema, anche il medico deve sottoporsi a particolari procedure di controllo e di verifica per potere agire. E' invece extra-ordinato perché l'oggetto della sua conoscenza e del suo giudizio diagnostico e terapeutico é la sofferenza e la patologia del detenuto, che di per se naturalmente é indipendente dai fini del sistema. La malattia del detenuto, in relazione alle finalità del sistema, può essere solo compatibile o incompatibile; e infatti, nei casi in cui sorge questo problema, il medico o gli specialisti di varie branche sono impegnati a pronunciarsi su questo punto.
Diverso invece é l'agire dello psichiatra, anche per le diverse caratteristiche che assume la patologia mentale ed il disagio psichico. Esistono problematiche psicologiche di natura prevalentemente reattiva (ansia, insonnia, agitazione, depressione) che con la vita carceraria hanno rapporti diversi.
L'esperienza detentiva e la vita all'interno del carcere possono essere la causa, la concausa o il motivo, l'occasione di scatenamento o la condizione di mantenimento della sofferenza psicopatologica. Potrebbe anche darsi, in alcuni casi, che l'originaria e precipua struttura di personalità costituisca il primum movens del disturbo che si manifesta, perdurando poi anche in diversi eventi della vita nel carcere. Molto più spesso invece si tratta di patologie che si presentano proprio in occasione dell'esperienza vissuta all'interno del carcere, in particolare in relazione alle sue disfunzioni ed alle sue scissioni, che portano all'isolamento psichico del detenuto ed alla mancata considerazione della sua partecipazione e del suo consenso. In questi casi un compito dello psichiatra potrebbe essere allora quello di tentare una ridefinizione del problema, passare dalla diagnosi del sintomo ai suoi motivi, in uno sforzo di donazione di senso e di mediazione chiarificatrice con quelle parti disfunzionali del sistema in relazione alla patologia psicoreattiva al fine di riorganizzare e ricomporre il consenso tra le parti.
E' pur vero che lo psichiatra deve essere consapevole dell'aspetto di repressione/contenzione che a volte evoca la sua stessa funzione sociale, e che in carcere spesso assume una pregnanza ed una significatività perturbante. Bisognerebbe sforzarsi di bilanciare questi due aspetti: di contenzione e di terapia non potendo assumere nè un atteggiamento unicamente terapeutico (negando così gli aspetti repressivi del contesto detentivo) nè unicamente contenitivo e custodialistico (sottacendo così la possibilità di relazione e di cura).
In carcere la relazione con il detenuto è mediata da più figure di riferimento, e ad una complessità del contesto corrisponde una complessità della relazione, per cui diventa forse importante creare un'idea di gruppo terapeutico che sviluppare e mantenere la relazione con il detenuto/paziente.
In carcere non si può lavorare da soli; l'intervento terapeutico dovrebbe essere condiviso a vari livelli perché ciò può consentire la costruzione di un processo integrato e aderente alla realtà del contesto. Agire (e rispondere) in maniera unicamente individuale in carcere non è sempre congruente. Una personalizzazione eccessiva della relazione terapeutica può allora diventare fuorviante, destruente, improduttiva, fallimentare e, a volte, anche strumento di manipolazione.
La creazione di una equipe terapeutica (comprensiva di tutte la varie figure di riferimento) può forse dare un senso ed una risposta diversificata e non univoca alle richieste ed alle aspettative inadeguate e trasgressive del paziente/detenuto. Per questo sarebbe utile che i componenti dell'equipe si incontrassero periodicamente per un confronto ed una supervisione che permettesse così di riaggiustare continuamente la mira. Poter condividere in maniera consapevole all'interno del gruppo un atteggiamento terapeutico e non puramente “contenitivo” può ridurre proprio i comportamenti “disturbanti” che hanno indotto la repressione e lo stesso contenimento (ottenendo forse una sensibile riduzione dei fenomeni di acting-out e di autolesionismo reattivo).
Questo non significa certo perdere di vista o non essere consapevoli della pregnante significatività della relazione duale, ma l'ascolto della pluralità che segna in maniera così dilemmatica ed a volte inquietante il difficile mestiere dello psichiatra assume in carcere un confine sottile, e la normalità e la follia, la colpa e la trasgressione accompagnano il cammino della diversità in una conflittualità dolorosa ma pur sempre feconda.
In carcere la solitudine rimarca una ferita ed un vissuto di perdita antico e disperante, ma forse a volte la speranza é un rischio che pur si deve compiere. Fa parte del nostro lavoro, e della vita.
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