PSICOPATOLOGIA E CRIMINALITA'. L'ITINERARIO ITALIANO

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5 ottobre, 2012 - 16:54

Introduzione

Un saggio su psicopatologia e criminalità solleva, come è immediatamente evidente, complesse questioni di ordine filosofico, scientifico, giuridico ed istituzionale. Si tratta, infatti, di analizzare le figure umane del criminale e del folle e ciò impone una preliminare riflessione sull'evoluzione dell'antropologia filosofica e scientifica per poter poi guardare alla storia del diritto e delle istituzioni. D'altra parte, questa impostazione delle cose, per quanto corretta, renderebbe assai ardua ogni ricerca che risulterebbe praticamente sconfinata.

Nel presente saggio si è pertanto preferito operare una scelta di campo con la consapevolezza dei limiti che ogni scelta comporta. Si è, infatti, deliberatamente accantonato ogni strutturato e continuativo rimando all'evoluzione del diritto e delle istituzioni. Nel contempo sono stati accantonati, per quanto possibile, anche quei complessi riferimenti alla storia dell'antropologia filosofica che sottendono sia l'evoluzione della medicina che del diritto.

Si è, in altre parole, tentato di ridurre al minimo ogni sconfinamento, per mettere a fuoco il rapporto fra psicopatologia e criminalità alla luce dei modelli scientifici elaborati dopo l'umoralismo.

Per ricostruire la complessa storia del confronto fra psicopatologia e criminalità si è poi ritenuto opportuno fare elettivo riferimento ai principali trattati in quanto testimoniano lo sviluppo del sapere in forma meglio strutturata e più matura di quanto non facciano brevi lavori o singole perizie; in qualche caso, tuttavia, il riferimento a saggi particolari è risultato inevitabile per cogliere qualche momento nodale nella storia della psicopatologia criminologica.

 

Una breve premessa

Il confronto fra la criminologia e la psichiatria nasce dall'esigenza empirica, storicamente determinata, di verificare l'eventuale presenza di un disturbo mentale in chi trasgredisce la legge. In tale confronto, che muove fra vertiginose ambiguità, non vi è nulla di scontato. Già ad una semplice e superficiale osservazione appare infatti evidente come il confronto in parola si ponga fra due ordini di sapere diversi: da una parte la psichiatria, che è una branca della medicina, e dall'altra il diritto con le sue regole e con le sue opportunità sociali storicamente mutevoli.

Il fondamento del diritto, in effetti, non è stabile. Basti pensare che reati come l'eresia e la magia che sostanziavano ampiamente la giurisprudenza del passato sono oggi estranei ad ogni moderna normativa.

Si noti, inoltre, che non sembra possibile avanzare una definizione naturalisticamente data ed oggettiva, né del criminale né del crimine, prescindendo dal contesto sociale e dall'intenzionalità di chi agisce: altra cosa, infatti, è uccidere in guerra nell'adempimento di un dovere civile ed altra cosa, invece, è uccidere a scopo di rapina. Comunque inadeguato è poi ogni approccio riduttivamente naturalistico alla figura del criminale.

Il campo di indagine della criminologia, che è volta a rendere comprensibili le motivazioni di chi trasgredisce la legge, appare insomma più mosso ed antropologicamente più complesso rispetto al semplice studio astratto delle norme e delle trasgressioni. Si tratta, in altre parole, di mettere a fuoco le concrete possibilità che il criminale ha avuto o non ha avuto di uniformare la propria condotta alla legge.

Il compito della criminologia, fra tante incertezze, è pertanto quello di illuminare l'essere-nel - mondo, l'umana presenza, l'intenzionalità di chi, nel mondo della vita, si confronta con l'altro-da-sé all'insegna della trasgressione, avendo ben presente che ogni trasgressione è sempre marcata da una sorta di sigillo, di testimonianza dello stile personale che può rivelare, o non rivelare, l'impronta della malattia.

L'essere-nel-mondo si declina con il corpo che non va però considerato come mera struttura naturalistica anche se la naturalità costituisce l'a-priori di ogni umana presenza. Nel mondo dell'uomo, che è storicità incarnata, il corpo va inteso piuttosto come corpo-vissuto che si può aprire all'esistenza dell'amore e dell'amicizia, ma può anche smarrire ogni autentico profilo nel banale commercio quotidiano, o esplodere, addirittura, nelle forme trasgressive dell'aggressività incontrollata.

L'esistenza autentica, che è sempre co-esistenza, implica, in ogni caso, un fondamentale rapporto di familiarità e di rassicurante intesa con quanto circonda e sostanzia il proprio mondo. Questa familiarità è garantita dall'ordinamento dell'abitare e da quello del rango. L'ordinamento dell'abitare delimita lo spazio dove si organizza la vita offrendo garanzie e sicurezza nei confronti di ciò che è estraneo; in questo spazio si organizza poi l'ordinamento gerarchico del rango che orienta e modula i rapporti familiari e sociali. L'esistenza che si apre al tu dell'amore e dell'amicizia presuppone, appunto, la sicurezza entro il proprio ordinamento. Quando invece esplode l'aggressività trasgressiva, mentre il mondo diventa opaco e il tu decade ad oggetto, si configura l'intrusione nell'ordinamento degli altri; in questo caso il dis-ordine dell'abitare e del rango frantumano ogni familiarità provocando la rottura di quell'equilibrio relazionale che rende possibile la convivenza civile (1).

Per cogliere le cause di questo dis-ordine, che talora si impone con radicalità inaudita come nel parricidio o nel matricidio, sono state avanzate, fin dall'esordio della medicina scientifica, differenti teorie biologiche che, per lo più, tradiscono l'intento di presentare il criminale in prospettiva ontologica, quasi fosse determinato da esclusive ed immodificabili cogenze immanenti alla natura. Le moderne teorie biologiche che correlano la plasticità dell'encefalo all'ambiente superano peraltro il solco apodittico del determinismo valorizzando, nello sviluppo della personalità, la storia psicologica e sociale e, ad un tempo, l'evoluzione biologica (2).

In ogni caso, è certo consono alla realtà umana il tentativo di cogliere il significato che riveste il crimine nella biografia di una personalità, quella del criminale, che non di rado, quando si abbandona alla trasgressione, risulta travolta dalla paurosa percezione di un pericolo incontrollabile. In questo contesto la fatalità della malattia e la fragilità personologica vanno sempre ipotizzate in quanto possono sostanziare il turbamento psichico.

Ma si sa come le teorie scientifiche, con le quali si spiegano le malattie, siano caduche almeno quanto sono mutevoli il diritto e la cultura che lo esprime. Nella storia della psichiatria criminologica una catena di teorie diverse deve, in effetti, confrontarsi con le convenzioni giuridiche di culture altrettanto diverse.

Per quanto, in particolare, riguarda la storia dell'Occidente è poi indispensabile seguire due motivi, quello classico e quello giudaico-cristiano, che hanno avuto pari risonanza. In realtà la sola storia di ciò che è lecito e di quanto non è lecito conosce questa duplice radice; la storia dell'approccio scientifico alla malattia, anche alla malattia mentale, esordisce invece con la sola cultura greca quando, abbandonando il pensiero magico grazie alle argomentazioni scientifiche dell'umoralismo, la malattia si differenzia dall'universo del male che sostanzia la condizione umana.

Ma la complessità culturale e la ricchezza dell'Occidente permettono anche di individuare itinerari scientifici e giuridici particolari che, pur aperti ad ogni reciproca influenza e suggestione, rivelano una sostanziale continuità ed originalità. La tradizione francese, germanica, italiana etc. non sono di certo estranee l'un l'altra, ma rivelano, nel contempo, aspetti singolari, geograficamente e storicamente connotati.

Proprio per non appiattire questa ricchezza e vivacità della tradizione europea, risultano pertanto ben motivate anche analisi relativamente circoscritte, come la presente che resta tendenzialmente ferma alla sola cultura italiana. Dopo il Mille è, del resto, possibile individuare forti motivi che, lungo la penisola, si tramandano coordinatamente: la comune parlata in volgare, la religione cattolica e il ricordo della tradizione classica sono, appunto, il filo conduttore che permette di tentare un racconto abbastanza unitario nonostante la frammentarietà delle vicende economiche e politiche che caratterizzano i numerosi stati italiani.

Un simile percorso storico muovendo fra modelli scientifici caduchi e regole giuridiche mutevoli, sullo sfondo di una cultura in costante movimento come quella italiana, vuole testimoniare, innanzi tutto, la consapevolezza della precarietà del sapere; questa storia, tuttavia, intende anche porsi come traccia luminosa che - grazie all'analogia, alla metafora e all'ambiguità dell'allusione - permette di correlare mondi umani diversi e lontani, ma mai radicalmente estranei.

 

Lontane radici

Se è vero, come nota Exner (3), che lo stato dell'uomo, lacerato dalla criminalità, non è mai un paradiso, si deve nel contempo prendere atto che anche nel Paradiso terrestre affiorano tempestivamente quelle forme di criminalità con cui si misura incessantemente ogni modello di stato.

Nell'Eden viene quanto prima eclissata ogni paterna familiarità: con un solo colpo vengono distrutti la sicurezza dell'abitare ed il rispetto dell'ordinamento gerarchico che la garantiva. Gli è che una trasgressione alimentare, con l'appropriazione indebita di un frutto proibito, fa precipitare i lontani genitori dell'uomo - Eva ed Adamo - nel più radicale dis-ordine: hanno, infatti, ceduto alle argomentazioni seduttive del serpente, lo spirito del male, il diavolo stesso (Gen. 3). Scacciati dall'Eden, Eva e Adamo scoprono improvvisamente di essere nudi, mentre esordisce il tormento del desiderio sessuale. Ben presto Caino, il primo dei figli, sopprimerà poi, roso dall'invidia, la vita del fratello: sarà condannato a vagare per la terra, piegato dal peso insopportabile della colpa (Gen. 4). L'angoscia del desiderio e la malinconia radicata nella colpa sostanziano ormai l'esistenza.

L'uomo, un viandante tragico esposto all'incertezza del futuro e alle fatiche del presente, vaga estraneo ad ogni familiare sicurezza fino a quando il Signore, ricorrendo allo strumento apodittico della scrittura, elargisce norme puntuali ed articolate per evitare il dis-ordine della criminalità ed allontanare la sofferenza psichica.

All'orizzonte della storia, mentre scorre il tempo di Dio, affiorano allora tre montagne: il Sinai, la Montagna e il Golgota. Queste montagne costituiscono i punti fermi che scandiscono il rapporto fra l'uomo e Dio; un rapporto oscillante fra scrittura ed oralità, fra rigore e perdono. Sul Sinai, la vetta arida e desertica della legge, vengono dati i Comandamenti (Es. 20) scritti, scolpiti sulla pietra per ben due volte proprio per sottrarre gli uomini al rischio dell'idolatria (Es. 32 e 34). Si tratta dei dieci Comandamenti fondati nella figura trascendente e illuminante del Padre celeste: contengono l'invito a non uccidere, a non rubare, a non commettere adulterio. La cogenza dei Comandamenti è poi garantita dalla legge del taglione: vita per vita, occhio per occhio (Es. 21). Ma sul Sinai il Signore, mentre svela la propria terribilità, indica agli uomini anche i momenti essenziali dei riti religiosi che testimoniano l'ordine gerarchico e garantiscono l'equilibrio interiore all'insegna di una religiosità ricca ed autentica che protegge dagli arifici del maligno e non ha nulla da spartire con i sortilegi ingannevoli dei maghi del Faraone descritti nell'Esodo. Nella Montagna - la montagna per eccellenza, accanto al lago di Tiberiade - il Salvatore trascenderà poi l'angustia della norma scritta per dire parole di sconcertante tenerezza che ravvisano nella povertà e nella stessa follia vere occasioni di predilezione (Mat. 5). Nel Golgota, la più tragica delle montagne, il Salvatore, infine, testimonia agli uomini la possibilità estrema del riscatto e del perdono: perdona ad un ladrone (Luca 23, 33-43).

E' senza dubbio difficile tentare di sintetizzare in pochi cenni il senso di libri sapienziali dal vasto respiro come quelli del Vecchio e del Nuovo Testamento. Il dis-ordine mentale e sociale, quali rischi immanenti alla condizione umana, sono comunque ben delineati quali conseguenze tragiche della disobbedienza alla parola di Dio per ascoltare la voce di Satana. La legge e il perdono divini possono però salvare l'uomo dai pericoli della storia se si abbandona con diligente fiducia ai riti religiosi senza farsi fuorviare dagli inganni della magia.

Nel mondo antico i pericoli connessi alla pratica della magia sono, del resto, ben additati anche nel codice babilonese di Hammurabi, un codice di procedura penale fra i più antichi (4).

La spiritualità giudaica e cristiana costituisce, come è noto, un grande motivo della tradizione occidentale che trova però suggestioni e spinte altrettanto forti nell'antichità classica. Quando poi si parla di antichità classica è al mondo greco a cui si deve rivolgere uno sguardo privilegiato.

La mitologia, che precede ed anticipa la elaborazione delle storie scritte testimonia in forma esemplare il sentire degli antichi in merito alla problematicità della vita, intessuta di aggressività e di folli trasgressioni. Le figure di Bellerofonte, di Eracle e di Aiace rivestono al proposito un interesse paradigmatico.

Bellerofonte, l'uccisore di Bellero, ha una biografia decisamente tormentata dove le difficoltà sembrano favorite proprio dalla straordinaria disponibilità di un cavallo alato, il celebre Pegaso. Da Pegaso, librato in aria, fa infatti precipitare in mare la moglie di Preto che aveva cercato di sedurlo. E da Pegaso sarà disarcionato lui stesso quando vuole penetrare nel cielo degli dei, dubitando della loro esistenza: precipiterà su una pianura in Asia Minore per vagare, preda della più grigia malinconia, lamentando la triste sorte dei mortali (5).

Assai dolente è anche la storia di Eracle che cresce in una famiglia piuttosto problematica. Eracle è figlio di una madre mortale e di Zeus, il padre degli dei, che notoriamente muove in un contesto sentimentale piuttosto instabile. Il giovane Eracle, in effetti, quando è ancora alle prese con l'apprendimento dell'alfabeto, forse segnato da precoci carenze affettive, sfascia una seggiola sul capo del maestro. Adulto si abbandona ad una intraprendenza sessuale a dir poco sfrenata senza evitare qualche bizzarria come quando, corteggiando Onfale dai sandali d'oro, scambia, senza pudore alcuno, le vesti con la propria innamorata. Ma Eracle diventa celebre soprattutto per aver compiuto formidabili fatiche, vere lotte contro la morte, che comportano la ripetuta intrusione in ordinamenti che non gli sono propri: entra nel regno di Artemide e raggiunge, addirittura, il giardino delle Esperidi dove si impadronisce delle mele d'oro, proprietà degli dei. L'eroe si abbandona anche all'omicidio dei figli, ma i narratori spiegano che era stato travolto dalla pazzia (6).

Aiace, infine, è un'altra grande vittima della follia come si può leggere nella tragedia di Sofocle. Aiace, dopo la morte di Achille, aspira alle sue armi; ne ha diritto in quanto è il più forte fra i guerrieri che assediano Troia. Ma l'assemblea, a maggioranza di voti, le assegna invece ad Odisseo che aveva saputo dire parole melate. In questo passaggio dalla società guerriera a quella democratica il rango di Aiace risulta fulmineamente distrutto. L'eroe, che vive in una tenda accanto alle navi al limite estremo dello spazio abitato dai Greci, è così travolto dalla pazzia: non accetta il verdetto e per vendicarsi uccide un branco di animali scambiandoli per gli Atridi. La dea Atena gli aveva oscurata la corretta visione delle cose. Quando poi, in un momento estremo di lucidità, si rende conto di aver mancato il bersaglio la vergogna è intollerabile: si rivolge alle Erinni, le dee della vendetta, e si suicida. Gli Atridi chiedono una punizione esemplare contro il cadavere per condannare, come nota Starobinski (7), "il disprezzo dell'autorità"; ma ancora una volta interviene Odisseo che, "in nome della fragilità umana", pacifica gli animi permettendo il cerimoniale della sepoltura.

La pazzia, in breve, spinge Bellerofonte ad un comportamento trasgressivo e criminale contro gli dei, scaglia poi Eracle contro la famiglia ed Aiace, infine, contro lo stato. Con la vicenda tragica di Aiace, ad ogni modo, si dischiudono nuove prospettive in quanto al ruolo arcaico della forza è subentrato il potere decisionale dell'assemblea. In effetti, grandi cambiamenti avvengono in Grecia nell'età della tragedia, uno spettacolo che svela allo sguardo le trame di violenza e di follia inaudite che regolano la vita fino a quando, sulla solidarietà del sangue che coagula il clan, si impongono le norme della città e l'Areopago, il tribunale voluto dalla razionalità di Atena, dà regole misurate per scandire la convivenza civile.

Con Platone e con la nascita del pensiero scientifico il tema tragico del rapporto tra violenza e follia suscita nuovi problemi e trova nuove interpretazioni.

Con Platone la tragedia del crimine e quella della follia investono ormai l'ambito della medicina: un'arte immaginata al servizio dello stato che ha bisogno di buoni cittadini e non di cronici da riabilitare, inguaribilmente raccolti su banali angustie e preoccupazioni somatiche. Platone, assai coerentemente, auspica pertanto la presenza di medici che collaborino con il potere giudiziario al fine di curare "i cittadini ben disposti per natura, nell'ordine fisico, come pure nell'ordine spirituale. Quanti invece non hanno queste disposizioni, se sono difettosi nell'ordine fisico, li lasceranno morire; quelli mal congegnati nell'ordine dello spirito, e perciò non suscettivi di rimedio, penseranno i giudici stessi a ucciderli" (8). Non vi è insomma alcuna speranza sul possibile ricupero del criminale vero e proprio, assimilato ai malati inguaribili.

La medicina fondata nelle categorie scientifiche dell'umoralismo, deve ormai affrontare, fra tante questioni, anche lo scabroso capitolo dei disturbi psichici. Ippocrate per diagnosticare la malinconia si richiama al criterio temporale, alla durata della tristezza (Aforismi, VI, 23). Ma negli scritti ippocratici per spiegare le ragioni della pazzia, si parla anche del possibile insulto della bile nera sul cervello (9). L'Autore pseudoaristotelico dei Problemi (XXX,1) non ha più dubbi: è la bile nera a provocare la pazzia, anche quella di Bellerofonte, di Eracle e di Aiace. Allo spirito della tragedia è così subentrato lo sguardo distaccato del naturalismo scientifico e della pratica medica. Galeno, legando il destino dell'anima a quello del corpo, farà poi del medico il vero esperto di psicopatologia: un tecnico che, favorendo il buon temperamento del corpo, può contribuire al controllo delle passioni (10). Galeno, ben consapevole che l'irrazionalità può assumere la forma di una "leggera pazzia" (11), è in polemica con gli stoici che, scotomizzando la malattia, danno invece rilievo al vissuto personale. Il conflitto con gli stoici, che avviene sul terreno del rapporto fra malattia e virtù, investe l'ambito delle rispettive competenze del medico e del filosofo.

Se nel mondo greco matura il sapere scientifico, in quello romano matura il diritto; qui si avverte la diversità del malato di mente di cui la legge deve tener conto. Fin dalle XII tavole (verso il 450 a.C.) il malato di mente è oggetto di cura e si trova pertanto in una posizione particolare di fronte alla legge (12). Nei Digesta Iustiniani Augusti (13) l'impubes e il furiosus sono poi assimilati e non rispondono di responsabilità gravi (14).

Quando la classicità volge al tramonto ed inizia l'età di mezzo il diritto romano diventa il diritto della Chiesa, nel contempo il sapere medico resta ancorato alla pagina galenica che propone una interpretazione naturalistica degli abnormi psichici. La vita, d'altra parte, trova la pienezza del senso nel messaggio cristiano e, mentre all'interesse classico per la salute subentra l'ansia per la salvezza, si impongono forti preoccupazioni di fronte a particolari comportamenti trasgressivi come la magia o l'eresia che possono distruggere l'ordinamento sociale ed oscurare la via della salvezza. In questa scollatura fra aspirazioni ideali e forme del sapere si insinua la mano del demonio che, con il passare dei secoli, imporrà sottili questioni diagnostiche per discriminare l'ambito della malattia e quello della colpa.

 

Dall'eta' di mezzo ai tempi moderni

Idlegardo di Bingen (15), in pieno Medio Evo, spiega che la bile nera, responsabile della malinconia, sale nel corpo dopo il peccato di Adamo: trasgressione e malinconia sono così saldamente associate in una prospettiva ideologica che risulta ampiamente condivisa per secoli in tutta Europa.

Pure la Regola salernitana, che sintetizza il sapere medico medioevale, attribuisce all'atrabile quei tratti temperamentali negativi che orientano i malinconici verso il peccato: invidia, cupidigia, avarizia, inclinazione alla frode (16). La bile nera, in altre parole, sostanzia il temperamento che predispone alla trasgressione. Ma anche la bile gialla, secondo la Regola salernitana, è un umore a rischio in quanto favorisce la superbia e gli scoppi d'ira (17).

E' poi ben noto che quando l'inclinazione temperamentale degenera in malattia le facoltà dell'anima, come vuole la tradizione classica, possono risultare gravemente offuscate. Galeno, un autore assai letto e commentato nell'età di mezzo, aveva ben rilevato come nelle freniti, nella malinconia etc. si veda chiaramente che "l'anima è signoreggiata dai mali del corpo" (18).

La questione è di grande interesse non solo dottrinale, in quanto solleva la questione del libero arbitrio e dei suoi limiti, ma anche pratico perché legittima, o non legittima, la concreta discriminazione della responsabilità personale in tema di eresia e di criminalità in presenza di una malattia.

Dal determinismo galenico, d'altra parte, prende le distanze Tommaso (19) quando afferma che una cosa è l'inclinazione temperamentale, dovuta alla mescolanza degli umori, ed altra cosa è invece l'intervento dell'anima: un puro spirito che governa il corpo e può, addirittura, combattere le passioni dovute al temperamento.

Il problema non è di facile soluzione in quanto si fronteggiano due linguaggi e due modelli di sapere con implicazioni concrete assai radicali: si tratta, infatti, di discriminare fra colpa e malattia, fra possibile condanna e fatale deresponsabilizzazione. Soprattutto negli ultimi secoli del Medio Evo il dilagare dei processi per eresia e per stregoneria svela quanto possa essere aspro il confronto fra linguaggi diversi e saperi diversi quando si misurano con lo stesso oggetto.

L'eresia e la stregoneria sono, fuor di dubbio, fenomeni di grande rilievo ideologico che richiamano l'attenzione di legisti, inquisitori ed anche di medici nello sforzo di interpretare ed arginare i complessi fermenti che, nei primi secoli dopo il Mille, percorrono l'Europa destabilizzando, ma anche rinnovando, i più consolidati ordinamenti sociali. Le Crociate, il rifiorire della spiritualità, l'eresia che serpeggia lungo l'arco alpino testimoniano quanto fosse ampia e profonda la spinta al rinnovamento.

Le Crociate, anticipate da migrazioni collettive senza mete precise e colorite da saccheggi ed esplosioni d'anti-semitismo, puntano su Gerusalemme ma, per quanto concerne il dis-ordine, travolgono anche altri territori da Zara a Costantinopoli dove gli occupanti, guidati da un doge cieco, si abbandonano ai crimini più efferati. Vi sono, tuttavia, anche crociate estranee alle terre d'oltremare come quelle contro gli eretici albigesi e la cosiddetta crociata dei bambini: una sorta di psicosi collettiva che, conclusasi a Marsiglia con la vendita dei partecipanti, ha suscitato qualche interesse fra gli storici ottocenteschi della psichiatria (20).

D'altra parte, in un momento tanto aspro, l'amore cristiano e la povertà apostolica vengono testimoniati da S. Francesco e dai suoi discepoli con modalità così forti da indurre, qua è là, il sospetto della pazzia. Lo stesso Francesco viene insultato "come un pazzo, un demente" dai concittadini di Assisi che gli lanciano contro fango e pietre ritenendolo "uscito di senno" (21).

In effetti, non sembra facile valutare correttamente i fermenti spirituali del tempo che vede fiorire vasti movimenti ereticali come quello dei valdesi e dei catari accanto a sette come quelle dei flagellanti. La povertà e la predicazione apostolica, l'aspirazione a vivere di elemosina, le improvvisate aspettative del laicato etc. sono le cruciali questioni che appassionano gli eretici suscitando le perplessità del potere civile e religioso. E' in questo contesto infatti che si impone il tribunale dell'Inquisizione con il compito di individuare ed emendare l'eresia.

La vicenda della setta di frate Dolcino (22) - fra Duecento e Trecento, quando il Medio Evo volge alla sera - rivela peraltro come agli occhi dei contemporanei fosse difficile mettere a fuoco e circoscrivere con chiarezza l'ambito del dissenso religioso vero e proprio in quanto l'eresia sembra ora sfumare verso la criminalità ed ora verso la pazzia. La storia della setta, in ogni modo, ha un indubbio sapore esemplare.

L'eresia dolciniana è preceduta dalla predicazione di certo Gerardo Segarelli, "illetterato e laico, idiota e stolto", che veste alla maniera degli apostoli e va "a letto nudo con donne nude per provare se riusciva o meno a mantenersi casto". Gerardo, pur dicendo parole vane, riesce a raccogliere un folle gruppo di "porcai e guardiani di vacche" che aspirano a vivere di elemosina e che, a scopo rituale, si scambiano il loro unico vestito dopo essersi spogliati etc. Il Segarelli, con le sue stranezze, viene alla fine ritenuto pazzo tanto da essere caritatevolmente ospitato, piuttosto che custodito, dal vescovo di Parma quale "buffone idiota e stolto".

Fra' Dolcino, sul piano dottrinale e comportamentale, si ricollega, appunto, a Gerardo Segarelli ma, a differenza del predecessore, solleva contro l'autorità un'autentica e violenta ribellione stroncata, dopo lunga resistenza, nella settimana santa del 1307. Fra' Dolcino, che contesta l'insegnamento storico e la gerarchia temporale della Chiesa, subisce un esemplare supplizio con la sua compagna, la bella Margherita, che Bernard Gui definisce "scellerata compagna di delitti e di follia" pur ritenendola "donna non tanto criminale quanto eretica". Il supplizio, che ostenta ogni atrocità, viene sopportato con impassibilità da Dolcino che lascia trasparire un cenno di sofferenza solo quando gli vengono strappati il naso e il membro virile "perché allora esalò un profondo respiro che gli uscì dalle nari". Benvenuto da Imola commenta che "avrebbe potuto essere definito martire se, a creare il martire bastasse il supplizio e non l'intendimento del suppliziato".

La storia di personaggi come Segarelli e Dolcino, "dementatus a dyabolo", oscilla agli occhi dei contemporanei fra eresia, criminalità e follia. L'allusione alla follia si pone però in termini vaghi, quasi metaforici, senza quei rimandi espliciti alla clinica che aprono le porte ad una concreta e fondata deresponsabilizzazione.

Questa ambiguità di linguaggio e di prospettive si coglie anche nelle storie di stregoneria, un vero campo di battaglia per il demonio. La stregoneria, nell'elaborazione matura e ben strutturata degli inquisitori, è caratterizzata da un patto fra la donna e il diavolo che la ripaga sia concedendo poteri magici - ad esempio, di distruggere il raccolto - sia con le orge del sabba, dove si banchetta con carne di bambino; la strega si reca all'incontro cavalcando un manico di scopa dopo aver cosparso il proprio corpo con unguenti magici. Secondo Ginzburg (23) questo viaggio al sabba rielabora il tema del viaggio nell'aldilà che si raggiunge attraverso esperienze estatiche.

La stregoneria, in ogni modo, è un fenomeno assai complesso dove convergono marginalità, comportamenti anti-sociali e tenaci espressioni della cultura subalterna. Nel Canon Episcopi di epoca carolingia i vissuti di quelle donne che narrano di un patto con il diavolo vengono considerati l'espressione di semplici illusioni, ma con il passare del tempo la tolleranza sbiadisce.

Con l'attivazione della cultura antica, tipica dell'età umanistica, la distanza fra il mondo familiare alla strega e l'ordinamento culturale degli inquisitori diventa infatti incolmabile e alla tolleranza subentra la persecuzione. Nel periodo di più aspro conflitto fra Riforma e Controriforma la caccia alle streghe sembra poi esprimere un bisogno esasperato di lotta contro un mondo tanto incomprensibile quanto carico di potenziale dis-ordine.

Urlico Molitor e Corrado Schatz (24), rivolgendosi in veste di educatori a Sigismondo d'Austria, sottolineano con estrema lucidità il pericolo della stregoneria nei confronti dell'ordine sociale. Per non lasciare spiragli al dubbio ed alle incertezze ermeneutiche, il Malleus maleficarum, il più classico fra i manuali inquisitoriali, mette addirittura in guardia contro quelle argomentazioni laiche che parlano di qualche "difetto di natura" (25) per mettere in forse il potere dei diavoli e delle streghe. Si tratta, infatti, di un pericolo reale ad elevato potenziale criminogeno, che non va banalizzato ricorrendo ad argomentazioni cliniche deresponsabilizzanti.

L'interpretazione recente di alcuni psichiatri e storici della medicina - Charcot (26), Gilles de la Tourrette (27), Richer (28), Castiglioni (29), Pazzini (30), Zilboorg (31) etc. - che considerano la stregoneria in una prospettiva essenzialmente psicopatologica è, d'altra parte, riduttiva almeno quanto, a suo tempo, lo era l'interpretazione degli inquisitori. La stregoneria esprime, infatti, fenomeni molto complessi, come si è già rilevato; è, tuttavia, fuor di dubbio che molte malate, fatalmente emarginate dalla malattia, siano diventate il capro espiatorio d'elezione nello scontro fra culture tanto diverse e lontane come quella degli inquisitori, da una parte, e quella dei circoli sabbatici dell'arco alpino, dall'altra.

Nel Rinascimento, ad ogni modo, non sono mancate le voci in difesa delle streghe. La più appassionata è, senza dubbio, quella di Wier (32) che le considera malate. Ma anche in Italia Cardano e Della Porta sollevano la questione del possibile dis-ordine mentale che sposta il problema dal contesto dell'eresia criminale al contesto della psicopatologia.

Cardano, descrivendo una forma di possessione epidemica osservata in una comunità romana di giovinette orfane, racconta di sessanta fanciulle che "in una sola notte diedero segno di essere divenute possedute dal Demonio" ma non pensa a nulla di concreto. Sospetta piuttosto le esalazioni del luogo o l'influenza dell'acqua "che muta gli umori"; ipotizza anche la "simulazione" richiamando l'attenzione sul possibile ruolo della suggestione reciproca in una comunità chiusa dove il dialogo decade a monologo. E monologo, in fondo, è proprio l'esistenza delle streghe: "mendiche, miserabili.... macilente, brutte etc.", sradicate da "prolungate meditazioni e false credenze" (33) confinate nel mondo arido dell'esclusione dove l'altro, anche in termini sessuali, può essere solo fantasticato.

Anche le osservazioni di Della Porta incrinano le prospettive monolitiche della demonologia; nel trattato Della magia naturale descrive infatti con chiarezza gli effetti di quelle sostanze che sono in grado di indurre "tante visioni" e "gioconde immagini" (34) ma che scompaiono dopo una notte proprio come avviene per le esperienze sabbatiche. Della Porta, con le sue congetture naturalistiche, entra in polemica con Bodin, il grande giurista persecutore di stregue.

Gli interessi di Cardano e Della Porta per il mondo della marginalità non si limitano alla stregoneria. Entrambi, del resto, sono stati considerati autentici precursori dell'antropologia criminale grazie alla comune passione per la fisiognomica (35); una disciplina che, sovrapponendo simbologia e morfologia, intende dedurre le caratteristiche personologiche dall'analisi della forma del corpo, in particolare da quella del volto.

Scrive Cardano che "la forma distorta delle membra rivela la improbità e la malignità". E più oltre: "Le linee della fronte... spezzate, disuguali, disordinate, asimmetriche, sempre attestano l'improbità". "Il capo aguzzo, il naso curvo fin dalla fronte... gli occhi rosseggianti e lucidi etc." sono invece il segno dei vecordes. Cardano, in sintesi, descrive singolari tipi umani, segnati da disarmoniche impronte somatiche, con tratti sociali e comportamentali particolari: vecordes, impazienti ed improbi che "nuocciono quando ne hanno l'occasione sia alle persone buone, contro le quali nutrono un grande odio istintivo, sia ai deboli incapaci di difendersi". Gli improbi, avverte Cardano, "per quanto non vestano come pagliacci, non parlino con voce alta e sgraziata, né camminino agitando le braccia con andatura precipitosa e veloce, sono ugualmente molto pazzi, e di una pazzia della peggior specie" (36).

Della Porta, per suo conto, descrive l'aspetto dei cattivi, delle puttane, degli avvelenatori, degli omicidi. I cattivi sono brutti di faccia con "orecchie lunghe e strette" e con "denti canini lunghi, fermi e usciti fuori". Gli omicidi sono invece connotati da "ciglia pelose e congiunte" e dagli "occhi usciti fuori, secchi". Nell'ermeneutica dellaportiana sono poi frequenti i rimandi fra stile di vita e mondo animale: la lupa rimanda alla puttana, il corvo al ladro etc. (37).

Sia Cardano che Della Porta, in breve, rivolgono uno sguardo assai attento al problema della devianza e al mondo degli irregolari: una società vecchia quanto l'uomo che acquista maggior spessore nei momenti di grande incertezza e mobilità politica, come si verifica nell'età del Rinascimento. Il problema degli irregolari non interessa allora i soli medici e, ovviamente, i giuristi ma richiama ben presto l'attenzione anche degli studiosi del costume, se così possono essere definiti autori come Frianoro o Tomaso Garzoni.

Fin dal Medio Evo, del resto, è ben riconoscibile una inquieta società di erranti che personifica la follia del mondo: errones e vagamundi che si confondono con gruppi di mistici e di ribaldi. Di questa incerta famiglia scrive, fin dalla seconda metà del �400, Teseo Pini nello Speculum cerretanorum: un trattatello che dopo oltre un secolo viene rimaneggiato dal Frianoro con il titolo de Il vagabondo che, fra una vera folla di furbi e di accattoni, si occupa anche degli ascioni degli accadenti e degli attarantati. Gli ascioni si fingono pazzi per avere l'elemosina e pure gli accadenti, dopo aver simulato un accesso epilettico, si rivolgono ai presenti per lo stesso motivo; gli attarantati, dopo un falso attacco di tarantismo, si fanno invece aiutare da un compare che raccoglie l'obolo in loro vece (38).

Ben più vasti sono gli interessi e gli scritti di Tomaso Garzoni che si occupa, fra tante figure umane, dei pazzi viziosi e dispettosi (39) secondo una prospettiva che riconduce ad un fondamento somatico ogni diversità sociale e comportamentale.

La questione del rapporto fra dis-ordine somatico e dis-ordine comportamentale appare ormai decisamente più mossa e complessa di quanto non lo fosse negli ultimi secoli del Medio Evo quando la misura di ogni giudizio era scandita dalla sola teologia. Nell'edizione del 1612 del Vocabolario degli Accademici della Crusca, alla voce "crimine" si legge ancora: "Ogni crimine è peccato, ma non ogni peccato è crimine. Abbiamo appresso da considerare in queste distinzioni di peccati, e di crimini, che alcuni peccati imbrattano l'anima, ma li crimini l'uccidono". L'allusione teologica si rivela pertanto ancora essenziale ma ormai eresia e stregoneria, le questioni nodali della cultura pre-moderna, non costituiscono più gli unici problemi di ordine sociale ed ideologico che possono coinvolgere la psicopatologia per invocare il dis-ordine malinconico degli umori. Dopo Cardano, Della Porta etc. lo sguardo dei naturalisti e degli studiosi si volge anche alla microcriminalità, alla marginalità civile, alla simulazione etc. mentre, sull'onda delle fortune anatomiche cinquecentesche, prende vigore l'osservazione fisiognomica per mettere a fuoco quegli irregolari della condotta che oggi rientrerebbero nel controverso capitolo dei disturbi di personalità.

Gli abusi di vino, non di rado, strisciano fra gli irregolari e sottendono il dis-ordine sociale. Mattioli, nel commento a Dioscoride, scrive che il vino "bevuto senza modestia e senza regola (come fanno gli ebbriachi)" induce molteplici disturbi ed ancora "corrompe dopo questo i buoni, e lodevoli costumi: perciò che fa diventare gli uomini cianciatori, baioni, contentiosi, scredentiati, lussuriosi, giocatori, furiosi, disonesti, e homicidiali" (40).

I tempi diventano rapidamente maturi per un confronto sistematico fra medicina e criminalità. Tale confronto si realizza con l'opera di Zacchia, il vero fondatore della medicina legale. Zacchia, che è archiatra e protomedico degli Stati Ecclesiastici, quando affronta spinose questioni - quali, ad esempio, le demonopatie - si sforza di mediare, come si usa dire, fra scienza e fede. In tema di possessione diabolica ritiene così che "gli umori melanconici siano i più adatti per attirare l'ospite infernale" (41); un parere, anticipato da Wier (42), e condiviso ancor oggi dai demonologi del �900 (43). Autore delle celebri Quaestiones medico-legales (44), dedica un ampio e dettagliato capitolo alle malattie mentali al fine di tratteggiare le direttive per una concreta collaborazione fra medicina e giustizia nel rispetto dei valori della fede da cui discendono gli ordinamenti civili.

La criminalità, con le paure che suscita, non sfugge allo sguardo dei cultori di iconologia: una disciplina, tipicamente cinquecentesca e seicentesca, che tende alla rappresentazione figurata e sintetica di situazioni esemplari. In un mondo saturo di cultura classica, Alciato (45), per raffigurare la vendetta del pazzo, ricorda ancora una volta l'episodio di Aiace che uccide gli animali. Pure Ripa (46) ha gusti classicheggianti ed immagina l'omicida brutto, pallido, insanguinato con spada e cimiero. Il Bocchi (47), mentre ancora trionfa la pratica del supplizio, non rinuncia allo spettacolo giudiziario ma propone, come strumento di pena, una sorta di anticipazione della ghigliottina che non esclude il tormento ma lo rende più celere. Forse la sensibilità collettiva va impercettibilmente cambiando.

 

Verso l'illuminismo

Il �600 è il secolo della Controriforma e del meccanicismo che, con Galilei e Harvey, rinnova l'antropologia medica. La Controriforma ripropone con vigore la cultura della tradizione teologica; la medicina, dopo la scoperta harveyana della circolazione del sangue, rompe invece i ponti con il passato e guarda all'uomo come ad una sorta di macchina idraulica. In questo contesto affiora un solco fra natura ed esistenza; nel contempo l'ordinamento ideologico della teologia, da una parte, e quello della medicina, dall'altra, diventano progressivamente estranei fino ad elaborare concezioni antropologiche e linguaggi alternativi.

In prospettiva teologica, lungo il �600 la lotta alla stregoneria, quale crimine emblematico, e lo spettacolo del supplizio risultano ancora funzionali e coerenti con gli ideali che reggono l'organizzazione sociale: si veda al proposito, il Compendio del Guaccio (48). Ma nel volgere di qualche generazione la stregoneria uscirà progressivamente dall'orizzonte della criminologia per diventare, alla fine del �700, un modesto capitolo dei trattati di medicina mentale. L'operazione contro le streghe di Nogaredo, in pieno �600, è forse l'ultima grande istruzione processuale che muove su uno sfondo di marginalità, povertà, malattia e ribalderia (49). L'ultimo processo contro le streghe celebrato in Italia risale poi ai primi del �700 (50).

Nel 700, d'altra parte, di magia e di stregoneria si continua a scrivere: si tratta infatti di una questione ideologica nodale che si conclude con l'avvento delle prospettive illuministe che muovono lungo quella traccia di pensiero razionalista che è maturato nell'ambito della medicina coinvolgendo i più diversi campi del sapere. Significativi i contributi di Tartarotti, Maffei, Muratori e Grimaldi.

Per Tartarotti (51) le streghe sono donne malinconiche vittime della loro immaginazione e della confusione fra sogno e realtà; Tartarotti, tuttavia, crede agli effetti della magia. Di diverso parere è invece Maffei (52) per il quale non sono reali né le esperienze riferite dalle streghe, né le operazioni della magia; i maghi, secondo Maffei, non sortiscono che inganni e, del resto, è palese l'incongruenza fra cause magiche immateriali ed effetto materiale. Secondo Marchi la posizione del Maffei va intesa alla luce di una "rivendicazione della libertà dell'uomo e della capacità della ragione" (53); Di Marco (54), d'altra parte, rileva come la posizione di Tartarotti, oscillando fra razionalità ed irrazionalità, esprima tensioni immanenti all'animo umano al di là delle contingenze storiche.

Ampie perplessità in tema di stregoneria sono espresse anche da Muratori (55) che aspira a liberare la religione dagli aspetti più retrogradi. Con Grimaldi (56), infine, predomina l'approccio erudito ad una questione che si avvia ad essere estranea alla vita quotidiana.

L'evoluzione della sensibilità culturale e la progressiva incisività del razionalismo naturalistico investono ormai il fondamento stesso del diritto. Nota, infatti, Maffei che "secondo la sana giurisprudenza confessione di cose impossibili non è valida, e non può far procedere a condanna" (57). Anche Carli, un professore padovano che si inserisce nella polemica sulle streghe, avverte come le confessioni di queste "donnicciuole" ai tribunali dell'Inquisizione vadano intese come "una vera e reale pazzia" (58) e niente di più. Stimolante, secondo Parinetto (59), è la posizione di un criminalista quale Melchiori, che invita a trattare i reati di stregoneria alla stregua degli altri delitti che devono essere ben provati.

Interventi, tanto numerosi ed articolati, su questioni ideologiche fondamentali, come quelle poste dalla stregoneria, esercitano, come è ben comprensibile, un ruolo decisivo sia nell'evoluzione dell'ordinamento della giustizia che nell'abbandono delle pratiche più cruente di procedura penale. Questo rinnovamento, del resto, rientra nel più ampio movimento di pensiero promosso dall'illuminismo che ravvisa nel naturalismo e nell'uguaglianza civile i rispettivi pilastri della cultura scientifica e dell'organizzazione sociale; la promozione della felicità, la tolleranza, la riorganizzazione delle istituzioni, proprio all'insegna del naturalismo e dell'uguaglianza, diventano i grandi temi del momento. Per quanto riguarda il diritto, sono essenziali i contributi di Beccaria e di Verri.

Naturalismo ed uguaglianza sono, appunto, i motivi che intonano il noto saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene. Secondo Beccaria il diritto autentico e la politica morale durevole devono, infatti, essere fondati sui "sentimenti indelebili dell'uomo"; sono pertanto inutili la tortura e lo spettacolo barbarico della pena di morte mentre le pene devono essere pubbliche, rapide e dolci per non scatenare la ferocia; assurda, infine, la persecuzione dei suicidi perché incapaci di considerare le stesse conseguenze del loro atto. Beccaria tuttavia, per quanto il suggerimento in tema di suicidio apra uno spiraglio al comprendere psicopatologico, è reticente in merito alla eventuale possibilità di instaurare un rapporto fra disturbo mentale ed eclissi della punibilità. Gli è che per Beccaria "errano coloro che credettero vera misura dei delitti l'intenzione di chi gli commette" (60). Verosimilmente la teoria dell'intenzionalità che potrebbe scagionare molti imputati, fra i quali i malati di mente, appare al Beccaria confusiva ed estranea all'evidenza dell'uguaglianza.

Contro la spettacolarità del supplizio e contro la tortura, accanto a Beccaria, si scaglia anche Pietro Verri. Tanto più che la pratica dei tormenti, che già Muratori aveva ritenuto ripugnante alla "Natura" (61), rende inattendibili le confessioni estorte con la violenza. Del resto, l'autorevolezza di quanti sostengono l'opportunità della tortura è inconsistente; si tratta, infatti, di un'autorevolezza molto simile a quella dei sostenitori della stregoneria e della magia quando "la tradizione dei più venerati uomini e tribunali insegnava di condannare al fuoco le streghe e i maghi, i quali ora si consegnano ai pazzerelli, dacché è stato dimostrato che non si danno né maghi, né streghe" (62).

Nel pensiero di Verri l'allusione alla stregoneria assume pertanto un sapore che, ancora una volta, è esemplare. La stregoneria, in effetti, è un capitolo che, con l'illuminismo, passa definitivamente dai manuali per inquisitori ai trattati di psichiatria; da reato contro l'ordinamento della religione e dello stato diventa il contenuto, piuttosto arcaico e desueto, di un disturbo mentale. Scrive Chiarugi, l'autore del primo vero trattato di psichiatria specialistica: "Si danno per altro certe pazze, alle quali si dà il nome di streghe che s'immaginano per patto convenuto col demonio di potere operare cose meravigliose, e soprannaturali, e particolarmente di intervenire agl'impuri congressi dei medesimi Demoni, di poter indurre l'impotenza coniugale; di fare ammalare e risanare i bambini, ed altre simili sciocchezze. S'incontrano anche tra gl'uomini, e specialmente tra i pastori più idioti, dei componitori di filtri etc." La questione viene affrontata, in un contesto meramente clinico, nelle pagine dedicate all'"Esame nosologico delle Melancolie".

La possibile connessione fra disordine mentale e trasgressione è sollevata da Chiarugi non solo in tema di stregoneria, ma anche nella valutazione del suicidio e dell'omicidio quali manifestazioni estreme e radicali della "Melancolia furente". Per Chiarugi: "L'uomo, il quale a similitudine d'ogni altro animale à per naturale istinto la conservazione della propria esistenza, e la dilezione dei suoi simili, deve dirsi veramente delirante, tutte le volte, che egli à l'insensata barbarie d'attentare contro l'altrui vita, e particolarmente contro la propria" (63). La deviazione dall'istinto e dalla naturale solidarietà sociale è, insomma, intesa come l'espressione di un autentico disturbo mentale.

Nel pensiero di Chiarugi i rimandi fra disturbo psichico e deviazione dagli ordinamenti naturale e sociale sono indubbi, manca però il confronto sistematico fra diritto e psichiatria. Chiarugi non è un medico legale ma uno psichiatra. Anche la medicina legale italiana, e non solo la psichiatria, conosce comunque nuovi impulsi con la cultura dell'illuminismo che si fa concretamente sentire negli anni dell'occupazione francese.

Secondo Geremek (64), d'altra parte, nell'approccio alla criminalità esiste una profonda cesura fra il modello tradizionale e quello contemporaneo quando, a cavallo fra �700 e �800, la criminalità viene correlata alle strutture economiche e sociali. In una società che intende prendere le distanze dal passato, il rapporto fra medicina e diritto deve pertanto essere fatalmente ridefinito. In questo clima, sostanziato dalle moderne teorie illuministe, Giuseppe Tortosa sostiene l'opportunità che la medicina legale diventi oggetto di insegnamento universitario (65).

In realtà Tortosa, autore di un ampio manuale di medicina forense fortemente ispirato a Zacchia, più che elaborare nuove ed originali dottrine riordina e sistematizza le moderne concezioni giuridiche e deontologiche della medicina illuminista, guardando peraltro con cautela alle consuetudini del passato. Vi è ben poco di nuovo in tema di magia, di stregoneria e di verifica dei miracoli; ed anche nel capitolo dedicato alla tortura sembra prevalere la neutrale preoccupazione di una corretta assistenza traumatologica sullo sdegno civile e sulla critica psicologica di una pratica inattendibile.

Più interessanti, piuttosto, sono le pagine dedicate alla simulazione e dissimulazione della patologia mentale, di quella cronica in particolare. Se "alcuno finga di esser pazzo, per sospendere un atto giudiziario; o per non assumere un uffizio gravoso, o per sciogliere un contratto, o rompere un patto, o per iscansarsi da una pena etc." il medico può orientarsi ricorrendo ad un accurato esame semeiologico volto a cogliere il disturbo psichico nella sua continuità e complessità. Ma Tortosa auspica il sistematico coinvolgimento del medico in veste di perito anche per coloro che "dissimulano la imbecillità, la mentecattagine, o il vaneggiamento" per manipolare a proprio vantaggio le disposizioni testamentarie. Ed ancora, nota Tortosa, il medico può essere coinvolto dal magistrato per esprimere un parere in tema "di interdizione e di tutela". E' compito del perito, in questi casi, "il rintracciare...., co'l favore delle dottrine semiotiche, i segni propri della indiziata malattia, ed il decidere, se l'infelice trovisi in quello stato morboso di mente, in cui, ecclissato essendo dalle materiali offese del cervello il lume razionale, non possa far uso delle animali facoltà conformemente all'ordine di natura" (66).

Il medico, grazie alla conoscenza della semeiotica e della neurofisiologia, si propone pertanto come il vero tecnico in grado di esprimere un parere fondato ed attendibile in merito al rapporto fra malattia mentale e trasgressione del codice. In questo contesto, come è evidente, la capacità di cogliere la simulazione di un disturbo psichico acquista un rilievo dottrinale fondamentale, ben più forte che in passato anche se la simulazione in medicina è storia di sempre (67).

Il riferimento alla natura, l'uguaglianza di fronte alla legge e la fiducia nella ragione sono ormai categorie culturali ampiamente condivise grazie all'impegno civile di eruditi e di studiosi come Muratori, Maffei, Beccaria, Verri, Chiarugi e Tortosa. Alla fine del �700 sono ormai scacciate le fantasticherie psicotiche della stregoneria accantonando quella confusione fra criminalità e malattia che, sempre più, turba le coscienze. Ma ben presto le lame della ghigliottina e le baionette del Bonaparte spruzzeranno di sangue il candore e la razionalità dei lumi.

 

Frementi dottrinali alle origini dell'eta' contemporanea

Si usa dire che la medicina italiana del primo �800 attraversa un periodo di grave e profonda crisi. Si tratta di un parere pessimista e riduttivo in quanto è ben vero che la ricerca non ha più l'originalità dei tempi di Morgagni ma la medicina vive ugualmente un periodo di intenso fervore dottrinale alla ricerca di una coerente dimensione antropologica, di rinnovate direttive metodologiche e di un incisivo spazio civile. In questo periodo, del resto, la medicina deve misurarsi con i nuovi indirizzi maturati dopo le ricerche neurofisiologiche di Haller che falsificano l'antropologia del primo �700, ancora sospesa fra umoralismo e meccanicismo cardiocetrico. La fiducia nel metodo d'osservazione, che ha dato grande impulso all'anatomia, invita poi ad enfatizzare il mondo dello sguardo anche se, proprio con l'enfasi di questo approccio, risultano entificati aspetti esistenziali che visibili non sono. Si aggiunga infine che la medicina, dopo l'illuminismo e soprattutto dopo la grande Rivoluzione, è alla ricerca di un compito civile che era del tutto estraneo alle aspettative pubbliche del passato.

L'Italia - occupata dal Bonaparte, trascinata nelle guerre dell'Impero, pacificata con le divisioni politiche della Restaurazione - vive decenni di sommerse tensioni civili mentre la medicina deve misurarsi con le suggestioni culturali maturate al di là delle Alpi: con l'illuminismo, con il materialismo anatomico di Gall, con lo storicismo idealista.

L'igiene pubblica e la medicina legale testimoniano, chiaramente, le nuove dimensioni civili, mentre il fiorire degli studi storico-critici avverte quanto sia profonda l'esigenza di cogliere il fondamento della pratica professionale. La medicina legale, in particolare, è oggetto di una revisione radicale: fondata sul naturalismo, guarda infatti al cittadino che ormai muove in uno stato di diritto mentre il discorso sulla criminalità, che costituisce il capitolo centrale della disciplina, diventa un discorso sull'uomo sollevando il dibattito sulla peculiare organizzazione naturale che sottende il comportamento trasgressivo.

Il bisogno di rinnovamento che, a questo livello, coinvolge il mondo sanitario italiano è attivato, come è ben comprensibile, soprattutto dalla cultura fiorita in Francia, con l'opera di Foderè, ma anche in Germania con gli studi di Curzio Sprengel.

L'impegno storico-critico e teoretico che lungo la penisola accompagna e sottende la rinascita della medicina legale è testimoniato dalle fatiche di Miglietta, di Freschi e di Puccinotti che si occupano sia di storia (68) che di medicina legale.

Miglietta, docente di storia della medicina a Napoli, cura l'edizione italiana del Trattato di medicina legale e d'igiene pubblica etc. di Foderè. Ma l'interesse del pubblico italiano, come si è ricordato, non si limita alle opere francesi; ben presto sono infatti tradotte anche le Istituzioni di medicina legale di Curzio Sprengel, l'illustre storico tedesco. L'importanza che viene ora attribuita alla storia traspare anche da segni marginali; Francesco Freschi, autore di un trattato di medicina legale, si presenta infatti sul frontespizio del proprio manuale come il "continuatore della storia prammatica della medicina di C. Sprengel". Di Puccinotti, infine, l'impegno storico-medico, anche in veste di docente a Pisa, è notorio e, senza dubbio, prevalente sulle fatiche dedicate alla medicina legale. La storia della medicina, con l'illuminismo, non è più mera ricostruzione bibliografica o cronaca annalistica ma acquista, infatti, valenze critiche, epistemologiche e civili, che orientano tutta la prassi medica, dalla ricerca all'organizzazione legale della professione.

Miglietta nel presentare l'opera di Foderè lascia intendere di voler contribuire con la sua fatica editoriale all'incremento di felicità della nazione valorizzando quell'incontro del diritto con le scienze della natura che sostanzia il trattato che offre, con adeguato commento ed opportune integrazioni, al lettore italiano.

In effetti Foderè, ispirato agli ideali più maturi dell'illuminismo, guarda alla natura per valorizzare la sintonia fra salute e felicità sociale. In questa prospettiva, il medico, un naturalista che sa di anatomia e di patologia, è l'esperto meglio legittimato per esprimere un parere coerente in tema di salute e di salute mentale al fine di elaborare un corretto e illuminato incontro fra medicina e diritto. Per Foderè la salute mentale coincide con la capacità di condividere il modo di ragionare degli altri uomini, mentre nel delirio affiora un errore di giudizio che porta alla disarmonia nella comunicazione interpersonale. Questo disturbo, che impone alla legge la protezione degli insensati, è fondato sulla disorganizzazione dell'ordine somatico. Foderè, ad ogni modo, fra le cause che possono portare al disturbo nella comunicazione e nella convivenza sociale non considera il solo ruolo delle più classiche sindromi cliniche ma anche quello delle passioni sfrenate, come quella amorosa, e la spinta nefasta di istinti depravati o l'incontrollabile risposta a bisogni imperiosi attivati da quegli stimoli che mirano alla conservazione individuale e al mantenimento delle specie. E' ben vero - argomenta Foderè - che l'educazione può moderare le passioni più violente ma vi sono impulsi che trascendono il margine della possibile libertà. Nella valutazione del rapporto fra libertà individuale e fatali condizionamenti indotti da cogenze di ordine naturale non è, in ogni modo, corretto elaborare pareri astratti ma bisogna invece considerare adeguatamente, accanto al corpo, anche le influenze ambientali, del suolo e del clima; in questa prospettiva, ad esempio, risulta adeguata e motivata la particolare mitezza delle leggi piemontesi in tema di ubriachezza là dove una severità astratta, immemore "della natura del suolo e del genio degli abitanti", non avrebbe che esasperato la situazione.

Foderè sa bene che "ogni misfatto procede da follia; ogni crudeltà, ogni brutalità, ogni vendetta, ogni ingiustizia è follia; colui che vi si è abbandonato, ha perduta in quell'istante la sua ragione; il suo cervello ha avuto una malattia accidentale. Ma questa opinione sì nobile, che può essere utile per regolare i costumi e mettere un freno alle passioni disordinate, per insegnare agli uomini che la virtù è la perfezione della ragione, come la ragione fa essa stessa la perfezione della natura umana; questa opinione, io dico, non può prevalere nella società per indebolire l'orrore del delitto, e sottrarlo ai gastighi imposti dalla legge, quando è provato che colui che l'ha commesso, aveva un grado di ragione sufficiente per conoscere la differenza del bene e del male, e reprimere le sue passioni" (69).

Natura, istinti, ragione e società sono i grandi temi che sostanziano l'antropologia illuminista fornendo le coordinate per interpretare l'abnorme psichico e i suoi rapporti con il crimine che risulta pertanto sotteso da una evidente complessità causale che impone la più grande cautela interpretativa. Foderè, in effetti, considerando il rapporto fra crimine ed abnorme psichico si sforza di bilanciare libertà e necessità, protezione individuale e difesa sociale.

Se l'ampio trattato di Foderè, edito in più volumi fra il 1819 e il 1823, mette a disposizione della cultura italiana il pensiero medico-legale maturato in Francia negli ultimi decenni, la citata monografia di Sprengel, tradotta nel 1817, mostra invece i problemi affiorati nell'ambito dell'illuminismo tedesco dove la scontata professione di naturalismo è accompagnata da allusioni esplicite al pensiero kantiano. Sprengel pur valorizzando, come Foderè, la professionalità del medico insiste peraltro nel distinguerne chiaramente l'ambito di competenza rispetto a quella del giurista per non inquinarne la neutralità operativa. Attento all'insegnamento kantiano, per dire del rapporto fra psicopatologia e criminalità Sprengel parla poi di malattie dello spirito, quelle "che tolgono la coscienza di sé e la libera volontà" e riducono pertanto l'imputabilità quando, dopo attenta considerazione dell'ampiezza e della qualità di eventuali "intervalli lucidi", la coscienza e la capacità di giudicare risultano effettivamente oscurate (70).

Nel primo �800, ad ogni modo, accanto agli scritti francesi e tedeschi non mancano i contributi medico-legali che, pur attenti alla cultura d'oltralpe, sono autenticamente italiani; tali sono i saggi di Barzellotti, di Freschi e quello, notissimo, di Puccinotti. In queste opere, edite durante la Restaurazione, si delinea una progressiva distanza dall'idea illuministica di natura; questo relativo distacco dal mito della natura, interpretata alla maniera illuministica, si accompagna poi ad una nuova attenzione per le ragioni dello spirito.

Barzellotti, il primo docente toscano di medicina legale, viste le difficoltà di coniugare la medicina con il diritto dà enfasi al momento "artistico" della disciplina rispetto a quello rigidamente scientifico. Sul piano teoretico guarda a Zacchia piuttosto che agli autori più moderni. Barzellotti, del resto, pur conscio dell'immutabilità della "Natura", sa bene quanto siano mutevoli le convenzioni ed i costumi umani. Il confronto fra natura e cultura, fra scienza e diritto, che intona la medicina legale rende, pertanto, dilemmatica ogni coerenza epistemologica. La difficoltà è palese nel tentativo di definire la salute mentale; tanto più che Barzellotti non intende prendere posizione sulle proprietà dell'anima e, nel contempo, lascia ai neurofisiologi sia la competenza in merito alla sede dell'anima che in merito al funzionamento del cervello. La prospettiva di Barzellotti, dichiaratamente estranea alla metafisica ed alla fisiologia, è sociologica. Con queste riserve dottrinali, la sanità mentale, con l'implicita libertà nell'esercizio delle facoltà intellettuali, si coglie piuttosto nella sintonia dell'esistenza con gli ordinamenti della società e della tradizione. Il delirio e la fatuità, intrinsecamente estranei al contesto di una corretta comunicazione sociale, invocano comunque la tutela giuridica dei malati di mente quando infrangono l'ordinamento che regge la convivenza civile. Questa protezione, che va accordata dopo attenta esclusione della simulazione, deve però accompagnarsi alla perdita di quei diritti che definiscono il cittadino (71). Molti segni, dalle preferenze bibliografiche al disegno teoretico, rivelano che nel pensiero di Barzellotti l'illuminismo ha perso qualche mordente anche se la dichiarata preoccupazione per la tutela civile del malato di mente è un tema caro al garantismo illuminista.

In effetti, cautele perbeniste, reticenze dubbiose e perplessità teoretiche sembrano, in qualche modo, oscurare la chiarezza e il razionalismo dei lumi. D'altra parte le norme giuridiche che intonano la vita del Paese, diviso in minuscoli staterelli regionali, sono molteplici e non sembra davvero facile proporre soluzioni monolitiche. In questo mondo, dove la secolare passione per il commento ha sempre mantenuto un vigore inesauribile, Freschi (72) confronta i codici dei vari stati; ma il suo saggio, sostanzialmente imbevuto di cultura giuridica, piuttosto che la natura e l'antropologia analizza le prospettive civili, politiche e sociali, che regolano il rapporto fra medicina e diritto, fra psicopatologia e criminalità.

Anche nell'Italia del primo �800 non mancano peraltro prese di posizione scoperte per guardare in modo coerente al fenomeno della criminalità con cui si confrontano sia le teorie frenologiche che quelle ispirate allo storicismo.

 

Criminalita' e organizzazione anatomica

Lo sviluppo settecentesco dell'anatomia, dell'anatomia comparata e soprattutto le raffinate ricerche neurofisiologiche di Haller impongono un nuovo statuto alla medicina che si configura sempre più chiaramente come medicina d'osservazione. In questo contesto affiora un modello antropologico caratterizzato dall'egemonia del sistema nervoso, mentre il metodo d'osservazione incoraggia approcci conoscitivi saldamente ancorati all'anatomia come la fisiognomica e la frenologia.

La fisiognomica, in verità, non sembra avere grande incisività nella medicina italiana del primo �800 nonostante il poderoso, recente impulso dato a questo tipo di studi da parte dello svizzero Gaspar Lavater. La disciplina, questa parodia dell'anatomia comparata, non riesce in effetti ad ottenere un apprezzamento scientifico che ricordi l'ampiezza dei consensi che, in Italia, aveva riscossi durante il �500. Il consenso, piuttosto, sembra essere più condiviso a livello della saggistica popolare che ama descrivere "il malvagio" con "viso deforme e scolorito... denti acuti alquanto sporgenti...", mentre "l'omicida" mostra "fronte bassa; folte sopracciglia che si congiungono..." etc. (73). L'anatomia comparata si risolve qui in superficiali analogie dove convergono esigenze estetiche ed ancestrali paure nei confronti del mondo animale. La fisiognomica peraltro esprime e trasmette un sapere che nella seconda metà del secolo contribuirà, almeno sul piano estetico, alla definizione dello stereotipo del criminale.

Di rilievo ben più forte, per lo studio dei disturbi psichici e della criminalità, sono le teorie maturate in margine alle ricerche condotte sul sistema nervoso dopo Haller (74), che introduce il concetto di irritabilità, e dopo Cullen (75), che parla di nevrosi per alludere a stati di alterata funzionalità del sistema nervoso. Con questi studi inizia infatti l'età d'oro dell'epilessia quale disturbo neuropsichico emblematico che oscura, dopo secoli e secoli, la fortuna della melancolia che anche nei decenni del romanticismo sembra affascinare più il mondo della letteratura che quello della medicina. E' poi evidente come l'attacco epilettico, con l'andamento accessionale che lo caratterizza e con l'indipendenza dalla volontà, possa invitare a facili confronti ed identificazioni con gli impulsi trasgressivi, improvvisi e irresponsabili, della criminalità.

Anche la frenologia va intesa come l'espressione di un momento particolarmente felice delle indagini condotte sul sistema nervoso. Secondo la frenologia, fondata da Gall, le varie inclinazioni personali trovano il loro concreto fondamento nello sviluppo, più o meno ampio, di un ben definito territorio cerebrale. Gall, secondo un'ipotesi rivelatasi errata, ritiene poi che esista un parallelismo fra lo sviluppo embriologico delle ossa craniche e la sottostante corteccia tanto che il differente sviluppo delle varie zone cerebrali, responsabili delle diverse inclinazioni individuali, comporterebbe analoghe modificazioni della volta cranica. Ne deriva pertanto che con la palpazione del cranio, secondo Gall, è possibile elaborare una topografia delle varie inclinazioni e facoltà personali (76).

Alla frenologia si interessano, in tutta Europa, biologi e medici, ma anche giuristi e teologi. In Italia, in particolare, fra i cultori più rappresentativi vanno ricordati Fossati e Miraglia. In una breve monografia edita a Bologna nel 1835 (77), con introduzione teorica di Fossati ed esposizione sintetica del pensiero di Gall, alcune ampie tabelle compendiano esemplarmente tutto il dottrinale cranioscopico indicando le connessioni fra gli organi encefalici, la sede e la forma esterna del cranio, la mimica ed il comportamento corrispondente, i possibili rimandi intellettuali e morali che è possibile instaurare fra uomo ed animale analizzando lo sviluppo degli organi cerebrali stessi. La mappa, che intende essere esauriente, considera, fra tanti aspetti, anche i comportamenti trasgressivi che si configurano come la manifestazione enfatica di inclinazioni normali. Così all'istinto della difesa dell'io e della proprietà, collocato nell' "organo del coraggio", corrisponde in caso di iperattività l'inclinazione alla rissa e al combattimento; l'organo in parola si trova a livello delle orecchie; quando è in funzione il corpo è raccolto, le gambe sono leggermente divaricate, i pugni serrati, gli occhi minacciosi. All'istinto carnivoro si ricollegano invece la crudeltà e l'inclinazione all'assassinio; l'organo è al di sopra del meato uditivo; la mimica è corrucciata mentre gli occhi spiano la vittima; si tratta di una inclinazione indispensabile agli animali predatori e l'uomo, che è onnivoro, partecipa di questa inclinazione con conseguenze che possono essere pericolose per l'ordine sociale. All'istinto di accumulare che sottende il sentimento della proprietà sono invece connessi l'inclinazione al furto, il ladroneccio, l'usura etc.

Secondo la frenologia il comportamento dipende, insomma, da un ben preciso substrato anatomico; una prospettiva che mette in discussione la concezione tradizionale dell'anima e il libero arbitrio, aprendo le porte al materialismo. La questione è di evidente interesse per la criminologia in quanto fa del criminale una figura determinata da ineluttabili cogenze di ordine naturale. Miraglia (78), uno studioso meridionale che muove sulla scia di Gall, si sforza peraltro di mediare le posizioni più radicali, sia pure riconoscendo che esistono inclinazioni tanto forti da rendere "irresistibili" certi comportamenti trasgressivi che vanno pertanto intesi come l'espressione di uno stato di alienazione inaccessibile al controllo della ragione.

Dall'impostazione frenologica classica, che ha per caposaldo la cranioscopia, si allontana Lussana per il quale "i cervelli bisogna cavarli dal cranio e non indovinarli attraverso le ossa; bisogna studiare e mostrarci le circonvoluzioni cerebrali..."

Le ricerche vanno poi attuate, secondo le tecniche più promettenti della neurologia ottocentesca, ricorrendo ad esperimenti di distruzione delle varie regioni encefaliche "onde positivamente verificare quale di loro colla propria oblazione apporti l'annichilamento delle facoltà intellettive o, in altri più espliciti termini, quali delle diverse facoltà psicologiche vengono a mancare col mancare di questa o di quella parte dei centri nervosi". Lussana, che si occupa di tutti gli organi psicologici, guarda anche all'"organo istintivo del distruggere" la cui presenza solleva molteplici problemi sociali. Nota al proposito che "quasi tutti gli uomini, che lasciano la vita sul patibolo o nelle galere, quasi tutti offrono uno sviluppo eccessivo della regione temporale del cranio"; è pertanto legittimo chiedersi "se propriamente esistano animali ed uomini, cui la Natura col dotarli di un organo distruttivo assai energico, abbia destinati per fatale necessità ad essere crudeli e sanguinari". In altre parole, il frenologo potrebbe dire: "L'uomo fornito di un enorme sviluppo della 1� circonvaluzione temporale è spinto facilmente a distruggere esseri inanimati od animati". Ma Lussana non è del tutto pessimista: bisogna infatti considerare "come anche l'organo distruttivo possa subire la influenza della sua denutrizione, allorquando per una ginnastica morale di antagonistici affetti lo si condanna ad un minore esercizio. Tutto ciò è possibile a meno che lo sviluppo dell'organo distruttivo non sia spinto a tal grado violento che ci conduca alla Monomania". Per dimostrare la fondatezza delle proprie tesi Lussana invita a confrontare un "cervello di cane selvaggio coi cervelli delle razze da lungo tempo addomesticate per cogliere la grande differenza di sviluppo nella 1� circonvaluzione temporale, pronunciata assai nel primo, pochissimo nelle seconde" e più oltre ricorda che "la testa delle Nazioni incivilite offre un minore sviluppo delle regioni temporali, anziché quelle dei popoli selvaggi" (79).

La frenologia, sospesa fra medicina mentale criminologia e studio delle razze, costituisce un sapere tanto coerente quanto fragile. I tempi d'oro della disciplina vanno però rapidamente esaurendosi alla metà del secolo sia con il progresso dell'embriologia che dimostra infondata la convinzione che il cranio si modelli sull'encefalo, sia con l'affinamento delle ricerche morfologiche quando diventa palese che gli esperimenti per distruzione inducono crolli funzionali e compensi imprevedibili che vanno ben oltre la sede d'intervento. Dalle ceneri della fenologia si sviluppano peraltro non pochi motivi destinati a confluire nell'antropologia del positivismo che, del resto, coagula anche altri aspetti della complessa ricerca biologica ottocentesca.

La battaglia per la causa frenologica, ad ogni modo, non ha esclusivo sapore scientifico ma si accompagna a complessi risvolti ideologici e politici dal sapore rivoluzionario: Gall è ben presto in difficoltà con la Corona austriaca, Fossati è costantemente alle prese con l'ostilità dei governanti, Miraglia è perseguitato dai Borboni. Ma se è vero che la dottrina, con la negazione del libero arbitrio, solleva indubbie perplessità sociali e morali si deve prendere atto che nel contempo raccoglie anche profondi consensi, come quello di Comte per il quale la frenologia "favorisce la rivoluzione generale dello spirito umano per la fondazione di una filosofia completamente positiva" (80).

Al di là della tenuta scientifica, la frenologia, in realtà, propone un'immagine dell'uomo ricca di motivi destinati a confluire nell'antropologia positivista accanto alle suggestioni indotte dall'evoluzionismo. Assai significativa, in ogni caso, è la convergenza ideologica fra frenologia ed evoluzionismo che, negando il libero arbitrio, influenzano, ad un tempo, sia la criminologia che la medicina mentale.

Fra dissenso etico, nel clima della Restaurazione, e consenso metafisico, all'insegna del positivismo, trova peraltro ampio spazio anche l'ironia: Hegel scrive, infatti, che per Gall lo spirito è un osso. Secondo Hegel "dobbiamo guardarci dal procedere alla maniera di Gall, che fa dello spirito una semplice questione di localizzazione cranica" (81): al sostanzialismo anatomico della frenologia contrappone la filosofia dello Spirito.

 

 

 

Approcci storicisti

La cultura medica italiana entra in contatto con lo storicismo grazie all'opera di Sprengel che influenza ampiamente il pensiero di Francesco Puccinotti, storico neuropsichiatra e criminologo, al quale si deve il trattato di medicina legale forse più diffuso del secondo quarto del secolo scorso, come rivelano le ripetute edizioni.

Puccinotti avverte fortemente il mutare dei tempi. La navigazione a vapore e l'illuminazione gassosa hanno infatti accelerato la trasformazione della società tradizionale mostrando improvvisamente i tratti dolenti della fase paleotecnica della rivoluzione industriale: dallo sfruttamento infantile di giovani asserviti alle macchine al degrado del lavoro operaio, mentre "gli operai devono sapere, che in unione con gli agricoltori sono gli strumenti della forza e della fortuna dello Stato" (82).

In questo drammatico scenario storico, accanto alla tradizionale valorizzazione della medicina clinica, s'impone a gran voce l'esigenza di una radicale rifondazione della medicina civile, che deve essere particolarmente attenta all'igiene, all'economia politica e naturalmente al rapporto con il diritto senza trascurare quanto interessa i problemi peculiari alla sanità nazionale.

Si tratta, insomma, di organizzare il sapere in forme diverse da quelle del passato ricorrendo anche a nuovi strumenti conoscitivi come la statistica. Per Puccinotti, del resto, i continui rivolgimenti della medicina ne scandiscono ed orientano la stessa tensione scientifica; la vera filosofia della scienza viene, infatti, identificata con la filosofia della storia (83). Puccinotti, che ha recepito la lezione idealistica, guarda con simpatia a Vico, il teorico moderno della filosofia della storia, e nel contempo prende le distanze dal sensismo, soprattutto da quello di Condillac.

Affiora così un progetto antropologico senza dubbio diverso da quello proposto dalla medicina illuministica. Puccinotti infatti lamenta: "Finora i fisiologhi non hanno contemplato che da un lato la sensazione: e questa hanno considerata passiva dietro i precetti di Condillac; e come tale considerandola, non potevano certo vedere in essa un processo spontaneo idiopatico nel suo stato morboso". E più oltre: "come l'organo pensante ha una subiettività cioè una attitudine ad operare da sé sull'oggetto della sensazione, così nello stato patologico l'alterato processo nerveo di sensazione è per noi una alterazione idiopatica, ossia clinico-organica nella subiettività tanto dell'organo pensante nelle alienazioni mentali, quanto degli altri principali centri del sistema nervoso..." (84). In breve, Puccinotti propone un'antropologia neurocentrica sostanziata dalla soggettività del pensiero.

Con Puccinotti alla psicologia compete un nuovo decoro mentre alla psicologia forense, in particolare, viene attribuito il compito di analizzare "le giuridiche conseguenze" delle malattie mentali che "in senso legale" sono intese come l'espressione di "una impotenza dell'intelletto, o di far conoscere quanto basta la propria volontà, o di calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Tali malattie considerate però psicologicamente debbono essere analizzate a seconda del fonte intellettivo donde hanno origine, a seconda del principale vizioso legame fra facoltà e facoltà che presentano, ed a seconda della forma psicologica manifesta che assumono". "Le più notevoli alienazioni mentali, cominciando dalla imbecillità sino alla mania furibonda, alcuni stati passeggeri dell'anima, come l'ubriachezza, il delirio febbrile, lo stato intermedio tra il sonno e la veglia, certe tendenze irresistibili, il sonnambulismo, e lo stato della mente dei sordi-muti sono i principali oggetti" di cui, secondo Puccinotti, deve occuparsi la psicologia forense. Non si tratta di capitoli nuovi per la medicina legale; nuovo, piuttosto, è il rigore psicopatologico al fine di valutare correttamente "la misura della influenza che un disordine passeggero e permanente dello spirito può aver avuto in una azione delittuosa" (85).

E' il mondo della mania che, ad avviso di Puccinotti, è più facilmente compromesso con il delitto quando "col tumultuario disordine di pensieri e di affetti in che è travolto il maniaco, sono incompatibili le nozioni del giusto e dell'ingiusto. Niuna idea di relazione, di pudore, di probità saprebbe distornarlo dalle sue involontarie e furiose impulsioni. Egli perde o in tutto o in parte la coscienza esatta di sé stesso: egli è il macigno staccato dalla rupe, che abbandonato alla sua forza di gravità deve precipitare con fragore orribile nella sottoposta valle: è posto in uno stato involontario di disattenzione e d'irriflessione, che lo rende affatto incapace di farsi l'idea necessaria della criminalità d'un'azione, e di ritrarsene. Cessa dunque per lui dianzi alla legge ogni maniera di colpa".

Il quadro psicopatologico della mania può essere complicato dalla stupidità ed in questo caso "uno ai segni caratteristici è l'inverecondia che manifesta il malato per soddisfare i suoi appetiti sessuali, e lo sbalordimento, e la gioia bestiale in che resta dopo gli accessi". Paradossalmente tragica, è poi la situazione che si configura quando "per esaltamento cerebrale" il disturbo "può dar luogo a connessioni di idee accidentalmente rivolte ad oggetti di lodevole immaginazione" ed accompagnarsi ad "uno sviluppo notevole d'intelligenza", ma pure in questi casi "uno ai segni caratteristici è l'animalesca esultanza che si sviluppa dopo l'accesso di furore. E dopo commessa una azione criminosa, il negare, lo scusarsi, o il sostenerla come giustissima a seconda dell'idea predominante nel delirio, che accompagnò il parossismo".

In margine alla complessità psicopatologica del rapporto fra mania e crimine, Puccinotti non elude il classico tema della simulazione quando il disturbo deve "servir di maschera al delitto, onde ottenere la commutazione d'una pena infamante in una temporanea reclusione entro una casa di folli". Si tratta però di un inganno facile da scoprire perché ad un osservatore esperto basta ben poco per cogliere la frode che "non potrebbe emulare giammai tutti que' peculiari cangiamenti che hanno luogo nella sensibilità fisica e morale, nel carattere, nelle abitudini d'un vero alienato" (86). Un vissuto complesso quello della mania, ma sostanzialmente inimitabile nonostante la grossolana esplosività del quadro clinico.

Fra i vari motivi che compromettono la psicopatologia con la criminalità, Puccinotti riserva un'attenzione privilegiata, oltre che al capitolo della mania, anche alla questione, allora attualissima, delle tendenze irresistibili, quando è presente "il sentimento interno di una forza insolita che spinge ad una determinata azione, contro la qual forza l'uomo sentesi del pari incapace di resistere" (87). In questi casi il conflitto fra pulsione e ragione è accompagnato da profonda inquietudine e nell'insieme si configura una situazione psicologica che, in caso di passaggio all'atto, esclude l'imputabilità.

Puccinotti, in sintesi, è uno storicista che, pur attento ai problemi di una società in rapida evoluzione, insiste sulla centralità del pensiero soggettivo valorizzando l'approccio psicopatologico per cogliere le motivazioni vissute che sottendono il crimine. Studioso dalla forte sensibilità filosofica, si rivela più sensibile al fondamento teoretico della psicopatologia criminale piuttosto che al confronto empirico fra medicina mentale e pagina del codice. In Puccinotti, tutto sommato, all'interesse per le scienze della natura è subentrato l'interesse per le scienze dello spirito.

Al fascino dell'illuminismo è, infatti, progressivamente subentrata l'influenza della filosofia idealistica che coinvolge non pochi clinici sia pure fra adesioni entusiaste e cauti ripensamenti come si verifica in Salvatore Tommasi.

Tommasi, un clinico con marcati interessi psichiatrici e criminologici, passa infatti da esplicite posizioni idealistiche ad una dichiarata professione di naturalismo anche se, come avverte Gentile (88), dall'idealismo, nonostante l'abiura, non si è mai del tutto staccato, attivando vivaci polemiche con medici e filosofi, da De Crecchio (89) a Bertrando Spaventa (90). Certo imbevuto di idealismo è il giovane clinico quando scrive che il fisiologo per accostarsi correttamente all'organismo deve appropriarsi del concetto di "totalità" che comprende "la pluralità e l'unità" in quanto "l'organismo è appunto la coincidenza di molti particolari in una sola individualità. Egli è pertanto l'accordo di due termini opposti: .....è la vera concretezza, perché esprime la dialettica degli opposti" (91).

Altrettanto evidente, nonostante le dichiarazioni materialistiche, è la dipendenza dall'idealismo, pur sofferta, in tema di psicologia e psichiatria. Gli è che per Tommasi "l'educazione morale e scientifica si materializza nel nostro cervello" in modo che "le impressioni fisiche e morali" avvertite fin dall'infanzia e penetrante nel cervello "prendono posto e stabiliscono le loro relazioni": la coscienza e il sentimento della personalità non sarebbero, in altre parole, che l'espressione della ricchezza e della perfezione dell'organismo psichico che si costruisce attraverso l'educazione. In questa prospettiva non si può pertanto ritenere - argomenta Tommasi - che le cause morali capaci di indurre le psicopatie debbano inevitabilmente provocare qualche alterazione clinica o anatomica dell'encefalo. Del resto se le psicopatie fossero semplici malattie somatiche risponderebbero direttamente ai trattamenti farmacologici, là dove si devono invece prendere in considerazione "la qualità dell'ambiente morale e gli espedienti educativi". La pazzia, tragico retaggio della conflittuale civiltà moderna, appare, del resto, destinata ad un inesorabile incremento statistico "ove una solida istruzione e una savia educazione non ci mettano riparo". Si tratta, insomma, di "una gran questione sociale". In altre parole, secondo Tommasi, "il processo delle psicopatie" va colto "nel disturbo profondo che può verificarsi nell'organismo dello spirito" tanto che "la patologia delle malattie mentali l'è una patologia che non ha a far nulla con quella delle malattie corporee" (92).

Questa lettura spiritualista, pedagogica e sociologica degli abnormi psichici orienta anche l'approccio alla criminologia dove Tommasi affronta la cruciale questione dell'impulso irresistibile: "uno stato passionato dell'animo, nel quale la volontà, la riflessione e la ragione vengono meno, in quanto esso si rende a loro superiore, e spinge fatalmente al delitto la persona che n'è invasa... E' uno stato di convulsione ideale, è l'epilessia della mente". L'impulso irresistibile è ben diagnosticabile in quanto non vi è scopo, il gentilizio è tarato, all'atto segue il rimorso. Tommasi tuttavia, pur riconoscendo che il vissuto psicopatologico può influenzare il comportamento, intende prendere le distanze da quanti considerano i delitti "una fatale necessità" e, in nome della "sicurezza della società", si scaglia contro "la mitezza delle pene e l'abolizione di fatto della pena di morte". Tommasi vorrebbe "far tacere gli avvocati che oggi invocano la forza irresistibile, e domani invocheranno la mancanza di libero arbitrio" (93). In effetti, la questione del libero arbitrio nella criminologia ottocentesca non è un orpello teoretico ma rivela quanto possa essere complesso il dialogo fra medicina e codice come avverte lo stesso Tommasi quando auspica una formazione specialistica per i medici che, in veste di periti, dovranno misurarsi con la legge (94).

Moleschott, in una sorta di dibattito epistolare pubblicato sul "Morgagni", si sforza di rassicurare Tommasi e di mediarne il radicalismo (95). Moleschott ricorda che "l'uomo è il prodotto della natura e della cultura" e, pur riconoscendo che "la società sta al di sopra dell'individuo", guarda al lavoro come strumento di riscatto per "armonizzare la difesa sociale col riguardo che merita il delinquente, il quale è spinto al male per i difetti della propria organizzazione non solo, ma pure per colpe inerenti alle condizioni della società medesima" (96).

Lungo l'itinerario ideologico della criminologia italiana, che nel primo �800 è scandito dai contributi di Puccinotti e di Tommasi, l'idealismo si impone, al di là di ogni apparente riserva, con evidenza sempre più esplicita mentre viene accantonata l'ipotesi, naturalistica, delle alterazioni somatiche postulate dall'illuminismo. Con l'idealismo, del resto, la natura diventa, non di rado, una sorta di pittoresca metafora come in Puccinotti quando assimila la forza del delitto consumato nell'accesso maniacale a quella di un macigno che si stacca da una rupe per precipitare ineluttabilmente. Con Tommasi la stessa metafora naturalistica appare ulteriormente sbiadita per lasciare il posto alla colpa, all'influenza della società o alla carenza pedagogica che orientano l' "organismo dello spirito". Ma proprio con la cortese polemica, più vicina allo scambio epistolare che al vero dibattito, fra Tommasi e Moleschott compaiono all'orizzonte nuovi e differenti punti di vista.

 

L'antropologia criminale

Nlel'età dello specialismo medico, l'antropologia criminale prende corpo dalla sovrapposizione di alcuni capitoli comuni alla psichiatria e alla medicina legale che, fin dall'ultimo �700, hanno la dignità di vere branche specialistiche. Il cliché del criminale ottocentesco nasce invece dal confluire complesso di molteplici motivi ideologici e scientifici. In effetti, la filosofia dell'illuminismo, quella dell'idealismo e del positivismo propongono, lungo il passare del secolo, mutevoli e rinnovate categorie per interpretare il fenomeno sempre più dilagante della criminalità. La trasformazione rapida della società nella prima fase dell'industrialismo nascente, con l'urbanesimo e con l'organizzazione alienante del lavoro che lo caratterizza, fornisce poi senza risparmio il materiale umano che diventa oggetto di studio. La medicina infine, per adeguarsi all'esigenza di conoscere forme di disagio umano e sociale che sembrano destinate all'incremento continuo, muove con incerta problematicità fra neuroanatomia e biologia, fra psicologia e sociologia. Dall'intrecciato confluire di suggestioni ideologiche e di indubbi dati oggettivi nasce, appunto, l'antropologia criminale che ha per inventore, se così si può dire, Cesare Lombroso.

Educato fra Verona e Vienna, dopo una fase giovanile di compromissione con lo storicismo, Lombroso aderisce al positivismo evoluzionista. I più comuni strumenti conoscitivi di cui si serve sono la storia, la statistica sociale, la misurazione anatomica. Alla fine ne esce un sapere che, fondato sullo sguardo, tende all'astrazione del visibile con una emblematica tipizzazione dell'uomo criminale.

Negli anni di formazione giovanile ha indubbio rilievo il rapporto con Giulio Sandri e con Paolo Marzolo. Sandri (97) è un veterinario dai vasti interessi umanistici e non un semplice botanico come scrivono i biografi di Lombroso che, giovanetto, è fra gli scolari di questo singolare protagonista della cultura veronese del secolo scorso. Ben più forte è, comunque, l'influenza esercitata da Paolo Marzolo (98) che, accanto a generiche suggestioni culturali, trasmette a Lombroso quell'interesse linguistico che lo accompagnerà lungo tutta la vita nello studio della comunicazione e del gergo del mondo criminale.

Il giovane Lombroso, in effetti, si misura assai precocemente sia con la linguistica che con ricerche di storia sociale e con patografie di illustri personaggi storici che anticipano i metodi e i contenuti delle opere più mature. Verosimilmente influenzato dalla pagina di Puccinotti, il giovane Lombroso cita Vico e conosce psichiatri idealisti come Damerow ed Ideler (99) ma ben presto con la traduzione de La circolazione della vita (100) di Moleschott entra in contatto con il pensiero di Feuerbach che, ispiratore di Moleschott, è il capo scuola della sinistra hegeliana. In effetti, il determinismo e l'entificazione del pensiero propri della sinistra hegeliana sono concetti condivisi anche da Lombroso che tuttavia aderisce ben presto, e con più esplicita sintonia, all'evoluzionismo di Darwin. Il pensiero lombrosiano va pertanto rapidamente chiarendosi in senso evoluzionistico. Nel pensiero dell'antropologo torinese, in altre parole, storia ed evoluzione si fondono sempre più intimamente secondo una direttiva di sviluppo che muove dalle scimmie, al selvaggio, all'uomo civilizzato conoscendo tuttavia le possibili cadute storiche e le regressioni biologiche della criminalità e della malattia mentale. In questa prospettiva le ricerche storiche sono al servizio diretto ed immediato della criminologia e della psichiatria, mentre piatte argomentazioni di ordine biologico-evoluzionistico permettono a Lombroso l'interpretazione non sempre cauta di eventi storici e sociali complessi. Così, per studiare l'uomo delinquente, guarda alla fisionomia di noti personaggi del passato come Messalina, Caligola, Nerone. Nel contempo, descrivendo costumi e consuetudini di altre epoche, teorizza il relativismo storico dei principi etici per cui, ad esempio, il "delitto endemico" dell'età barbara non è da ritenere, a suo avviso, "antropologicamente né giuridicamente tale, come non lo è quello degli "animali" (101). L'evoluzionismo permette, insomma, di interpretare storia e società all'insegna dell'accedere biologico.

La sociologia lombrosiana, ispirata non solo a Darwin ma anche a Comte ad Adam Smith e soprattutto a Spencer, trova nella statistica un essenziale strumento conoscitivo. Lungo il secolo scorso, del resto, le ricerche statistiche, non solo in sociologia ma anche in medicina, sono ormai condotte con grande profitto: basti pensare alle indagini epidemiologiche veronesi di Rigoni Stern e a quelle antropometriche di Achille De Giovanni. In Lombroso, in effetti, antropometria e sociologia convergono proprio all'insegna della statistica. Essenziale è infatti l'intento di cogliere grazie alla ricerca statistica il substrato morfologico che sottende quella particolare trasgressione dell'ordinamento sociale che configura un comportamento criminale. La ricerca statistica, opportunamente condotta su gruppi omogenei, permette infatti, secondo Lombroso, di dimostrare l' "esistenza tanto disputata del tipo criminale", tipicamente connotato da un cranio che, per quanto concerne gli assassini, "presenta il massimo dei caratteri criminali", e cioè: "fronte stretta, seni frontali, orbite, mandibola e zigomi enormi, aspetto pleteiforme della docciatura nasale, asimmetria della faccia, del naso, delle orbite, appendice lemuriana delle mandibole; obliquità dell'orbita" (102).

L'interesse enfatico di Lombroso per ogni tratto morfologico abnorme o francamente patologico va considerato tenendo conto del clima particolare che caratterizza la medicina nel secondo �800 dominata dall'anatomia patologica e dal prestigio di ricercatori come Rokitansky, docente a Vienna proprio quando è presente Lombroso, e come Virchow. L'anatomia normale non è più la disciplina forte per eccellenza come nel �500 ma lo è invece l'anatomia patologica e il corpo non è più il corpo animato di Vesalio ma è inteso piuttosto in modo frammentario, quasi un insieme ai solidi in perfusione. La scientificità dei tempi, con il passaggio dalla filosofia della natura all'era delle "exakten Naturwissenschaften" (103), impone poi la misurazione scrupolosa di ciò che è visibile quale garanzia per una corretta ricerca. Lo stesso uomo sano, in questo contesto, appare diligentemente modellato sul patologico. Non deve pertanto stupire che l'antropologia lombrosiana si configuri come antropologia criminale e risulti fondata su dati anatomici abnormi statisticamente elaborati.

Se il dato morfologico abnorme, ad intonazione anatomo-patologica, costituisce il fatto oggettivo che si offre allo sguardo di Lombroso, l'attribuzione di significato al dato stesso avviene poi in chiave evoluzionistica. Pionieristiche al proposito le ricerche su "l'uomo bianco e l'uomo di colore" e sulla "fossetta cerebellare mediana". Su Lombroso, infatti, esercita grande suggestione il reperimento di una "fossetta cerebellare mediana nel cranio di un delinquente", certo Villella "figlio di ladri, ozioso e ladro egli stesso"; il caso viene pubblicato nel 1871 nei rendiconti dell'Istituto Lombardo e poco dopo anche nella monografia su L'uomo bianco e l'uomo di colore, un saggio antropologico che anticipa sotto molti profili il pensiero della maturità. Lombroso espone in questa memoria le differenze e le affinità fra le varie razze e avvicina l'uomo di colore alle scimmie; secondo Lombroso "l'uomo melanico è una trasformazione d'un animale pitecoide", mentre nel contempo "le regressioni pitecoidi provano l'affinità dell'uomo con gli altri animali". Ed è a questo livello dove si inserisce il commento al caso Villella che, appunto, era fornito di una fossetta cerebellare che, secondo Lombroso, "serviva al ricetto di un lobo sopranumerario del cervelletto". Il brigante Villella, insomma, era da intendersi come portatore di "un vero cervelletto mediano, come si nota appena negli ultimi lemurini" (104): un'anomalia di tanto rilievo da escludere ogni responsabilità giuridica. Per Lombroso si deve, infatti, "concludere che un uomo, costruito diversamente dagli altri nell'organo del pensiero, doveva diversamente dagli altri essere responsabile delle sue azioni" (105).

Verga dissente immediatamente da Lombroso ritenendolo vittima delle suggestioni frenologiche (106), ma Lombroso ritorna sulla questione e, forte della statistica, in uno studio su 181 alienati compiuto con Bergonzoli ribadisce "essere senza alcun dubbio la fossetta occipitale mediana assai più frequente negli alienati... che nei delinquenti ed in tutti costoro assai più che negli uomini sani" (107). L'indagine del rapporto fra delinquenza, patologia mentale ed alterazioni somatiche è ormai chiaramente al centro della ricerca lombrosiana che, muovendo da evidenti premesse frenologiche, sfocia nella negazione del libero arbitrio degli alienati e dei delinquenti.

Del resto la questione del libero arbitrio, dopo la pubblicazione de L'origine della specie, interessa ampiamente l'opinione pubblica e non solo i criminologi in quanto il tema darwiniano del rapporto fra l'uomo e la scimmia, da cui l'uomo deriverebbe, solleva fatalmente il dibattito sul rapporto fra libertà umana e determinismo animale. Dopo la presentazione del darwinismo in Italia, ad opera di De Filippi (108) ma anche ad opera di Lombroso, è celebre la polemica fra Herzen, che invita a minimizzare "il cosiddetto libero arbitrio umano", e Tommaseo, acceso e polemico, per il quale "la negazione del libero arbitrio è conseguenza legittima della scimmiologia" (109): una prospettiva che renderebbe vana ogni presunzione di libertà e di autonomia per la stessa ricerca scientifica.

Lombroso, ad ogni modo, pur consapevole che l'origine pitecoide dell'uomo è un'ipotesi, si dichiara evoluzionista: ritiene che l'evoluzione delle razze sia darwinianamente regolata dalla "lotta per l'esistenza", dalle influenze ambientali e dalle trasformazioni geologiche e climatiche e il bianco, che ha raggiunto "la più perfetta simmetria nelle forme del corpo", sarebbe il punto d'arrivo della selezione evolutiva (110). Attraverso lo studio comparato di differenti comportamenti, Lombroso nota poi come certe azioni che l'uomo civilizzato giudica delinquenziali si possono cogliere nei selvaggi e negli animali per cui il delitto è interpretabile come un "fenomeno naturale". L'esame antropologico dei criminali permette, del resto, di cogliere alcuni tratti abnormi con significato atavico in quanto rimandano a forme proprie di antenati dell'uomo, lontani nella scala evolutiva. In altre parole, considerando come i tratti atavici in parola si possono associare ai comportamenti aggressivi tipici degli animali e dei selvaggi, secondo Lombroso è legittimo ritenere che le tendenze trasgressive dei criminali abbiano carattere naturale in quanto sono necessariamente dipendenti da una organizzazione inferiore, sia fisica che psichica, analoga a quella dei primitivi, dei selvaggi, degli stessi animali. Lombroso ha così descritto e materializzato il tipico delinquente nato.

A Lombroso sono stati rimproverati l'errore frenologico che immagina il cranio modellato sull'encefalo e l'uso affrettato della statistica, ma soprattutto il rigido e riduttivo determinismo. In realtà, come notano i commentatori delle varie edizioni de L'uomo delinquente, l'orizzonte lombrosiano di indagine si allarga progressivamente. Nell'ultima edizione del celebre trattato, mentre un ampio spazio è riservato all'epilessia e alle influenze dell'ambiente sociale, sono ben descritti, accanto al delinquente-nato atavicamente determinato, il pazzo morale, il delinquente epilettico, il delinquente d'impeto o passione, il delinquente pazzo e il delinquente d'occasione.

Il pazzo morale, più vicino al selvaggio che all'alienato, non si discosta molto, in verità, dal delinquente-nato. Dominato da una forza irresistibile, da un'affettività pervertita e senza freni, appare disadatto ad ogni possibile convivenza sociale. Il profilo psicologico, caratterizzato dall'irritabilità morbosa, rimanda, d'altra parte, ai disturbi epilettoidi (111).

L'epilessia, secondo Lombroso, non va ridotta all'accesso o alle assenze ma comprende piuttosto quel vasto insieme di caratteri che configura il tipo epilettico che riunisce ed esagera "tutti i tratti del pazzo morale e del delinquente nato", soprattutto per quanto concerne il profilo psicologico con i forti automatismi distruttivi e con le frequenti amnesie che lo caratterizzano. Del resto gli accessi di furore epilettico, gli equivalenti psichici dell'epilessia, riassumono, concentrato ed esagerato, quanto l'epilettico fa normalmente: sono caricature del delitto. Nel capitolo in parola Lombroso descrive il celebre caso Misdea; un soldato, oriundo di Girifalco, che in un impulso uccide 7 commilitoni e ne ferisce 13 dopo un banale diverbio fra nord e sud, fra "Alta Italia" e "Terre arsiccie". L'epilessia psichica, insomma, può manifestarsi con atti criminosi ma soprattutto in chi, ricco di caratteri degenerativi, è congenitamente predisposto. "L'impulso criminoso" altro non è che "una scarica dei centri psichici più elevati" (112).

Dai tipi precedenti si distanzia il delinquente d'impeto, dominato dalla forza irresistibile delle passioni. In questi soggetti mancano quelle stigmate degenerative che si leggono nel cranio e nella fisionomia del delinquente nato; si nota invece una tradizione di vita onesta ed una proporzione comprensibile fra causa scatenante e delitto che è sempre contro le persone piuttosto che contro la proprietà. I delinquenti d'impeto, per l'impulsività e l'amnesia, ricordano più gli epilettici che i rei comuni. In questo capitolo Lombroso comprende gli autori dei delitti politici, sollecitati dal fanatismo di riforma sociale e economica (113).

Numerosi, secondo Lombroso, sono poi i delinquenti affetti da disturbi mentali per quanto scarsamente evidenziati dalle statistiche per il timore che il disturbo possa essere addotto come facile motivo per scusare il reato ed escludere la pena. D'altra parte, la complessità delle diagnosi psichiatriche impedisce di elaborare un chiaro tipo di delinquente pazzo. In ogni modo, la mania, il raptus melancolico, l'alcoolismo, l'isterismo sono non di rado associati al delitto. Ma nel capitolo sul rapporto fra criminalità ed alienazione, accanto alle diagnosi classiche, Lombroso aggiunge una nuova categoria psicopatologica, quella dei delinquenti mattoidi, "frequenti nelle città dove abbondano i pazzi", come ad esempio Verona (114); presentano modeste anomalie degenerative ma si rivelano instabili nel lavoro, grafomani, litigiosi, contraddittorii, con egoismo mascherato da altruismo.

Concludono la serie i delinquenti d'occasione, ammessi da tanti autori e dalla saggezza popolare di sempre; Lombroso tuttavia invita alla cautela perché non di rado anche in casi ritenuti banalmente occasionali, se attentamente osservati, è possibile individuare qualche tratto degenerativo (115).

Con il passaggio dalla delinquenza atavica al reato d'occasione attraverso le forme intermedie consumate dal delinquente epilettico ed alienato, l'interesse lombrosiano si sposta dalla valorizzazione delle cogenze biologiche all'attenzione per le molteplici occasioni sociali che spingono alla trasgressione, senza trascurare la possibile influenza della patologia epilettica, tipicamente neurologica, e di quella psicopatologica che caratterizza le malattie mentali. L'interesse per il mondo sociale, in ogni caso, pone Lombroso innanzi alla complessità delle nuove forme della criminalità organizzata e di quella politica in particolare. La questione politica è, del resto, affrontata in molteplici monografie e saggi fra i quali: Due Tribuni, Pazzi ed anomali, Gli anarchici, etc.

In Due Tribuni propone un confronto fra Cola di Rienzo, ispirato dallo Spirito Santo e guidato dalla voce di Dio, e certo Coccapieller che, mattoide, si fa notare nella Roma dell'ultimo �800: repubblicano ma in rapporto con il re, grafomane, imbevuto di contraddizioni. L'analisi della biografia di simili personaggi invita Lombroso a tentare una nuova "teoria psichiatrico-zoologica delle rivoluzioni": gli è che gli uomini, nota Lombroso, odiano le innovazioni perché obbediscono alla legge d'inerzia ma gli alienati e i mattoidi, le cui tendenze ed il cui organismo sono diversi, esprimono forme d'originalità che, opponendosi all'inerzia, anticipano e preparano quei rivolgimenti che rendono possibile il progresso (116).

Sul ruolo degli alienati e dei mattoidi nell'ordine pubblico Lombroso ritorna in Pazzi ed anormali dove espone, con larga ampiezza, il caso di Lazzaretti, quasi una versione contemporanea dell'avventura di frate Dolcino. Lazzaretti, dopo visioni mistiche, da bestemmiatore diventa evangelico e riesce a farsi ricevere da Pio IX che, peraltro, sembra avergli semplicemente consigliata qualche buona doccia. Lazzaretti, tuttavia, digiuna, predica, raccoglie elemosine, organizza processioni, pubblica scritti apocalittici; riesce così a raccogliere un ampio gruppo di seguaci ai quali raccomanda astinenza e castità, permettendo il rapporto sessuale ai coniugati dopo aver pregato nudi per un paio d'ore. Nella bandiera della setta è scritto: "la repubblica è il regno di Dio". Nell'agosto del 1878, convinto di dover affrontare la battaglia della gloria, accompagnato dai fedeli scende da Montelabro, sede del gruppo, e viene abbattuto dagli agenti della pubblica sicurezza: si temeva che volesse rovesciare il governo e promuovere la rivoluzione. Ma Lombroso non ha dubbi: si trattava di un malato di mente mal giudicato dai tecnici del tribunale di Rieti che, nel 1874 in occasione di una richiesta peritale, lo avevano ritenuto sano (117).

Ben più coinvolgenti sul piano concreto sono le questioni affrontate nella memoria su Gli anarchici. Lombroso consapevole di vivere in un momento difficile richiama l'attenzione sulle asperità economiche del particolare momento storico tanto da dover dubitare nella linearità del progresso che non è in ascesa continua ma interrotto da continue cadute. Le disarmonie economiche, la rapacità industriale e il privilegio politico spiegano ampiamente la protesta sociale. Ma a questo proposito Lombroso distingue fra rivoluzione e ribellione. "La rivoluzione è l'espressione storica dell'evoluzione, calma ma estesa e sicura"; è ispirata per lo più da uomini geniali o passionali e si realizza nei popoli più civili. Simile alla crisi di crescita degli individui, la rivoluzione non è un fenomeno patologico "ma una fase necessaria dello sviluppo della specie". Le sedizioni sono invece opera di pochi; spesso sollecitate da motivazioni personali queste ribellioni hanno per protagonisti delinquenti e pazzi (118). E gli anarchici, salvo qualche eccezione, sono per lo più, insiste Lombroso, pazzi o criminali. Validi rimedi contro le moderne forme di disordine sociale sono l'educazione tecnica adeguata ai tempi, la promozione del lavoro, la riduzione delle forme di concentrazione economica e di potere.

Mentre per i criminali alienati viene proposto il manicomio criminale al fine di conciliare "l'umanità colla sicurezza sociale" (119), per prevenire quelle forme di trasgressione che nascono dal disagio sociale viene invece valorizzato il lavoro, alla maniera di Don Bosco. Del resto anche per le più consolidate forme di associazione al mal fare - brigantaggio, mafia e camorra - Lombroso sa bene quale valore determinante abbia quella cultura che rifiuta il lavoro e sa altrettanto bene come il carcere, proprio per questi soggetti, possa diventare una scuola di criminalità.

In sintesi, nulla sembra sfuggire allo sguardo di Lombroso che abbraccia l'anatomia, la neurofisiologia, la clinica, la psicologia, la società, i prodotti stessi dei soggetti osservati, elaborando vaste statistiche riassuntive e raccogliendo i più diversi documenti di interesse criminologico che risultano pubblicati sia nell'Atlante, edito in appendice a L'uomo delinquente, che nei Palinsesti del carcere (120).

Su Lombroso, ancor oggi oggetto di appassionato dibattito, non è facile esprimere una cauta e distaccata valutazione. E' merito di Lombroso l'impegno nel prendere le distanze dalla così detta scuola classica del diritto di Francesco Carrara che, ispirato ad una concezione astratta del libero arbitrio, intende la pena come una forma di reintegrazione del diritto violato (121). Con Lombroso e la sua scuola, nota Portigliatti Barbos, il problema della criminalità viene invece affrontato concretamente, in prospettiva naturalistica, spostando l'attenzione dall'astrazione del crimine allo studio scientifico della personalità del criminale (122).

Sul piano personale a Lombroso va riconosciuta la capacità di autocritica e la disponibilità ad allargare l'orizzonte delle proprie osservazioni. Si aggiunga che Lombroso si è impegnato, lungo tutta la vita, non solo come ricercatore ma anche come pubblicista e come militante nell'ala positivista, se così si può dire, del movimento socialista.

D'altra parte la radicalità della particolare posizione ideologica in tema di libero arbitrio e l'indubbio riduzionismo biologico, che portano alla soluzione pessimistica del manicomio criminale, risultano oggi insoddisfacenti; anche a questo proposito non va però dimenticato che se con Lombroso acquista enfasi eccessiva il problema della difesa sociale e la sua pessimistica soluzione, proprio con Lombroso - si cita ancora Portigliatti Barbos - risulta "modificato il concetto di pena come punizione, sostituendovi la misura terapeutica ed introducendo la intermediazione dei sostitutivi penali".

E' in ogni caso scorretto, come ancor oggi accade, voler leggere Lombroso staccandolo dalla cultura del suo tempo ma proprio questo approccio anacronistico è forse da ritenere un omaggio inconsapevole all'impegno civile di Lombroso, non di certo ai suoi modelli scientifici che sono palesemente caduchi come deve essere ogni modello scientifico. I contemporanei, d'altra parte, amavano scovare precursori fra gli studiosi di molti secoli addietro ma anche questo approccio era poco corretto in quanto il pensiero degli autori citati è per lo più fondato su differenti criteri dottrinali e pertanto quelle che sembravano anticipazioni altro non sono che banali analogie. Se un anticipatore vi fu questo è piuttosto Catteneo (123) che, ravvisando nella medicina ottocentesca la più matura forma di sapere scientifico per affrontare il tema della criminalità, incoraggia sul piano metodologico la pratica di ricerca lombrosiana.

Lombroso comunque, sia pure fra polemiche e dissensi, ha richiamato l'attenzione non solo dei contemporanei, ma anche di molti fra i principali studiosi del �900.

Nel rapporto con i contemporanei va segnalata la vivace polemica con gli autori francesi che ruotano intorno alla scuola di Topinard (124). Si contesta che Lombroso sia un antropologo e si rifiuta la proposta del "tipo" criminale che pare costruito mediante la libera sommatoria dei tratti più diversi, quasi un miraggio. Ma nella stessa Francia a Lombroso non manca qualche fortuna in ambito letterario nella sintonia con Zola. In Italia il punto su Lombroso viene fatto con un volume giubilare del 1906 che raccoglie molteplici contributi di noti studiosi legati alla sua scuola, alla scuola positiva (125). Ed anche in Italia, come in Francia, il pensiero lombrosiano influenza la letteratura: si pensi a Franti, il ragazzaccio incorreggibile del Cuore. Un'attenta biografia della figlia Gina, edita nel 1915 (126), tenta infine di riassumere la formazione ed i progressivi sviluppi del pensiero lombrosiano.

Ma il dibattito resta a lungo aperto, anche dopo la morte, con Agostino Gemelli, Zerboglio, Gentile, Gramsci. Per Gemelli il "tipo" criminale non esiste, né la delinquenza è la conseguenza fatale della degenerazione; l'uomo, infatti, è libero anche se molteplici circostanze - spirituali, somatiche e sociali - possono attenuare la pienezza del libero arbitrio come si verifica in alcuni disturbi psichici (127). Pure Zerboglio, pur riconoscendo i meriti storici di Lombroso, deve prendere atto che a Lombroso sfugge che il delitto è, innanzi tutto, un fatto sociale (128). Anche Gentile distingue fra meriti empirici ed incongruenza dottrinale; per Lombroso, infatti, il delinquente è ridotto a corpo che come tale non può delinquere, là dove il mondo dell'uomo, che è spirito e libertà, è liberamente orientato dal riconoscimento dei valori (129). Lo stesso Gramsci esprime indubbie perplessità in merito alla scuola lombrosiana che ritiene ossessionata dalla criminalità e dominata da concezioni moralistiche piuttosto astratte (130).

Pure nel secondo dopoguerra Lombroso continua ad essere oggetto di studi e ricerche, sia in Italia che all'estero. Wolfgang (131), ritornando su apprezzamenti e riserve già espressi in passato, sottolinea l'onestà intellettuale di Lombroso pur richiamando l'attenzione sul limite metodologico delle sue ricerche condotte senza verifica su gruppi di controllo. A J.L. Peset e M. Peset (132) si deve una monumentale sintesi sulla scuola positiva nel suo insieme. I volumi di Villa, Bulferetti, Baima Bollone (133) ma anche brevi saggi, come quello di Balestrieri (134) o di Colorio e Concari (135), testimoniano la continuità degli interessi. Lombroso tuttavia, per quanto studiato soprattutto da medici e da filosofi, non fu né un filosofo, né uno scienziato, fu piuttosto un "savio" come scrisse Ferrero (136); oggi si direbbe un ideologo dall'acceso impegno sociale.

 

Accanto a Lombroso

Cno le teorie di Lombroso, all'insegna del consenso o del dissenso, si confrontano un po' tutti gli studiosi che si occupano di criminologia ma per alcuni di questi il rapporto con Lombroso è particolarmente forte tanto che si usa parlare di scuola positiva. Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, un giurista e un magistrato, sono fra le figure più rappresentative del gruppo; Garofalo, è più attento al momento psicologico che sottende la criminalità, Ferri guarda invece alla dimensione sociale del delitto.

Garofalo è certamente allineato su posizioni lombrosiane; il suo più noto saggio ha però per titolo Criminologia ed elude pertanto quel rimando esplicito e dichiarato all'antropologia che costituisce uno dei motivi più contestati al capo scuola soprattutto da parte della cultura francofona. Anche per Garofalo, ad ogni modo, il delitto non è una mera convenzione definita dal codice legale, come vuole la scuola classica, ma è piuttosto un fatto naturale il cui concetto è ben presente nella saggezza popolare. Scrive Garofalo: "Il delitto sociale o naturale è una lesione di quella parte del senso morale che consiste nei sentimenti altruistici fondamentali (pietà e probità) secondo la misura media in cui trovansi nelle razze umane superiori, la quale misura è necessaria per l'adattamento dell'individuo nella società". L'allusione alle razze superiori viene ritenuta indispensabile per non creare confusione con quanto si verifica nei selvaggi dove mancano quegli "istinti altruistici" che sono invece considerati fondamentali nelle società più evolute.

In Garofalo, mentre natura e società si sovrappongono e convergono, il concetto di istinto assume coloriture etiche, di evidente matrice frenologica, che vanno ben oltre la generica spinta biologica che lo caratterizza; la statistica non è poi un semplice strumento conoscitivo, ma si identifica piuttosto con la forma stessa del conoscere.

Per l'autore di Criminologia i delinquenti si possono distinguere in due categorie, "l'una priva affatto di senso morale, l'altra con istinti morali deboli o latenti", ma pur prendendo atto della mancanza dell'istinto pietoso e di probità, della sostanziale perversità, nulla si può concludere quando manca il delitto. Ed ancora, avverte Garofalo, "che la natura dell'anomalia sia o non sia morbosa, ciò è indifferente in quanto alle esigenze sociali. Ciò che importa sapere è se l'anomalia sia permanente e l'infermità incurabile o duratura nella sua forma pericolosa alla società, ovvero se vi sia speranza di miglioramento e di cessazione degli impulsi criminosi. Nel primo caso non vi è alcuna ragione per non trattare il pazzo come il delinquente istintivo, cioè a dire eliminarlo assolutamente; nel secondo caso si avranno, da una parte, delinquenti affetti da psico-nevrosi, curabili nei manicomi, e dall'altra parte, delinquenti per occasione e per abitudine che possono modificarsi con un nuovo genere di vita a cui siano costretti". Affiora ormai con drastica chiarezza il tema della pericolosità sociale che sostanzierà la legge del 1904 sui manicomi e sugli alienati.

Il pessimismo radicale di Garofalo deriva dalla convinzione che "tutti i delinquenti sono... uomini psichicamente anormali; molti anche antropologicamente"; e del resto se, in condizioni analoghe, fra tanti uomini uno solo delinque si deve coerentemente dedurre che "il fattore primo del delitto è sempre individuale, e che senza di esso le spinte occasionali rimangono inefficaci" (137).

Il delitto, in breve, è fatalmente indotto da un'anomalia individuale; si capisce pertanto come le influenze familiari e sociali siano ritenute di scarso momento. Anche alla portata del disagio economico viene attribuita modesta incisività tanto che il malessere che vi è connesso appare banalmente attribuito alla sproporzione fra desideri e mezzi per soddisfarli; una prospettiva francamente bizzarra, soprattutto se si tiene conto del particolare momento storico caratterizzato dal forte disagio del proletariato industriale.

A Garofalo, prigioniero del sostanzialismo evoluzionista, sembra sfuggire la complessità, familiare sociale ed economica, della vita. Il suo contributo più originale è piuttosto da ricercare nella descrizione di quelle personalità delinquenziali, estranee ad ogni vibrazione affettiva, che, già individuate nella letteratura cinquecentesca, ricorrono insistentemente nelle più recenti nosografie, ottocentesche e novecentesche, dove si parla, ancor oggi, di personalità psicopatiche, di disturbi di personalità, di sociopatie; una questione abombrata anche da Lombroso nel capitolo dedicato ai mattoidi.

Se Garofalo è, per così dire, lo studioso della psicologia criminale, Enrico Ferri è invece ritenuto il sociologo della scuola positiva. Per Ferri, nota Scioloja (138), il più ampio numero di delinquenti è, infatti, costituito da quelli occasionali particolarmente suggestionati da motivazioni sociali tanto che Ferri elabora una sorta di "piano regolatore" per prevenire e reprimere la criminalità considerando in modo articolato i problemi dei minorenni, dei malati di mente, dei tossicomani etc. Chiarisce peraltro Grispigni (139) che la sociologia di Ferri non va intesa come una disciplina che voglia deresponsabilizzare l'individuo per trasferire le sue responsabilità nella società, ma piuttosto come espressione dell'esigenza dello stato di tutelare la propria integrità. In ogni modo, per un esauriente e corretto approccio alla criminalità, lo studio della psicologia collettiva dovrebbe, secondo Ferri, costituire l'anello di congiunzione fra la psicologia individuale e la sociologia che analizza la società nel suo insieme (140). Per Ferri, in effetti, il delitto è sempre un fenomeno biopsicologico, legato sia all'individuo che all'ambiente (141); scrive al proposito che gli autori di atti anti-sociali presentano un particolare temperamento criminale caratterizzato da una singolare "personalità biopsichica che non potendo subire le condizioni di esistenza sociale del presente cede all'impulsività di un sistema nervoso degenerato..., oppure squilibrato dal fanatismo..." (142).

Assai noto come deputato del gruppo socialista, Ferri raccolse ampi consensi come giurista, come criminologo e come polemista; alcuni versi di Giovanni Pascoli e un bozzetto di Nicola Pende ne tratteggiano gli aspetti più caratteristici. Pascoli, senza volontaria ironia, immagina un tribuno impegnato in un mondo acceso, assai lontano dal proprio; scrive, infatti: "Con voce acuta di bufera / Tu gridi al gran popolo: avanti! / Io tra la mischia a me straniera / Sollevo i miei placidi canti" (143). Nicola Pende, uno dei rappresentanti più significativi del costituzionalismo italiano, valorizza invece il criminologo; scrive, appunto: "In Enrico Ferri saluto il grande biologo e clinico dell'uomo delinquente, interprete per mezzo secolo delle leggi dell'io incosciente, determinanti, sotto la spinta provocatrice dell'ambiente, quella acutissima malattia della nostra personalità che chiamiamo delitto" (144). Il pensiero di Pende insiste qui su quei rimandi fra fisiologia e società cari alla tradizione positivista e, in particolare, alle riflessioni di Comte (145).

La fortuna e l'incisività storica di Garofalo e di Ferri, fra i tanti maestri della scuola positiva, sono dovute all'ambito giuridico in cui operano entrambi con il conseguente allargamento di orizzonte rispetto all'originario contesto lombrosiano, sostanzialmente limitato al mondo e ai metodi della medicina. Intorno alla scuola positiva, in realtà, maturano ed evolvono approcci assai diversi che ora si rivelano saldamente ancorati alla biologia, ora sconfinano verso la sociologia politica, ora invece rinnovano ed aggiornano l'indirizzo "ufficiale" della scuola.

Per Virgilio (146), su rigorose posizioni lombrosiane, pazzi e criminali, in quanto entrambi degenerati, sono accomunati da un'organizzazione parimenti fragile del sistema nervoso e del cervello, in particolare. Se il delitto ha origine morbosa deve pertanto essere oggetto della medicina a cui spetta, di conseguenza, anche il compito, eminentemente preventivo, di moralizzare la comunità civile. Una prospettiva che attribuisce alla medicina nuove competenze che, tradizionalmente, erano gestite dai giuristi ma anche dalla Chiesa.

Colajanni e Pistolese, d'altra parte, nell'analisi del rapporto fra alcoolismo e delinquenza, per quanto siano entrambi socialisti e positivisti come Lombroso, affrontano la questione in termini esplicitamente polemici rispetto alle teorie lombrosiane nella loro classica formulazione. Per Colajanni alcoolismo e criminalità hanno infatti una causa comune molto semplice: la miseria con la carenza di educazione che la sostanzia. Per guarire da questi mali è poi indispensabile, secondo Pistolese, la caduta del capitalismo: "E' il capitalismo che ha fatto l'alcool accessibile a tutti, perché a poco prezzo; è esso che lo offre sovente in mille guise falsificato per l'ingordigia di maggiori guadagni da parte degli speculatori..." (147).

Commentatori e continuatori, sostanzialmente ortodossi, della tradizione lombrosiana sono infine la figlia Gina, il genero Ferrero, Niceforo, Di Tullio, etc. ed anche lo stesso Pende, nonostante la differente posizione ideologica. La figlia Gina negli anni '20 cura opere giovanili o poco accessibili del padre rielaborando, in particolare, La donna delinquente etc. dove ricorre il noto assioma della corrispondenza fra prostituzione e criminalità. Si legge, infatti: "L'identità, psicologica come l'anatomica, tra il criminale e la prostituta-nata, non potrebbe essere più compiuta: ambedue identici al pazzo morale, sono per assioma matematico eguali fra loro" (148). Gina comunque non si limita a riproporre i testi del celebre padre ma risulta assai attenta alle difficoltà della condizione femminile ed impegnata nel promuovere l'elevazione culturale e l'emancipazione sociale della donna (149).

A Di Tullio si deve un noto trattato di antropologia criminale aggiornato con capitoli dedicati agli argomenti più recenti come l'endocrinologia. Il magistero lombrosiano è ancora evidente nel pensiero di Di Tullio anche se non si parla più di "tipo" delinquenziale, ma di personalità. Di Tullio ad ogni modo, pur consapevole che l'antropologia criminale solleva vasti problemi come quello del bene e del male e quelli della libertà e della responsabilità umana, intende porre fra parentesi ogni questione filosofica per occuparsi del solo delitto: un atto umano che va considerato e valutato in relazione al contesto sociale dove viene consumato. Fondamentale è poi ritenuto il rapporto con la psicopatologia, tanto più che "ogni delitto è sempre l'espressione di un turbamento psichico" (150).

Di Niceforo (151) si ricorda invece una monumentale sintesi in merito ai contenuti e ai dibattiti maturati attraverso il lungo itinerario della scuola positiva. L'opera di Niceforo, edita da Bocca in 6 volumi fra il '49 e il '54, si configura come una sorta di riassunto critico e di commiato ad un tempo: viene affrontato ogni argomento di interesse criminologico, da quelli biologici a quelli sociali e motivazionali.

Il magistero di Lombroso, in ogni modo, va ben oltre il gruppo dei propri allievi. Pende, tomista in metafisica e costituzionalista in medicina, non è certo libero da suggestioni biologiche di vaga matrice lombrosiana. Quando è ormai dimostrato che la stimolazione di alcune aree encefaliche può indurre improvvisi accessi di aggressività caldeggia infatti mirati interventi di psicochirurgia per modificare le turbe dell'umore che intonano il comportamento di alcuni criminali; al proposito riferisce il caso di un poveretto "che aveva da molti anni fatto il giro di tutte le carceri" e che dopo adeguato intervento neurochirurgico poté "essere trasformato in un pacifico ed onesto lavoratore" (152).

E', insomma, fuor di dubbio che Lombroso ha fatto scuola esercitando ampie suggestioni nella cultura, orientando la pratica giudiziaria e psichiatrica, influenzando la ricerca, sia ancorandola a quanto è oggettivamente visibile che promuovendo la statistica, in sintonia con la metodologia del tempo. Si consideri, d'altra parte, che la passione visibilista, eminentemente lombrosiana, per l'oggettività fotografica se favorisce la documentazione realistica, sia in psichiatria (153) che in criminologia (154), incoraggia nel contempo il bozzettismo di genere, la tipizzazione letteraria dell'alienato e del criminale. La statistica poi, se ha favorito le conoscenze astratte della sociologia, ha promosso nel contempo la scomparsa del soggetto con il suo irrepetibile dolore e con l'unicità umana della propria storia; in verità in Lombroso non mancano le biografie ma, nella proposta scontata della tipicità del caso descritto, la persona appare non di rado naufragata. Lo spirito lombrosiano, in sintesi, tende a far convergere entro le griglie ferme ed ordinate del sapere museale le brulicanti ed imprevedibili forme trasgressive del mondo della vita (155).

 

Contributi clinici alla criminologia

La fortuna quasi secolare della scuola positiva, che si riconosce nell'antropologia criminale, testimonia la continuità di un sapere e di una ideologia, storicamente forti, che si rivelano vitali dagli anni del giovane Lombroso all'ultimo dopoguerra. L'ambito dell'antropologia criminale, come avverte Di Tullio, non va comunque identificato con quello della sola psicopatologia criminale, o della psichiatria, per quanto il criminologo non possa non confrontarsi con la complessità dell'abnorme psichico. D'altra parte, non sempre gli itinerari e le vicende dell'antropologia criminale e della psichiatria sembrano coincidere anche se gli alienisti del secolo scorso e del primo �900 sono per lo più anche medici legali e pertanto fatalmente esperti di criminologia. Del resto fin dal saggio lombrosiano su Villella affiora una forte conflittualità con Verga che è lo psichiatra italiano più illustre del tempo.

La psichiatria clinica, in realtà, si sviluppa intorno ad una immagine dell'uomo abbastanza diversa da quella che, almeno in origine, fonda l'antropologia criminale. Da Verga a Tanzi etc., in psichiatria, si consolida infatti il primato radicale del sistema nervoso, mentre viene proposta una concezione immanentistica dell'anima. Scrive Verga: "L'encefalo... siede al posto d'onore, nella più elevata stanza dell'umano edificio, quasi a significare che esso deve sopraintendere a tutto e vegliare su tutto" (156). Nel contempo Verga prende qualche distanza dalla craniologia tradizionale: gli è che "lo studio del cranio umano è più utile per gli antropologi e per gli artisti che per i medici che si dedicano particolarmente alla cura delle alienazioni mentali" (157). La differente prospettiva dottrinale dell'antropologia criminale e della psichiatria traspare insomma fin dalla diversa attenzione portata all'apparato scheletrico e a quello nervoso. Proprio con un acceso dibattito su una questione craniologica affiora il crinale che separa l'antropologo Lombroso dallo psichiatra Andrea Verga.

Verga, infatti, dissente radicalmente da Lombroso, come si è già fatto notare, in merito al significato della fossetta cerebellare mediana riscontrata in Villella; un reperto al quale Lombroso attribuisce un grande significato dottrinale e giuridico interpretando la fossetta in parola come un ricettacolo per un lobo cerebellare soprannumerario. Secondo Verga la presenza di un simile lobo sarebbe da ritenere un regresso tanto marcato nella scala animale "da rendere l'uomo in cui si verificasse, più mostruoso d'un uomo che offrisse due corna o un braccio di coda. Perocché il lobo medio del cervelletto è già scomparso nelle scimmie superiori, e bisogna discendere, per trovarlo così sviluppato, come si suppone lo fosse nel Villella, fino ai rosicanti" (158). Ed ancora, dopo aver ricordato la frequenza dell'anomalia descritta da Lombroso, invita a diffidare del vecchio assioma dei seguaci di Gall secondo i quali "il cranio si modella sull'encefalo. Questo assioma è infido" - insiste Verga - "e non può essere applicato per nessun conto alla parte mediana longitudinale del cranio, ove del cervello e del cervelletto non corrisponde che la scissura che divide l'uno e l'altro in due metà" (159).

Le strade di Verga si incrociano con quelle dell'"ottimo amico, prof. Cesare Lombroso" anche a proposito di Lazzaretti. In questo caso, tuttavia, i due studiosi sono più vicini, per quanto Verga non trascuri di rilevare che Lombroso, per interpretare la vicenda di Lazzaretti nel suo insieme, aveva proposto una diagnosi psicopatologica ma senza "gli elementi ad una piena dimostrazione". Per Lazzaretti, Verga suggerisce la diagnosi di frenosi sensoria, una malattia mentale caratterizzata dalla presenza delle allucinazioni. E l'allucinazione è "una sensazione non percepita ma concepita; una sensazione che avviene nel nostro cervello... eppure così viva da confondersi colle sensazioni dipendenti da cause ordinarie". Lazzaretti è, insomma, un allucinato che trascina nella propria delirante setta religiosa, accanto all'amatissima moglie, un gran numero di fedeli vissuti in un mondo arcaico ed isolato, esposto per "selvatichezza" a "soffi da medioevo". Il mancato riconoscimento di un disturbo psichico e la superficiale valutazione della cultura dove Lazzaretti opera hanno così trasformato una banale commedia in una tragedia con feriti e morti fra i quali lo stesso Lazzaretti che guidava una processione, non autorizzata, scontratasi con un delegato di pubblica sicurezza, otto carabinieri e due guardie comunali. Verga commenta che una processione religiosa illecita o viene impedita per tempo o si lascia correre (160).

Nel pensiero di Verga, che muove in un contesto dottrinale assai diverso da quello lombrosiano, il compito dello psichiatra di fronte al delitto è quello di riconoscere l'eventuale presenza di un disturbo mentale e di rapportarlo alla cultura dove si manifesta per poter poi valutarne il corretto significato nella dinamica criminosa. Non si tratta di un compito facile. Non sempre è infatti ben riconoscibile lo spessore degli abnormi psichici, tanto più che "il matto del volgo non è il matto della scienza". Particolari difficoltà presentano poi quei casi dal pesante gentilizio che, senza sintomi dalla grossolana evidenza, sono connotati dall'incapacità di dominare l'urgere delle passioni e l'urto delle avversità (161).

L'orizzonte della psicopatologia è, insomma, sfumato ed incerto nonostante gli insistenti rimandi al mondo concreto ed oggettivo della neurologia che, dall'ultimo quarto del secolo scorso, orienta non solo la medicina mentale ma, in larga parte, tutta la medicina. Nella stessa antropologia criminale - come si è già ricordato - l'attenzione per l'epilessia, disturbo squisitamente neurologico, problematizza e modifica le originarie posizioni lombrosiane che diventano più funzionali alla stessa psichiatria. Fra gli psichiatri è Roncoroni (162) il più vicino all'organizzazione del sapere proposta dall'antropologia criminale rinnovata e il più fedele alla citazione lombrosiana.

La forza della neurologia non si avverte solo in branche specialistiche come la psichiatria e la criminologia, con cui è in consolidato ed inevitabile rapporto, ma anche nella stessa medicina generale con l'avvento delle moderne teorie costituzionali. Dopo il periodo ottocentesco caratterizzato dal localismo anatomopatologico, la clinica infatti si rinnova proprio all'insegna del costituzionalismo che, avvicinabile sul piano teoretico all'antica dottrina umorale dei temperamenti, propone una visione unitaria dell'uomo dapprima grazie alla valorizzazione del sistema nervoso e, in secondo tempo, grazie anche al ruolo riconosciuto alle ghiandole endocrine che armonizzano e coordinano il funzionamento dei vari organi. De Giovanni, Viola e Pende (163) sono i cultori più significativi, per quanto interessa l'Italia, di questo indirizzo antropologicamente suggestivo. Il fondatore della scuola italiana è Achille De Giovanni che attribuisce proprio al sistema nervoso, al simpatico in particolare, il compito di improntare la costituzione individuale: uno stato dell'organismo che permette di istituire una certa correlazione fra caratteristiche somatiche e caratteristiche psicologiche. Nel riferimento alla costituzione la psichiatria trova un nuovo polo di convergenza e di confronto con l'antropologia criminale, soprattutto là dove si parlerà, con interesse sempre più ampio e diffuso, di immoralità costituzionale. La psichiatria, per quanto segua metodi ed itinerari sostanzialmente autonomi, sembra insomma incapace di prendere le distanze dalla criminologia anche quando il confronto fra le due discipline non di rado si limita al dissenso e alla banale polemica.

Lo stesso Ernesto Lugaro, ad esempio, nell'acuto e ancor oggi fresco saggio su I problemi odierni della psichiatria, edito verso i primi anni del �900, mentre affronta le principali questioni del momento guarda con insistita attenzione ai temi, teorici e pratici, che ruotano intorno alla criminalità pur dichiarando obsolete le dottrine psicopatologiche ispirate alla degenerazione. In breve, parla di pregiudizio antropologico per dire di quelle ipotesi che vedono nella pazzia un'involuzione atavica che invita ad assimilare il pazzo al fanciullo, al selvaggio ed allo stesso delinquente, mentre un semplice malato non può essere paragonato con organismi inferiori o non ancora pienamente sviluppati, ma sani. Interpretare la delinquenza come ritorno atavico vuol dire calunniare le bestie. E' infatti un errore, insiste Lugaro, voler cercare nel delinquente una varietà antropologica ed altrettanto erronea è la raccolta di quei segni somatici sui quali si fonda la singolare semeiotica dell'antropologia criminale; tanto più che si deve prendere atto della "mancanza di correlazioni necessarie tra questi fatti particolari, localizzati fuor del cervello, e le funzioni cerebrali". Del resto, "se anche l'antropologia criminale ci fornisse effettivamente tutti i connotati biologici del criminale, non ci dimostrerebbe ancora il minuto meccanismo di determinazione psicologica che porta al delitto".

Piuttosto è opportuno che la psichiatria si integri quanto prima con la clinica generale intendendo i vari disturbi mentali come autentiche manifestazioni patologiche da studiare con i metodi della neurofisiologia e della neuropatologia, anche se si deve riconoscere che non è possibile andare oltre la costruzione di un semplice parallelismo fra certi processi organici cerebrali e certi stati di coscienza.

Per una corretta organizzazione del campo del sapere va poi operata una distinzione fra malattia e anomalia. La malattia è un processo biologico abnorme dovuto ad agenti esterni, per quanto favorito dalla predisposizione interna. L'anomalia è invece uno "stato" dell'organismo al quale corrisponde un'aberrazione funzionale. La distinzione è di grande interesse in psicopatologia e nell'interpretazione delle dinamiche criminali. "Nel pazzo propriamente detto" si è infatti verificato, avverte Lugaro, "un cambiamento interno che ha favorito o determinato l'atto criminoso, mentre nell'anomalo per costituzione non è avvenuto alcun cambiamento e il delitto è per esso come le azioni degli individui normali, un'estrinsecazione del suo modo normale di reagire". L'individuazione di queste anomalie mentali appare comunque assai problematica in quanto fra i vari sintomi psichici da considerare al proposito quello "più importante è naturalmente... il delitto".

Le asperità dottrinali che insistentemente affiorano nello studio del rapporto fra psicopatologia e criminalità sono aggravate dalla diversità di linguaggio, fra naturalisti e giuristi, che non agevola una elaborazione articolata e chiaramente condivisa dei progetti preventivi e terapeutici. Per Lugaro, ad ogni modo, ai malati di mente incorsi, senza capacità d'intendere, in comportamenti delinquenziali si deve riservare lo stesso trattamento che compete ad ogni altro malato. Per quanti invece sono stati spinti al delitto da influenze ambientali, da difetto dell'organizzazione sociale, la severità non deve essere eccessiva: bisogna, piuttosto, promuovere l'istruzione, lottare contro la disoccupazione, proteggere l'infanzia abbandonata, "rendere più snodabili i vincoli familiari". Più difficile, infine, resta l'elaborazione di un adeguato progetto per i criminali anomali. Lugaro sa bene che non esiste "alcun mezzo per instituire una diagnosi certa d'immoralità costituzionale a scopo preventivo. L'immoralità costituzionale non si documenta che col delitto". Ma anche di fronte alle situazioni più ripugnanti che suggeriscono di pensare alla pena di morte ogni soluzione radicale è da respingere considerando "l'utile ben più grande che scaturisce da un atto di generosità e dall'esempio del rispetto incondizionato della vita umana" (164).

L'immoralità costituzionale costituisce insomma un motivo nodale ed enigmatico nel rapporto fra psichiatria e criminologia. Non si tratta, nel disegno di Lugaro, di una malattia ma di una anomalia costituzionale dove per costituzione si intende una condizione organica predisponente, sostanzialmente inafferrabile prima del delitto la cui dinamica risponde, peraltro, a motivazioni psicologiche investendo, fatalmente, il mondo umano dei valori.

All'immoralità costituzionale è riservato un ampio capitolo sia nel classico Trattato delle malattie mentali di Eugenio Tanzi che nell'edizione della stessa opera elaborata in collaborazione con Lugaro (165). In questo manuale, che costituisce una pietra miliare della letteratura psichiatrica italiana, si ritiene sterile ogni dibattito in merito al libero arbitrio; si valorizza il criterio etico nella diagnosi di immoralità costituzionale; si ricorda che il compito e la competenza dello psichiatra non trascendono l'ambito proprio della medicina e non possono sostituirsi a quanto spetta alle leggi. Tanzi e Lugaro sono pertanto su posizioni lontane da quelle lombrosiane ma sul piano operativo devono ugualmente confrontarsi con le proposte ed i progetti maturati nell'ambito dell'antropologia criminale che si mantiene altamente suggestiva nell'opinione pubblica e cogente a livello giuridico ed amministrativo proprio quando ha perso terreno sul piano scientifico. In effetti, le proposte che, in tema di immoralità costituzionale, elaborano psichiatri come Tanzi, Lugaro e De Sanctis sono trascinate dai protocolli operativi dell'antropologia criminale con cui è indispensabile il confronto, sia per esprimere qualche consenso sia per affermare il dissenso. I progetti preventivi e le risposte istituzionali sono al centro del dibattito.

In tema di prevenzione non mancano le contraddizioni. Perplessità e riserve affiorano quanto prima proprio in margine ai provvedimenti profilattici radicali come il neo-malthusiasismo e la sterilizzazione dei degenerati che, dopo essere stata approvata negli Stati Uniti, diventa oggetto di dibattito, anche in Italia, all'ombra dell'ermeneutica biologica della criminalità. Sante De Sanctis, un pioniere della neuropsichiatria infantile, pur rifiutando la "sterilizzazione dei degenerati" guarda con interesse al provvedimento in parola che vorrebbe "semplice, incruento, non doloroso" (166). E pur tuttavia si deve proprio a De Sanctis un profondo ed ininterrotto impegno nella lotta alla delinquenza minorile che colloca assai modernamente nell'ampio contesto delle trasformazioni culturali in atto. De Sanctis, del resto, è impegnato anche nell'opera di diffusione della psicoanalisi, valorizzando pertanto un approccio che riflette sull'esistenza ed ha con il corpo un rapporto eminentemente metaforico (167).

In effetti, lo sviluppo recente dell'endocrinologia, mentre fornisce un moderno supporto dottrinale alla pratica della castrazione, sembra invitare ad un'operatività non propriamente cauta. La questione non sfugge a Tanzi e Lugaro attenti alle conseguenze degli interventi chirurgici sui testicoli ma anche a livello della tiroide. Questi autori sanno bene "che la castrazione nell'adulto non porta affatto la desiderata mansuetudine, non cancella neppure le immagini sessuali, e provoca talvolta crisi d'irrequietezza angosciosa"; in una cultura che considera "l'integrità dei testicoli come il più prezioso dei beni" vi è invece il pericolo che l'intervento di sterilizzazione possa suscitare sentimenti di "odio inestinguibile contro la società". Più apprezzati, in qualche caso di impulsività, sembrano invece modesti interventi sulla tiroide non tanto per "trasfondere nell'immorale impulsivo l'etica che gli manca" ma per frenare l'impulsività (168).

Innanzi all'enigma doloroso dell'immoralità costituzionale Tanzi e Lugaro non si fanno grandi illusioni. Se contestano la terapia del sangue sono altrettanto perplessi in merito alla capacità di redenzione delle case di correzione. Guardano invece con fiducia al ruolo positivo che può svolgere l'ambiente familiare. Tanzi e Lugaro sono poi su posizioni alternative rispetto a quelle suggerite dall'antropologia lombrosiana per quanto concerne la risposta istituzionale in tema di psicopatologia e criminalità.

Al proposito va rilevato come il manicomio e il manicomio criminale, le grandi istituzioni che sorgono fra �800 e �900, rispondano alle esigenze dottrinali dell'antropologia lombrosiana che postula la negazione del libero arbitrio ed assimila, all'insegna della degenerazione atavica, malati di mente e delinquenti; le istituzioni in parola servono infatti a proteggere la società, da una parte, ed a sottrarre alla pena, dall'altra, malati di mente e delinquenti. Il manicomio criminale, in altre parole, esprime l'attuazione concreta di quegli indirizzi biologici ottocenteschi che, ancorati al concetto di degenerazione, perdono sempre più consenso in ambito scientifico lungo il �900 proprio dopo aver vinto la propria battaglia istituzionale con l'avvento degli stabilimenti di Reggio Emilia, Aversa etc. (169). Ma ogni dissenso, si sa, sorge sempre al tramonto. In effetti, un limite palese del manicomio criminale, che dovrebbe essere uno spazio sanitario e ad un tempo di sicurezza sociale, traspare dall'ambiguità della relazione speculare che scandisce l'incontro quotidiano fra chi è malato/criminale e chi è infermiere/agente di custodia; una relazione con modeste vie d'uscita dove un ruolo oscura l'altro. Tanzi e Lugaro, ad ogni modo, contestano queste istituzioni per la gestione dell'immoralità costituzionale; ritenendo sterile ogni riferimento alla mancanza di libero arbitrio ed escludendo la malattia nel concetto di immoralità costituzionale non vi sono, in concreto, motivazioni che giustifichino una soluzione istituzionale di tipo ospedaliero. I delinquenti per immoralità costituzionale, secondo Tanzi e Lugaro, devono essere trattati come ogni delinquente ordinario ed è inopportuno accoglierli "negli ospedali di alienati, dove portano il disordine: lupi in mezzo alle pecore, veggenti in mezzo ai ciechi, anomali in mezzo ai malati" (170).

Tanzi e Lugaro, d'altra parte, auspicano un ospedale psichiatrico che sia veramente un luogo di cura: al servizio della clinica e non della sicurezza sociale. Ma l'assetto della psichiatria istituzionale risentirà invece di forti cogenze medico-legali; dopo la legge del 1904 sui manicomi e sugli alienati, gli ospedali psichiatrici sono infatti deputati ad accogliere i pazienti in base al criterio della pericolosità sociale, piuttosto che in base ad esclusive motivazioni cliniche. L'art. 1 della legge 14 febbraio 1904 sui manicomi e sugli alienati recita infatti: "Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri etc.". Lo psichiatra diventa pertanto, quasi fatalmente, un medico legale, un esperto di psicopatologia a potenzialità criminale; il compito del perito sembra prevalere su quello del terapeuta. Non a caso gli alienisti più rappresentativi del primo �900 discutono accesamente sul senso della perizia testimoniando ancora una volta le difficoltà storiche e concrete della psichiatria a non debordare dal proprio contesto clinico.

Tanzi, autore di un pionieristico trattato di psichiatria forense, intende mettere il sapere della psichiatria a disposizione delle esigenze giuridiche e della pratica peritale. La perizia psichiatrica, scrive Tanzi, è un'indagine sul profilo mentale di un soggetto per coglierne lo stato di coscienza e il margine di libertà; preceduta dalle indagini anamnestiche più accurate, senza confondere ereditarietà e degenerazione, la perizia si articola nei classici momenti dell'esame psichico. La diagnosi che scaturisce dall'esame psichico non è però da ritenere sufficiente, in quanto tale, ai fini medico legali dove piuttosto interessa conoscere lo "stato mentale del reo durante il fatto incriminato". Una diagnosi di stato, in ambito peritale, può essere pertanto più utile di una diagnosi clinico-nosografica quando, elaborata sulla base di sintomi rilevati al di fuori del momento del delitto, ha in questo caso un modesto valore indiziario. Tanzi, che muove in un ambito dottrinale critico ed aggiornato, considera il possibile ricorso ai test mentali e guarda anche alla recente teoria di Freud. Per quanto concerne l'uso dei test ritiene però che non permettano di cogliere le manifestazioni psichiche più complesse. Tanzi, sostanzialmente ancorato alla psicopatologia descrittiva, è critico anche nei confronti della emergente teoria freudiana che postula complessi affettivi inconsci che sarebbero in grado di provocare i turbamenti psichici più diversi (171).

La perizia, luogo d'incontro elettivo fra psicopatologia e criminologia, fa sempre più parte della pratica quotidiana dello psichiatra. Se ne occupa anche Leonardo Bianchi per ricordare la dimensione empirica della pratica peritale tormentata dalla difficoltà di coniugare la pagina del codice con le regole scientifiche; e le difficoltà sembrano aumentate in un momento in cui la psicoanalisi potrebbe agevolmente permettere di trovare qualche disturbo anche in persone dal buon adattamento sociale (172).

La psichiatria, ad ogni modo, fino a tutti gli anni '50, sia pure fra difficoltà e qualche polemica, non esce dall'assetto organizzativo del primo �900 mantenendo marcate connotazioni neurologizzanti tanto che non si parla più di medicina mentale, come ai tempi di Tanzi e Lugaro, ma di neuropsichiatria: è l'effetto alone indotto dall'avvento dell'elettroencefalografia, della neuroradiologia, della terapia elettroconvulsivante, della psicochirurgia.

Un noto saggio di Catalano Nobili e Cerquetelli sulle personalità psicopatiche ed il monumentale trattato di Ferrio di psichiatria clinica e forense sono esemplari per testimoniare il rapporto che è andato ormai maturando fra psichiatria e criminologia. Un punto d'arrivo prima dei mutamenti degli ultimi decenni. Questi saggi tuttavia, con i ripetuti riferimenti a Kretschmer e a Schneider, annunciano qualche bisogno di rinnovamento che si realizzerà proprio con la penetrazione della psicopatologia tedesca nella cultura italiana.

Kretschmer (173) elabora una dottrina costituzionale più funzionale alle esigenze della psichiatria rispetto alle classiche teorie italiane. In particolare, propone un orientamento temperamentale ciclotimico, affettivamente ricco e sintono con l'ambiente, nei brachitipi; nei longitipi descrive invece un temperamento schizotimico, freddo e talora brutale, che dietro la maschera dell'imperturbabilità può peraltro celare, in qualche caso, grandi ricchezze. L'interesse di Kretschmer per la criminologia affiora nelle ultime edizioni del suo noto trattato che ha per oggetto la sintonia fra costituzione somatica ed orientamento caratterologico.

A Schneider (174) compete una moderna e rinnovata sistematica clinica delle anormalità psichiche intese sia come sequele di malattia e di malformazione, sia come semplici varianti abnormi dell'essere psichico che, accanto ad altre varianti psicologiche, comprendono le personalità abnormi. Fra le personalità abnormi, in base a criteri descrittivi, sono poi incluse le personalità psicopatiche. Sono tali, secondo Schneider, quelle personalità abnormi che per la loro abnormità soffrono o fanno soffrire gli altri. Fra queste figure umane, la cui abnormità non va intesa come sequela di malattia o di malformazione, Schneider include poi quelle personalità fanatiche o fredde che sono oggetto di particolare attenzione in ambito criminologico.

Il concetto di personalità psicopatica richiama vagamente, sul piano descrittivo, sia la delinquenza atavica di lombrosiana memoria che l'immoralità costituzionale. Il delinquente nato, tuttavia, è tale, con le sue stigmate, per intrinseche motivazioni biologiche. Più vicina alla classificazione di Schneider è piuttosto l'immoralità costituzionale che è intesa come un'anomalia comportamentale in riferimento ai criteri etici comunemente condivisi.

Il citato studio di Catalano Nobili e Cerquetelli (175) sulle personalità psicopatiche, una questione fondamentale in criminologia, per quanto attento al pensiero di Kretschmer e di Schneider pare peraltro più vicino alla tradizione epistemologica e scientifica della medicina italiana. Catalano Nobili e Cerquetelli intendono trattare l'argomento senza abbandonare l'"obbiettiva positività" della medicina, rinunciando "a qualsiasi sconfinamento filosofico, metafisico, sociologico, etico o moralistico"; e non si vede, proprio, come sia possibile un tale progetto. La personalità è poi intesa, con Viola, come una speciale combinazione di caratteri psichici e fisici che rimanda ad una particolare costituzione. Fra i disturbi di personalità sono descritti gli psicopatici crudeli che, con la caratteristica anestesia morale, costituiscono un vero pericolo sociale. Viene rilevato che queste figure sono già state descritte da Kraepelin e da Schneider.

Anche Ferrio (176), come Catalano Nobili e Cerquetelli, è forse più volto al passato che al futuro; più impegnato nella sintesi esauriente di ciò che è noto, che nell'apertura di nuove prospettive. Ferrio insiste sui fondamenti biologici della psicologia e della patologia mentale. Riserva ampio spazio alla trattazione delle psicosi su base organica evidente. Valorizza, per il lavoro del perito, la diagnostica strumentale ma anche i test. E' attento alla psicodinamica con qualche modesta allusione al pensiero di Freud. Pone mente all'ereditarietà ricordando che, fra l'altro, si discute anche in merito alla possibile ereditarietà di alcune forme di personalità psicopatica. In sintesi, non vi è molto di nuovo; una nota di qualche interesse è però rappresentata proprio dal capitolo dedicato alle personalità psicopatiche avendo ben presenti i contributi di Kretschmer e di Schneider, ormai noti a tanti studiosi italiani.

 

Nuovi orizzonti

Far gli anni í50 e í60 la psicopatologia italiana si rinnova per molteplici ragioni. La divulgazione della psicopatologia tedesca, il diffuso interesse per la psicoanalisi e per la fenomenologia, i nuovi approcci sociologici costituiscono, nellíinsieme, il fascio dei motivi che scompone il sapere psichiatrico tradizionale proponendo nuove soluzioni che fatalmente investono la criminologia.

Per quanto riguarda la diffusione della psicopatologia e della criminologia tedesche vanno ricordate le traduzioni della Psicopatologia clinica di Kurt Schneider del 1954, della Psicopatologia generale di Karl Jaspers del 1964 e del Trattato di criminologia comparata di Hermann Mannheim del 1975.

Schneider, teorizzando con rigore che le personalità psicopatiche non costituiscono una diagnosi patologica e non vanno intese come malattie ma come tipi umani descrivibili in maniera asistematica, prende le distanze dalla biologia e dal corpo per mettere a fuoco alcune modalità díesistenza che nelle personalità esplosive sono connotate dalla violenza, mentre in quelle fredde svelano la brutale crudeltà del criminale incorreggibile.

Se la descrizione schneideriana delle personalità psicopatiche offre qualche soccorso diretto alla criminologia, il contributo di Jaspers è invece eminentemente indiretto, legato ad un nuovo modo di intendere la psicopatologia come disciplina metodologicamente autonoma rispetto alla tradizionale organizzazione del sapere e della ricerca in medicina. Anche Jaspers, ad ogni modo, accenna alle condotte antisociali per ricordare che, in questo ambito, fra i delinquenti prevalgono quelli che presentano costituzioni anormali, rispetto a quanti risultano invece affetti da processi patologici (177). Fra psichiatria e criminologia è pertanto opportuno operare qualche distinzione empirica di campo.

Per venire, infine, al Trattato di criminologia comparata di Mannheim (178), va subito chiarito che il saggio non riguarda propriamente la psicopatologia ma la criminologia nel suo insieme. Propone poi, come avverte il titolo, una comparazione di informazioni che interessano non solo la cultura tedesca ma quella occidentale nel suo insieme. Mannheim, del resto, insegna a Berlino fino al í33 quando ripara a Londra dove il contatto con la cultura anglosassone diventa quotidiano. Il trattato, che Vassalli raccomanda come auspicabile traguardo anche per la letteratura criminologica italiana, permette di fare il punto sui contenuti della disciplina e sui problemi che si vanno dibattendo negli ultimi anni. Per quanto interessa il rapporto fra psicopatologia e criminalità líautore non elabora una personale teoria del delinquente ma descrive il rischio che, nella genesi del crimine, può essere connesso ai vari disturbi psichici. Piuttosto, viene avvertita líesigenza forte di conoscere la psicologia del delinquente normale; una questione davvero anodina perché conoscere la psicologia del delinquente normale vorrebbe dire conoscere líuomo. Di indubbio interesse, in ogni caso, sono i capitoli dedicati alla moderna sociologia del crimine. Sono ormai lontani gli anni in cui il giovane Lombroso osservando una società rozza ed arcaica poteva descrivere la criminalità del sangue con attori folli e violenti, spesso tratteggiati in modo da realizzare una sorta di estetica del brutto radicato fin nelle anomalie indelebili dellíapparato scheletrico. Ormai urge líetà della criminalità dai colletti bianchi. Il criminale dal colletto bianco, che approfitta della propria posizione sociale e lavorativa, deve comunque avere una lucidità ed una capacità operativa che per lo più sono estranee a chi è portatore di un processo psicopatologico, ma non è detto che non siano presenti difficoltà psicologiche anche in queste nuove figure di delinquenti.

In realtà lo scenario del delitto è mutato dovunque. Sono sorte nuove forme di criminalità e nuove teorie per interpretare il delitto. Ed anche la psicopatologia si è rinnovata. Nella cultura italiana, in particolare, il pensiero di Schneider e di Jaspers ha scosso la psichiatria invitando a prendere qualche distanza dal sostanzialismo neurologico tradizionale. Nel contempo un impulso al rinnovamento è stato dato dalla psicoanalisi e dalla fenomenologia.

La psicoanalisi, tuttavia, pur avendo aperto nuovi orizzonti non sembra aver esercitato, almeno in Italia, una reale ed incisiva influenza nellíermeneutica della criminalità. Freud peraltro, fin dal 1906, aveva tenuto una conferenza nella facoltà giuridica di Vienna per illustrare il possibile rapporto, in ambito sia diagnostico che terapeutico, fra psicoanalisi e criminologia (179); in seguito si era anche occupato dei delinquenti per senso di colpa (180). Le riflessioni sulla colpa sono però abbastanza estranee alla tradizione speculativa laica italiana. In merito al modello psicoanalitico aveva poi espresso ampie perplessità Tanzi, ed anche Bianchi non aveva risparmiato chiare critiche velate di ironia. Non si dimentichi, díaltra parte, che la cultura criminologica italiana si mantiene ambiguamente legata al pensiero di Lombroso anche quando intende prenderne le distanze. E fra Freud e Lombroso, come avverte Mannheim (181), le differenze sono sostanziali. Per Lombroso contano i fattori congeniti; Freud valorizza invece le esperienze vissute. Per Lombroso fra il delinquente e gli altri esseri umani vi è uno scarto; per Freud tutti gli uomini nascono con istinti immorali. Freud riconosce poi nello sviluppo della personalità varie fasi la cui importanza viene distinta da quanto spetta ai fattori costituzionali ed ambientali. Fra Freud e Lombroso il solco metodologico è innegabilmente ampio nonostante i comuni interessi antropologici e la comune passione per le teorie evoluzioniste. Ma líantropologia lombrosiana è fondata sullíantropometria, mentre Freud mutua da Darwin líimmagine dellíorda primitiva dominata da un padre dispotico che domina tutte le donne fino a quando i figli si ribellano e lo uccidono con conseguente senso di colpa ed autonegazione delle donne liberate. Il parricidio e il tabù dellíincesto si trovano così alla base dellíorganizzazione sociale.

Più evidente, negli orientamenti della psicopatologia criminologica, è influenza della fenomenologia rispetto a quella sotterranea esercitata dalla psicoanalisi. La fenomenologia invitando a riflettere sui grandi temi della vita e sullíintenzionalità dellíesistenza umana permette di cogliere nuovi aspetti del mondo criminale. Un penetrante saggio di Semerari e Citterio, arricchito da alcune pagine di Liggeri sulla pericolosità, testimonia líattenzione che, nella criminologia italiana, è stata riservata al pensiero di fenomenologi come Heidegger e Zutt. Si tratta di "comprendere líatto criminale come portatore di senso, come atto di presenza che si inserisce in una forma di esistenza... esprimendo a modo suo, líinsopprimibile necessità di crearsi un mondo" (182). La paura, come smarrimento innanzi ad una presenza minacciosa, è il vissuto che per lo più sottende la distruzione criminosa di ogni ordinamento dellíabitare e del rango che Zutt indica come riferimenti fondamentali per un rapporto di familiarità e di fiducia con il mondo della vita (183).

Con líapproccio fenomenologico il corpo-natura viene posto fra parentesi nellíintento di cogliere invece il dispiegarsi nel mondo del corpo-vissuto. Anche la sociologia, per altro verso, prende le distanze dalla naturalità del corpo per coinvolgere, con un ampio gioco di rimandi, la società tutta nellíinterpretazione della malattia mentale e della devianza.

Del resto, fra gli anni í60 e í80, mentre la psicopatologia nel suo insieme è ormai altamente problematizzata, muta líassetto istituzionale della psichiatria con inevitabili conseguenze concrete nel confronto con la criminalità. Una nuova normativa psichiatrica del maggio í78, recepita poi nella legge 833 di riforma sanitaria dello stesso anno, abolisce infatti il riferimento alla pericolosità per il ricovero ospedaliero dei malati di mente disattivando, dopo quasi un secolo, il manicomio che viene irrimediabilmente contestato quale struttura segregante e non terapeutica.

Basaglia, i cui primi contributi scientifici sono dedicati alla psichiatria fenomenologica, è líideologo di punta della contestazione manicomiale allíinsegna di un esplicito impegno sociologico a forte mordente politico. Basaglia, in effetti, nel rifiuto del carcere e del manicomio, che reputa istituti per poveri, esprime grande preoccupazione per il destino del malato che, una volta ospedalizzato sulla base di una presunta pericolosità, si trova di fatto internato "per espiare una colpa di cui non conosce gli estremi e la condanna, né la durata dellíespiazione". "La delinquenza o la malattia" - avverte Basaglia - "sono contraddizioni dellíuomo, ma sono anche un prodotto sociale, e non si può farne pagare le conseguenze - sotto coperture scientifiche diverse - a chi ne è colpito come se si trattasse sempre e solo di una colpa individuale". Né si deve ricorrere allíalibi della delinquenza e della psicopatia per emarginare, nel carcere o nel manicomio, chi intralcia il ciclo produttivo in un mondo, culturalmente ambiguo e compromesso, dove le stesse "perizie psichiatriche non sono che uno strumento che consente il passaggio da un terreno allíaltro" (184); Basaglia, che non nega líevidenza alla malattia mentale, auspica una nuova tolleranza sociale che, senza istituzioni segreganti e senza líequivoca compiacenza degli psichiatri, permetta un rinnovato approccio al malato di mente ed al deviante.

La prospettiva sociologica che sottende líimpegno organizzativo ed etico di Basaglia suggerisce di sollevare dal carico della esclusiva responsabilità personale malati e devianti proprio come aveva voluto Lombroso. Ma mentre la deresponsabilizzazione lombrosiana era fondata su riduttive congetture bioantropologiche, le recenti concezioni deresponsabilizzanti sono fondate invece sul rimando sociologico. Bisognerebbe cambiare la famiglia, la società e la fabbrica perché il mondo della vita fosse più vivibile per tutti.

Fornari comunque mette in guardia dalle teorie unifattoriali, sia biologiche che sociologiche, in quanto negano "dignità allíautore di reato, quando lo descrivono passivo destinatario dello stigma di volta in volta ritenuto generatore di criminalità" (185). Appare invece auspicabile una rivalutazione della persona, soggettivamente intesa, con la sua capacità e responsabilità.

Negli ultimi anni, del resto, molte congetture della psicopatologia criminologica tradizionale risultano oscurate. In particolare, avverte Fornari, è stato dimostrato che in riferimento alle condotte delittuose i malati di mente non superano il resto della popolazione, che non esiste una equivalenza fra malattia mentale e pericolosità, che la pericolosità non è ben prevedibile (186).

Ma se, da una parte, la psicopatologia deve mettere in discussione il proprio statuto, si deve nel contempo riconoscere che anche il contesto sociale e culturale del crimine è mutato. In una società che nellíinsieme sembra aver smarrito le proprie radici, soprattutto la famiglia si rivela sempre più disgregata mentre, nel volgere breve di pochi anni, líuomo della strada scopre, con improvviso turbamento, la latitanza etica dello stato e coglie con chiara evidenza quanto fosse capillarmente diffuso, e forse condiviso, il codice della corruzione che non ha più nulla da spartire con le forme pionieristiche, e più circoscritte, della criminalità dai colletti bianchi del primo ë900. Si allude agli innumerevoli casi di corruzione politica, imprenditoriale, assistenziale etc. segnalati dalla stampa negli ultimi anni.

Questi casi non sono peraltro del tutto esenti da qualche rimando alla sofferenza psichica (187) che sembra però essenzialmente secondaria alla presa di coscienza del crimine perpetrato, configurando una sorta di percezione della colpa, di depressione reattiva, che apre pertanto qualche spiraglio alla possibilità del riscatto. Non si può comunque dire che questi nuovi e un poí grigi protagonisti del dis-ordine abbiano quei tratti di bellezza somatica che Lombroso amava riconoscere a qualche delinquente politico, ad anarchici come Caserio dove líarmonia delle forme anatomiche era impeccabile se si esclude la banale presenza di un neo ad un braccio (188).

La società postmoderna, ad ogni modo, è ben lungi dallíoffrire riferimenti culturali monolitici ed evidenti. Líincertezza del mondo del lavoro, dove líesperienza stessa non costituisce più un fattore stabilizzante, e la crisi díidentità nei ruoli familiari, con genitori giovanilisti e figli privi di credibili modelli, sono cose note che fanno da sfondo alla caduta del dialogo fra le generazioni e al disorientamento culturale che ne consegue. Tanto più che allíeclissi del dialogo spesso si affianca la monotona recezione passiva dei messaggi televisivi che sono unidirezionali e, nelle personalità più fragili, possono suscitare velleità acritiche di onnipotenza invitando a prevaricare ogni ordinamento sociale. In effetti, solo il dialogo vissuto, arricchito e verificato dalla rete dei continui rimandi, permette la trasmissione autentica della cultura e della morale. Senza quelle verifiche dialogiche che scandiscono líautenticità di ogni vero incontro umano líorizzonte della vita si oscura: la meccanicità della manipolazione erotica impedisce líaccesso alla patria dellíamore, la tensione spirituale è spezzata dal rigurgito della magia sotto forma di riti satanici e di settarismi alternativi, líordinamento dello stato è sostituito dal codice mafioso dei sodalizi clientelari.

In questo mondo il parricidio, che ormai serpeggia nella cronaca quotidiana da Maso a Nicolini, ha il sapore allusivo della protesta malinconica contro la caduta di senso dellíesistenza, è il gesto di-sperato di chi ha smarrito ogni autentico riferimento. Il moltiplicarsi dei crimini di sangue maturati ed esplosi dentro la famiglia svela quanto sia oscura la situazione che si è venuta creando; líefferatezza di questi delitti, tuttavia, non autorizza a pensare automaticamente alla malattia mentale se non in presenza di elementi e fattori che la giustifichino.

Una perizia di Vittorino Andreoli (189) sul caso Maso porta nel vivo delle concrete difficoltà che si offrono oggi allo sguardo dello psicopatologo. Líinterpretazione del caso, che ha avuto la risonanza dei grandi delitti che scandiscono la psicopatologia criminologica, si avvale di un ampio ricorso ai più accreditati strumenti diagnostici ed è nel contempo ricca di rimandi al contesto sociale dove è maturato il delitto. Líelaborato tuttavia non è stato condotto allíinsegna di una scontata deresponsabilizzazione. Si fa, infatti, notare che il perito non è un terapeuta, con líobbligo contrattuale di parteggiare per il cliente, ma deve semplicemente fornire un aiuto tecnico al magistrato. Il lungo ciclo della psicopatologia deresponsabilizzante sembra insomma concluso, sollevando lo psichiatra da impertinenti missioni salvifiche per ancorarlo a compiti meglio definiti e più pertinenti.

 

Un tentativo di sintesi

Si tende oggi, in tema di psicopatologia e di criminalità, a valorizzare interpretazioni multifattoriali che, senza trascurare il fondamento somatico e genetico dove è radicata la condizione umana, guardino con grande attenzione alla suggestione sociale che sottende ogni dinamica psicologica e psicopatologica che si dispiega nel crimine. Si tratta di un punto di vista ispirato al più conciliante buon senso che, a guardar bene, non ha mai del tutto abbandonato l'evoluzione della psicopatologia criminologica che, per dare un senso sia alla sofferenza che alla trasgressione, si è sempre dibattuta fra corpo, psiche, natura e società. E pur tuttavia i differenti momenti d'approccio non sempre hanno avuto pari fortuna rivelando quanto sia forte il bisogno umano di libertà conoscitiva; un'esigenza di sapere che invita ad elaborare, per poi scomporre, sempre nuovi modelli ermeneutici ora centrati sulle cogenze del corpo, ora sul disagio sociale, ora sull'obliquità dello spirito.

Libertà e cultura, in effetti, sostanziano il mondo dell'uomo che nei differenti modelli scientifici tende a dare una risposta sempre rinnovata agli enigmi dell'esistenza e tali sono, fuor di dubbio, la follia e il crimine.

Un forte rilievo ermeneutico alla qualità dell'organizzazione somatica è evidente nelle concezioni naturalistiche dell'umoralismo e dell'illuminismo; la connessione fra configurazione somatica ed inclinazione al crimine appare, peraltro, radicale ed esasperata nella frenologia e nelle prime teorie lombrosiane. Le ragioni psicologiche dello spirito, dolorosamente compromesso con la colpa, affiorano invece, in forma emblematica, nella demonologia ma anche negli approcci storicisti. In ogni caso, ogni modello conoscitivo, per essere realmente incisivo, deve essere sintono con la società dove viene elaborato, con il mondo della vita con cui si confronta.

Ma il mondo dell'uomo muta storicamente e pertanto ogni dottrina deve essere incessantemente integrata fino a diventare irriconoscibile quando, al proprio tramonto, si impone l'esigenza di nuove teorie. In altre parole, il mondo della cultura socialmente condivisa non conosce stabilità alcuna ma è incessantemente mosso dal vento della storia; fortune, eclissi e grigi compromessi sono il destino di ogni sapere.

Per venire alla vicenda della psicopatologia criminologica italiana, teorie dall'indubbia originalità e fortuna si intrecciano con teorie che si limitano a ripetere forme di pensiero maturate al di là delle Alpi. In pratica, la tradizione della psicopatologia criminologica italiana si può sostanzialmente identificare con quella europea fino all'età di Zacchia, il cui pensiero diventa un modello per il sapere di tutto l'Occidente. La criminologia italiana subisce poi forti influenze francesi nell'età dell'illuminismo e tedesche nell'età della Restaurazione. Con Lombroso, ampiamente influenzato dall'evoluzionismo inglese, è invece l'antropologia criminale italiana a configurare, ancora una volta, un punto di riferimento per ogni approccio alla criminologia. Ma anche il biologismo lombrosiano, per quanto corretto dalla sociologia di Ferri, si incammina irrimediabilmente verso il tramonto quando nuovi approcci diventano possibili all'ombra della psicopatologia tedesca.

La mutevolezza del sapere, accanto al dovere di solidarietà umana, deve pertanto invitare alla tolleranza soprattutto innanzi a quelle sconcertanti vicende dove è impossibile riconoscere la mobile linea che separa il crimine dalla follia. La tolleranza è un modo per accogliere l'invito di Salvatore Quasimodo dove dice: "Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue / salite dalla terra, dimenticate i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore" (190).

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Tra medicina e diritto ci sono molte affinità, a cominciare dalla nozione di agente morboso, in medicina, e di agente criminale, in diritto penale. Tutte fanno capo alla nozione di causa, che è agente in medicina, ed è movente nel diritto. Non a caso uno degli ultimi esami a coronamento del corso di laurea è quello di medicina legale. L'artista lo sa meglio dell'uomo di cultura. Nel "Malato immaginario" Molière fa entrare in scena il medico con un calepino, che sul recto è un ricettario, e sul verso un vademecum delle leggi penali. Il medico è penalmente perseguibile se non riconosce la causa, per esempio sbaglia diagnosi, oppure se applica la controcausa sbagliata, cioè la terapia erronea.


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