Il cinema italiano e’ vivo.
Sono nelle sale — non particolarmente acclamati dai critici — due film diversi tra loro ma che hanno in comune l’intensita’, la purezza delle immagini e il desiderio di continuare ad esplorare l’universo dei sentimenti, cosi’ per come realmente le persone li vivono.
Pupi Avati ritrova, in "Il cuore altrove" , la sua migliore vena poetica che unisce l’interesse per i perdenti, la nostalgia di epoche passate, e lo sguardo ingenuo dell’uomo puro di fronte all’amore.
E’ la storia di Nello, timido insegnante di greco al liceo, che vince un posto a Bologna dove si trasferisce, su spinta anche della famiglia (sarti del papa) che vuole finalmente vederlo sposato. Diversamente dagli estroversi e romaneschi genitori, Nello e’ pero’ destinato a collocarsi sempre fuori dal coro, diverso da tutti, con una sensibilita’ sua propria che lo accomuna piu’ ai tragici greci che al mondo moderno (siamo nei primi del Novecento), dunque completamente all’oscuro dell’universo femminile e delle strategie amorose. Questa sconfinata ingenuita’, e la bonta’ che ne consegue, lo porta ad innamorarsi della donna sbagliata, la bellissima ragazza diventata cieca a seguito di un incidente, che si appoggia a lui durante il periodo della malattia, per poi abbandonarlo una volta guarita.
Benche’ messo in guardia da tutti circa il cinismo della donna e i suoi disinvolti trascorsi, il nostro insegnante non sente ragione e getta la sua esistenza, tutta intera, nelle braccia dell’amour fou.
Da corollario alla vicenda, un insieme di personaggi e sfumature divertenti e cariche di umanita’ (lo zio omosessuale, il compagno di camera della pensione, i genitori…), personaggi sempre in bilico tra il bene e il male, affettuosi ma incapaci di capire l’animo cosi’ diverso del professore. Gli allievi lo amano e lo sostengono, ma trascinato nella passione amorosa lui non riesce piu’ neanche ad insegnare, totalmente incapace di dominare emozioni cosi’ a lungo tenute a bada e che ora lo travolgono come un fiume in piena.
Benche’ la vicenda sia amara (al bene e alla purezza sembra vincere il male e l’indifferenza), il film e’ leggero e triste, ma non drammatico. Questo e’ il suo merito, a mio parere: quello di avere percorso la vicenda umana dell’umiliazione e della disillusione senza tingere un dramma, ma tratteggiandola come ad acquarello, immagine sfocata dai colori tenui e spenti, mai tragici.
L’ultima scena e’ il tocco di classe del film. Dopo molto tempo, ormai tornato a fare il giovane di bottega in famiglia, Nello reincontra casualmente l’ex fidanzata al Vaticano, ora bellissima e superba sposa del medico che l’ha operata ridandole la vista. Rimane turbato ed incantato, e le recita una poesia latina per farsi riconoscere (lei non aveva mai visto, in quanto cieca); la donna ha solo un fugace sussulto e subito se ne va, ma la reazione di Nello, anziche’ di dolore, si trasforma in un canto gioioso, unito al coro ma di nuovo fuori dal coro , accodato ai chierichetti che cantano salmi ecclesiastici.
Al dolore dell’umiliazione e della sconfitta, Pupi Avati sostituisce la gioia ebete dell’innamorato respinto e dimenticato che e’ pur tuttavia felice di incontrare la sua amata, pur sapendo di avere avuto accesso al mondo dell’amore solo finche’ lei era al buio, e poteva non vederlo. Crudelissima metafora sulla possibilita’ che l’amore continui ad esistere, quando veniamo veramente visti per quello che siamo, e non per quello che vorrebbe la nostra immaginazione.
Drammatico, invece, e’ "La felicita’ non costa niente" di Calopresti.
Qui non ci sono concessioni alla poesia, ne’ indugi alla nostalgia intesa nel senso poetico e lieve del film di Pupi Avati. Siamo qui piu’ vicini, piuttosto, al filone degli ultimi film francesi ad impronta sociale, come i fratelli Dardenne, o sentimental-sociale come in "I due amori di Marie Jo".
Questa e’ la storia di una violenta crisi esistenziale, quella che colpisce un brillante architetto dai pochi scrupoli nel pieno del successo, marito distratto da ogni occasione amorosa, che vive in mezzo ad amici come lui, la borghesia del nostro tempo. Ma la sua vita cambia quando un operaio del cantiere che dirige muore in un incidente sul lavoro, a causa della disinvoltura e dell’illecito con cui l’architetto ha trascurato le norme sulla sicurezza. Il fantasma dell’uomo comincia cosi’ a perseguitarlo (fantasma a cui Calopresti da’ il volto scarno e partenopeo del cantante degli Avion Travel) e diviene fattore scatenante — ma solo scatenante — di una globale crisi esistenziale che covava sotto il benessere ("sono annoiato"), di una sorta di resa dei conti e di faccia a faccia con la propria coscienza.
L’urto tra il soggetto e la sua stessa coscienza e’ qui ancora piu’ drammatico, trattandosi di persona che era stata, fino ad allora, lontana da ogni consapevolezza del male che produceva ad altri. Il senso di colpa e’ cosi’ attuale, nella vicenda, che ci sembra di toccarlo con il nostro sguardo di spettatori. L’essere umano perseguitato dalla colpa, sappiamo, non puo’ piu’ vivere, deve espiare (l’architetto ha un grave incidente d’auto da cui si snoda tutto il cambiamento).
L’uomo che ritroviamo via via che il film si dipana e’ un uomo in disfacimento da un lato (perde il lavoro, lascia la moglie e gli amici, e’ lasciato persino dalla governante), ma dall’altro tenta un disperato ritrovamento di Se’. Questo e’ soprattutto focalizzato nell’incontro con un’altra disperazione, quella di una donna che tenta il suicidio — Francesca Neri, sempre diafana e dolente -, gia’ intravista in una clinica psichiatrica, e che sembra fornire per un po’ l’illusione di un amore vero. Ma anche questo finisce; l’angelo della notte, incontrata su un ponte come per miracolo, lo lascia improvvisamente per tornare alla sua realta’, una realta’ coniugale tradizionale che la follia di tanto in tanto manomette e nasconde.
Come nel film di Pupi Avati, il protagonista e’ sincero, e’ in cerca della verita’; ma la drammaticita’ sta nel fatto che qui, invece, tutti mentono. Gli uomini mentono alle mogli per banali tradimenti, la donna che voleva morire mente a lui per follia, tutti mentono a tutti nel gioco della finzione che diventa la vita di tutti i giorni. Nella ribellione, l’architetto resta solo.
Alcuni, come il Manifesto, hanno dato particolare peso alla lettura sociologica del film (il padrone che diventa operaio, la crisi della sicurezza sul lavoro…) e io credo che questo sfondo sia essenziale, pur restando, appunto, uno sfondo. Lo sfondo di una societa’ che stritola i suoi uomini, in cambio di denaro e potere. La felicita’, invece, di per se’ non costa niente.
Il film di Calopresti non e’ un film perfetto: un po’ troppo verboso l’Io narrante, ambiguo il finale.
Quello di Pupi Avati e’ armonioso come una poesia.
Entrambi sono tristi e veri.
Qualcuno ha parlato, a proposito del nuovo cinema italiano, di neo-neorealismo: un modo di fare cinema, cioe’, che guarda solo alla realta’, come nella migliore stagione del nostro cinema.
E la realta’ , si sa,non regala niente.
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