"Il suo mestiere non è in fondo tanto diverso dal mio, ci occupiamo entrambi di quello che si dichiara e di quello che si nasconde."
Con queste parole, rivolte da uno psicanalista ad un esperto di imposte dirette, si inaugura uno dei più originali confronti professionali in celluloide.
Costruito intorno a questa piccola/grande idea, questo lavoro, di Patrice Leconte, potrebbe entrare a tutto diritto nelle videoteche didattiche e negli eventi formativi di qualsiasi psicoterapeuta (di qualunque orientamento). Il garbo con cui mette in scena una serie di elementi, luoghi comuni e verità, rispetto alle terapie psicologiche, credo sia il suo maggior pregio. La sceneggiatura, direi tipicamente "francese", dove si parla molto ma accadono poche cose, appare tuttavia secondo me consona al tema (o meglio ai temi) che vuol affrontare.
Che cosa spinge qualcuno a raccontare o raccontarsi? Che cosa spinge qualcun altro ad ascoltare e ad ascoltarsi?. Ma forse, la vera e più provocante domanda che questo lungometraggio ci pone è la seguente: quanto è rilevante la natura, anche professionale, della relazione che si viene a strutturare tra due interlocutori di cui uno, chiede (almeno apparentemente) all’altro aiuto e l’altro offre (almeno apparentemente) questo aiuto?
Ci voleva forse la semplice genialità cinematografica di questo autore, che fa entrare per sbaglio una confusa paziente al suo primo appuntamento con l’analista, nello studio adiacente del fiscalista (per poi continuare ad andarci), per dichiarare pubblicamente quello che molta "psicologia popolare" presume. Non è poi così importante a chi si narra qualcosa ma – forse – il fatto di narrarlo in sé.
Pur senza incorrere in ipersemplificanti generalizzazioni sulla "relazione terapeutica", credo si debba riconoscere che questo film ci suggerisce, in modo divertente, di tenere sempre in mente delle domande sull’argomento. Mai definitivamente risolto.
Del resto il personaggio dello psicanalista reale introdotto dal regista ha, nei confronti del suo "collega" per caso, un atteggiamento tuttaltro che squalificante e denigratorio. Prende invece molto sul serio la posizione in cui si è venuto a trovare – grazie ad un incidente – il consulente fiscale, al punto da introdurlo con sapiente leggerezza nella cultura di una sorta di supervisione, regole di setting comprese. Pagamento in primis.
In effetti, che la capacità e la possibilità di narrare, in sé, sia considerata un elemento portante e costitutivo delle funzioni mentali non è certo una novità. L’autorevole Jerome Bruner, in un suo saggio, citando John Austin, scrive che apprendere un linguaggio significa apprendere "come fare delle cose con le parole". Ancora, parlando delle scoperte linguistiche e narrative dei nostri piccoli egli considera che: "il bambino non impara semplicemente che cosa dire ma anche come, dove, a chi e in quali circostanze."
Se vogliamo tutto il film è un giocare, in modo intelligente ed ironico, intorno a questa decisiva funzione emotivo-relazionale legata al comunicare ed al raccontare – in situazioni – che il professore di psicologia della N.Y. University ha così ben sintetizzato.
Dunque, il trovarsi più o meno casualmente fuori contesto non toglie nulla alla questione comunicativa. Anzi, semmai, vi aggiunge qualcosa.
Certamente il film, soprattutto all’inizio, ha l’andamento della commedia degli equivoci. Le inquadrature indugiano su un sofà nello studio del fiscalista, la telefonata con il collega, uno studio sobrio, mobili austeri, poca luce. Una rivista, coperta per metà, dove una soggettiva ci fa leggere il titolo "analisi", in realtà, nell’altra e occultata metà, leggeremo poi, "finanziaria".
Ma si capisce quasi subito che non è questo, propriamente, il genere in cui il regista francese ci stà invitando.
L’impressione è invece che questo "equivoco" sia un pretesto per parlare d’altro. Per esempio di chi stia veramente aiutando chi, quando una persona, a suo modo, chiede aiuto psicologico ad un altra. Il tema è trattato con grazia. C’è un incontro tra la presunta paziente con un vero paziente, quest’ultimo le chiede, sapendo che va nello studio del "collega" della porta accanto: "lei perchè va da uno psichiatra?" la protagonista risponde acutamente "è lui che ha bisogno di me, sono la sua unica paziente".
In effetti, che lo psicanalista-fiscalista, interpretato da un bravo e credibile Fabrice Luchini, fosse forse più bisognoso di una relazione terapeutica della sua "paziente", appare, dopo poche sequenze, piuttosto evidente. Si ritrova in questo modo rappresentato un altro classico del comune sentire. Talvolta i bisogni del terapeuta sono eguali se non maggiori del suo cliente e quest’ultimo, se ne rende anche benevolmente conto.
Il film, pur nella cornice della commedia, anche se a tratti ispirato da temi più esistenziali, non concede comunque mai nulla a toni macchiettistici. E’ questa caratteristica, a mio avviso, che rende possibile, divertendosi, anche una riflessione sul tema della conversazione terapeutica. Sulla reale o presunta a-simmetria tra i dialoganti, sul bisogno, di cui entrambi si nutrono, di costruire nuovi significati attraverso lanarrazione e la relazione con l’altro.
Anche sulla difficile ed un pò nevrotica posizione del terapeuta il lavoro di Leconte riesce, con semplicità, a dire qualcosa.
Si comincia con la divertente vignetta in cui il provetto fiscalista-psicanalista, spaventato dall’incontro di quella "particolare" cliente, cerca il vero psichiatra-psicanalista. Entra nel suo studio e, un pò goffamente, non sa dove sedersi. Lo psicoterapeuta titolato, dopo una soggettiva sul classico lettino, suggerirà ad un imbarazzato Fabrice Luchini: "un faccia a faccia basterà per la prima seduta". Quello che osserviamo, seppur con tutta la libertà d’autore, è l’immagine di un uomo che fa una scoperta: mettersi nella posizione di terapeuta ci costringe ad incontrare subito le nostri parti più nevrotiche e problematiche. A finire nella poltrona del "paziente". Del resto il simpatico e saggio analista trova vari modi per ricordare questo centrale concetto al suo "apprendista stregone". "Lei fa dei nodi perfetti alla cravatta ma si ricordi che non ha tutto sotto controllo". Con questa severa sintesi, sul suo abbigliamento, lo "psicanalista per caso" viene rapidamente introdotto ad un paio di informazioni chiave che lo riguardano. Il tratto ossessivo del suo carattere. L’imprevedibilità e la non governabilità dei movimenti inconsci.
Riguardo invece al fascino, alla curiosità ma anche ai rischi, della "relazione terapeutica", ancora, l’esperto psicanalista, potrà dire
ad un sempre più spaventato e preoccuapato "allievo" (che insieme teme e desidera quella particolare relazione):
"questa storia finirà quando deve finire" per poi aggiungere, con sguardo e tono di chi ben conosce quello stato d’animo per averlo provato cento volte prima di lui: "questa porta semiaperta sul mistero femminino è difficile da richiudere eh?!".
Ed anche i tempi della terapia, insieme al transfert e controtransfert, trovano un loro posto concettuale nel nostro "collega".
Emozioni, controemozioni, triangoli affettivi, acting out, la gelosia che non raramente i partner dei pazienti in terapia individuale finiscono per provare verso il terapeuta (un pò disattento) che si occupa del loro coniuge non mancano. Vengono tutte messe in scena. Tutte, peraltro, sotto lo sguardo di una severa, ma in fondo benevola, segretaria-mamma. Del resto, l’anziana collaboratrice del fiscalista, appare testimone delle turbolenze che, non di rado, le terapie riuscite mettono un po’ in moto.
Più avanti nella trama, quando ormai la relazione tra i due protagonisti principali ha avuto un suo scioglimento, lo psicanalista-fiscalista decide di andarsene, di cambiare studio. Cambiamento non irrilevante se si considera che la casa-studio di Fabrice Luchini, rappresenta tutto il passato ed il peso della sua famiglia di origine. Compresa l’anziana segretaria collegata generazionalmente (e forse anche sentimentalmente) alla vita ed alla storia del padre del "fiscalista", fiscalista a sua volta.
Durante questo cambiamento, è ancora lo psichiatra dello studio accanto a dispensare un pò di pillole di saggezza al fiscalista-analista. Incrociandolo nel corridoio affaccendato, con le mani tra i cartoni, offrirà all’allievo, ormai evidentemene in via di "guarigione", queste parole: "è lo scopo della terapia, tagliare il cordone. Traslocare."
L’inquadratura finale del film è una ripresa dall’alto. L’occhio dello spettatore è posto sul soffitto della stanza. Si può osservare tutto il nuovo e più solare studio del protagonista. I due attori della "relazione terapeutica" si ritrovano dopo essersi separati. Entrambi, si immagina, più autonomi.
La conversazione ricomincia, ma qualcosa è cambiato. Entrambi sembrano più rilassati. Più liberi.
Come ho scritto all’inizio, chi forma i futuri psicoterapeuti, potrebbe utilizzare questa pellicola. Ancora una volta il cinema si presenta come un arte ed un linguaggio che ci permette di parlare, in modo divertente e leggero, di temi importanti e complessi. Talvolta, persino in modo più immediato, convincente e financo divertente, di tanta psicoSaggistica con la "S" maiuscola.
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