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“Verso il sud” di Laurent Cantet

8 Feb 13

A cura di Rossella-Valdre

Tratto da tre racconti di Dany Laferrere ("Vers le Sud"), scrittore haitiano emigrato in Canada, l’ultimo film di Laurent Cantet va segnalato per la sua complessita’ e la ricchezza di spunti che offre alla nostra riflessione.

Cantet non tradisce la sua propensione per il cinema impegnato in tematiche sociali (lo ricordiamo per le precedenti pellicole sul mondo del lavoro francese "Risorse umane""A tempo pieno"), perche’ "Verso il Sud" e’ solo apparentemente, o solo parzialmente, un film sul cosiddetto turismo sessuale, in questo caso ‘alla rovescia’, ossia di donne verso uomini.

La storia e’ semplice. Tre ricche e mature signore americane (due americane e una di Montreal), trascorrono le vacanze nel paradiso delle spiagge haitiane sul finire degli anni ’70, alla ricerca di riposo, sole e della piacevole compagnia sessuale dei giovani maschi della zona. Le tre donne — Ellen, Brenda e Sue – sono accomunate dalla solitudine e dall’avanzare del tempo, da vite quotidiane magari di successo (Ellen insegna all’Universita’ di Boston) ma irrimediabilmente segnate da rapporti finiti e dalla generale difficolta’, per una donna non piu’ giovane, ad incontrare un nuovo amore; ma aldila’ di questo fondo comune, si tratta di tre donne diverse che portano nella vacanza diverse aspettative. Sue, la piu’ equilibrata, sembra aver trovato una specie di rassicurante routine con un pescatore che ritrova ad ogni estate; Brenda, inquieta e alla disperata ricerca d’amore, con un matrimonio malamente finito alle spalle, si innamora e spera di essere ricambiata dal giovane Legba, il piu’ bello e sensuale della spiaggia che presta i suoi servigi anche alla piu’ cinica Ellen (magnifica Charlotte Rampling), sofisticata signora bostoniana che spera di indurre il ragazzo a legarsi a lei attraverso denaro, facilitazioni per ottenere il passaporto e ogni genere di bene, ma senza riuscirvi.

Appare chiaro che il termine ‘turismo sessuale’, col quale le critiche hanno un po’ genericamente definito il tipo di vicenda che interessa questo film, appare qui riduttivo e, a nostro avviso, fuorviante. Le tre donne non vanno alla ricerca di sesso, ma attraverso il sesso cercano calore umano, tenerezza, coccole, dimenticanza del senso del tempo e quel tipo di attenzioni che gli uomini dei loro Paesi non sembrano piu’ disposti a dare, intrappolati come sono nelle briglie del narcisismo e attirati unicamente dalle ragazze giovani, secondo gli stessi meccanismi di cui sono vittime anche le nostre protagoniste.

Garbatissimo e sobrio nelle immagini, da regista sociale quale e’ Cantet, il film non indugia in alcuna scena di sesso ne’ mostra corpi denudati, se non un’unica immagine del giovane Legba, che ben lungi dall’essere un corpo sessuato diventa icona pasoliniana di un mondo dove solo la bellezza del corpo sopravvive alla poverta’ e alla tirannide. Intrecciata alla vicenda sensuale, c’e’ infatti sullo sfondo la tragedia di Haiti sul finire degli anni ’70, durante i quali il popolo viveva sotto il regime terroristico del tiranno Duvalier, figlio del dittatore criminale Papa Doc.

Siamo in un finto paradiso esotico: i giovani, e le giovani come si vede all’inizio, si prostituiscono perche’ immensamente poveri, agli stessi abitanti come Legba non e’ consentito di sedere al tavolo dell’albergo dove alloggiano le turiste ("a cui non succede mai nulla", come dira’ il poliziotto), e chiunque puo’ essere ucciso per strada la notte, su ordine del tiranno, senza che la Polizia compia regolari indagini.

Sara’ questo il destino di Legba e di una sua amica, costretta a fare l’amante del tiranno ma che commette l’imprudenza di farsi vedere in giro con l’amico Legba, a cui chiede solo conforto. La vera vita di Legba, e di quelli come lui, e’ sconosciuta alle turiste, potremmo dire volutamente sconosciuta: esse cercano nell’isola la totale e avulsa separatezza dal resto del mondo, dai loro ricordi e dalle loro pene, sono generose con Legba e nient’altro vogliono, seppur con diverse sfumature tra Ellen e Brenda, che tenerlo li’ con loro, o portarlo nelle loro case eternamente protetto ed eternamente a disposizione ("vieni via con me, non devi fare niente, solo goderti la vita" dira’ Ellen a Legba quasi perdendo la testa quando teme lui non la voglia piu’). Pur percependo e sapendo cosa avviene ad Haiti, le signore scartano dalle loro menti ogni consapevolezza che guasti, che deturpi il sogno scissionale di avere a che fare solo con un pezzo di Legba, il bel diciottenne capace di farle godere, di farle sentire in qualche modo di nuovo amate, di nuovo importanti e di poter esercitare un potere ed un controllo attraverso l’uso della ricchezza.

Rifiutando il passaporto, per una confusa ma tuttavia presente dignita’ di se’ presente in lui, Legba rifiuta di salvarsi la vita, ma cosi’ facendo in qualche modo preserva il suo ‘essere nel mondo’ come soggetto e non solo come oggetto del desiderio di un altro. Concentrate unicamente, quasi autisticamente sulla natura della vicenda amorosa, Ellen e Brenda non sembrano comprendere perche’ Legba sia stato ucciso, non sembrano capaci di soffermarsi sullo scenario storico complessivo di cui sono parte.

Sta in questo isolamento difensivo (se ragioniamo con le nostre categorie psicologiche), o in questo riproporsi dell’atteggiamento di sfruttamento coloniale del ricco Nord verso il povero Sud (se usiamo invece categorie diverse), sta qui a nostro avviso il tratto piu’ significativo e piu’ riuscito del film.

Siamo colpevoli, sembra dire il narratore (che e’ in parte personificato nel triste Albert, il padrone dell’hotel) non di rubare un po’ d’amore da chi ce lo puo’ dare, siamo colpevoli della nostra voluta inconsapevolezza, del nostro bisogno di crearci paradisi laddove c’e’ l’inferno, dell’uso imperituro dello sfruttamento del forte sul debole mascherato in sempre nuove forme ("ci hanno invasi con i dollari", dice il nonno di Albert).

Lo stesso regista ha sottolineato come non volesse stigmatizzare il turismo sessuale, ma mettere in luce l’intreccio tra politica, potere e sesso, dove il commercio del corpo diventa ‘formidabile strumento di potere politico, economico, sociale’.

Potremmo soffermarci su un altro aspetto ancora, quello della vicenda al ‘femminile’. Ha senso il fatto che le protagoniste siano donne, designa una differenza? E’ vero, come sembra dire il film, che quando e’ la donna a cercare amore a pagamento c’e’ comunque una forte ricerca di relazione, che il sesso e’ un mezzo e non un fine, che per la donna resta difficile separare l’atto fisico in se’ dall’amore? Sono luoghi comuni culturali, o il ricorso a termini quali turismo sessuale o prostituzione, presi a prestiti dal vocabolario creato dagli uomini, mal si adattano alla complessita’ dell’universo femminile in questo campo?

Il genere e’ qui elemento portante alla poetica della vicenda, oppure no?

Francoise Sagan, citata da Ellen, diceva che, da vecchia, si sarebbe procurata amore a pagamento pur di procurarsi amore, perche’ "di tutte le cose l’amore e’ la piu’ dolce, la piu’ viva, la piu’ sensata. Non mi importa quale sia il prezzo". Ma quale ‘amore’ e’ questo, per il quale si sarebbe disposte a pagare "non importa che prezzo"? Non e’ forse qualcosa che assomiglia a quella ‘droga’ che Oriana Fallaci identifica come simulacro di qualche cos’altro che, quando alla donna manca, le viene fatto credere essere l’amore?

Non abbiamo risposte, ne’ il film riesce a fornirle, restando tutto sommato un film relativamente insaturo, e forse un po’ incompleto. La storia si chiude con la bella faccia furiosa e dolente di Charlotte Rampling, un’attrice che e’ sempre un piacere ritrovare, una delle poche che si e’ concessa di invecchiare senza patetiche mascherate. Anche la tirannide del tempo nella società consumistica e’ un altro tema del film: il tempo e’ un tiranno a cui tendiamo a assoggettarci solo nel mondo ricco, poiche’ nel mondo povero di invecchiare non si ha la possibilita’, come per Legba e la sua amica. Prima della morte fisica del ragazzo, pero’, occorre dire che una certa atmosfera di morte e’ presente in questa enclave che vive tra la spiaggia e l’hotel fin dall’inizio; difficile a definirsi, quel senso di amore e morte che ci ricorda, filmicamente, la ‘Morte a Venezia’ di Visconti, dove di nuovo all’erotismo si attribuisce il potere illusorio, e quindi fallace, di neutralizzare la morte.

Concludendo, "Verso il Sud" e’ uno di quei film, di quelle storie che mi piace immaginare, personalmente, sotto l’occhio critico e poetico di Pier Paolo Pasolini…che cosa ne avrebbe fatto?

Sul "buon selvaggio", cosi’ scriveva nel 1970:

"Noi borghesi abbiamo sempre saputo benissimo ‘che cosa fare’ col ‘buon selvaggio’. Prima ne abbiamo negato l’esistenza, deridendo l’inventore della formula. (….) In seguito, dal momento in cui non e’ stato piu’ possibile sostenere la rimozione, abbiamo adottato due misure: da una parte l’integrazione reciproca tra la cultura per eccellenza (la nostra) e la cultura (ammessa) del ‘buon selvaggio’; dall’altra parte il riconoscimento oggettivo di quest’ultima cultura come un ‘insieme’ esaustivo una volta per sempre della totalita’, in struttura immodificabili (….).

La dignita’ umana e’ per noi borghesi la dignita’ virile; anche la donna, nella sua volonta’ di emancipazione, ha, per coazione, come scopo quello di fruire per diritto e mimesi della dignita’ virile (cosi’ come un negro americano lotta per essere simile a un executive bianco). Questa identificazione della dignita’ umana con la dignita’ virile e’ il fondamento del razzismo. E altrove, in un’intervista:

"Il Terzo Mondo, che conosco bene per avere visitato l’India, il Medio Oriente, i paesi arabi e l’Africa, mi pare avviarsi con la massima rapidita’ verso il neocapitalismo". Siamo nel 1970.

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