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di Francesco Bollorino

La valle dei transfert dispersi - Contributo di Antonello Correale

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28 maggio, 2018 - 12:18
di Francesco Bollorino

NDR: OSPITIAMO UN CONTRIBUTO DELL'AMICO E COLLEGA ANTONELLO CORREALE CON LA SPERANZA CHE APRA UN DIBATTITO TRA I LETTORI

di Antonello Correale

 

Caro Bollorino,

ho pensato di scriverti questa lettera, nella speranza, se lo riterrai opportuno, che tu possa renderla disponibile per i lettori di POL.IT. In essa sono contenuti alcuni miei pensieri sul lavoro nei Servizi pubblici di Salute Mentale, che spero possano aiutare il dibattito e la riflessione sul futuro possibile di questi servizi.

Il tema che mi sta più a cuore riguarda il rapporto personale tra curante e paziente. La mia impressione è che questo rapporto — che dovrebbe essere caratterizzato da una forte specificità, legata al fatto che il paziente riconosca in quel rapporto con una certa particolare persona — con quel nome, quella faccia, quelle caratteristiche psichiche e somatiche — qualcosa di specifico e fondamentale, non sia sufficientemente al centro dell’attenzione.

I rapporti del paziente cogli altri curanti e del curante coi colleghi, dovrebbero tenere conto che nel piccolo gruppo di cura impegnato nella terapia, ad esempio un medico, uno psicologo, un’assistente sociale, un infermiere — esiste un rapporto speciale, intimo, tra uno di loro e il paziente e articolare il lavoro, tenendo conto di questo fatto fondamentale.

Succede invece che l’ipertrofia del concetto di rete possa comportare un potente spostamento di attenzione dal rapporto personale al servizio nel suo complesso, e che i nodi della rete, spesso mal collegati tra loro, possano assumere un carattere neutrale e disaffettivizzato, così che l’intera terapia si sposti su un piano di anonimato. Ne può derivare che molti interventi — fatti peraltro spesso con impegno e dispendio di tempo — avvengano per così dire senza un contenitore umano, ma solo con un contenitore "istituzionale", che, in assenza del contenitore umano — può diventare algido e facilmente preda di meccanismi difensivi o comunque iperagiti.

Potrei formulare così la mia domanda: che fine fa il transfert nelle istituzioni psichiatriche? E se il transfert fa una qualche fine, in che cosa si trasforma? Non può accadere che le istituzioni diventino dei luoghi troppo ampi, in cui si aggirano, in forma degradata, dei transfert irrisolti, diventati fantasmi persecutori e depressivi?

Vorrei proporti quindi un breve contributo su questo punto, cui vorrei dare un titolo, che riconosco forse come esageratamente pittoresco, ma che mi piace, perché rende l’idea di ciò che voglio dire, anche se in forma un po’ troppo "romantica".

Vorrei chiamare questo breve contributo:

 

La valle dei transfert dispersi

Come tutti sanno, il concetto di transfert nasce colla psicoanalisi, ma interessa un insieme di fenomeni, che vanno molto oltre il puro e semplice ambito dell’incontro psicoanalitico.

Tradizionalmente, si intende per transfert appunto il trasferimento sulla figura del curante dell’immagine interiore di figure significative della storia del paziente.

Ma accanto a questo significato originario, se ne è andato sempre più aggiungendo un altro. Il transfert viene sempre più concepito come una potente mobilitazione di fantasie, energie, e pensieri messi in atto dall’incontro di una persona sofferente con un’altra, che si ritiene competente per alleviare e rendere più "umana" quella sofferenza.

Nel transfert, quindi, come diceva Freud e, come successivamente hanno ripreso con grande vigore altri, come Winnicott e Lacan, si mobilita un desiderio, una forza, una speranza, una spinta, una pulsione, insomma qualcosa che investe il curante e che attiva in entrambi i membri dell’incontro paure, speranze, desideri, sospetti, rabbia, erotizzazione. Ma, più di tutto, speranze e paure.

Sono attrezzati i servizi a ricevere questa mobilitazione di affetti e di idee? Io ho l’impressione che non sempre lo siano, per due motivi principali.

Il primo motivo concerne un’attitudine riduzionistica. In questo caso, il curante vive il transfert come un impulso vorace e avido, come un’ansia di impossessamento e mobilita difese dirette a limitare e circoscrivere quanto accade. Ma se è giusto cercare un contenimento possibile nella realtà dell’incontro, non è invece auspicabile che questo "contenimento" diventi una riduzione, una banalizzazione di ciò che prove il paziente, come se si volesse esorcizzare una fata o una strega, dicendo che è una normale ragazza come tutte le altre. Il curante deve essere molto attento a controllare gli effetti pericolosi del transfert — invidia, competizione, erotizzazione indebita, aggressività maligna — ma spesso, per fare ciò, butta via, come si dice, il bambino coll’acqua sporca e l’incontro corre il rischio di banalizzarsi e di appiattirsi.

Il secondo concerne invece una specie di ipertrofia di concetto di setting. Dobbiamo tutti essere grati a coloro che portarono la psicoterapia nei servizi. Questi operatori valorizzano il rapporto e sono così di esempio a tutti gli altri operatori, anche non psicoterapeuti.

Ma passa talvolta l’idea che non ci sia transfert senza setting e che solo il setting possa permettere di attivare e valorizzare un transfert.

Il transfert, al contrario, va molto oltre il setting e, d’altro canto, il setting non è il solo modo per affrontare e lavorarci. Usare il setting in modo eccessivo, come unico strumento di lavoro per lo studio del rapporto, può portare a un uso difensivo del setting stesso, e, in certi casi, controllante e distanziante.

È doveroso aggiungere che nei servizi, molti operatori, fanno un buon uso del transfert, sia dentro che fuori delle psicoterapie, ma questo non toglie che il pericolo che ho indicato sia molto presente.

D’altra parte, alcune categorie professionali - assistenti sociali e infermieri ad esempio — fanno spesso un uso del rapporto, diretto, "umano", per così dire "naturale", come se implicitamente, ci credessero di più e ci facessero un maggiore affidamento. Non sottovaluto i pericoli di questa modalità, ma penso che dobbiamo indirizzare nel miglior modo possibile questo atteggiamento di base per renderlo sempre di più limpido e consapevole e non all’oscuro delle sue componenti di potenziale rischiosità.

Che fine fanno, dunque, questi transfert, partiti e mai arrivati, questi messaggi che nascono nell’incontro e finiscono in uno spazio troppo ampio e dilatato? Il gruppo dei curanti ha la compattezza e la pazienza di contenerli come gruppo o le differenze individuali, le specializzazioni, l’accentuarsi delle funzioni specifiche, gli incarichi troppo individualizzati, minano l’integrità del gruppo, ridotto a pura somma di funzioni?

La recente tendenza a ipervalorizzare gli incarichi specifici e i ruoli professionali distinti, determina spesso una forte limitazione dello spazio di accoglimento, non solo materiale ma psichico, del paziente, colla conseguenza che la dimensione transferale di cui stiamo parlando, tende a passare in sottofondo e a venire proiettata all’esterno. Insomma, la settorializzazione dei compiti tende ad essere inversamente proporzionale alla valorizzazione del transfert.

Ecco perché il servizio diventa la valle dei transfert dispersi. L’investimento partito e mai arrivato sembra aggirarsi per il gruppo dei curanti come il famoso personaggio in cerca di autore o come un sentimento e un impulso che non trova un luogo in cui albergare. E il gruppo, come dicevo all’inizio, troppo preso dall’espletare la sua "somma" di funzioni, spesso in un clima di competizione, sospetto e invidia, non riesce sempre a costituire un luogo di accoglimento, né può riuscirci, se non c’è un contenitore "umano" che faccia da tramite tra paziente ed équipe.

Il transfert disperso può diventare così un transfert esplosivo: acting, fughe, resistenze alla terapia, invadenze, criminalizzazioni, rabbie, esasperazioni, litigi, esagerazioni, stanchezze.

Il transfert disperso, infatti, tende ad attivare nel gruppo un assunto di base, spesso di attacco-fuga, impregnato di angosce paranoiche, suddivise tra paziente e colleghi, talvolta di accoppiamento, in cui il gruppo si ritira in un aristocratico, idealizzante rapporto con se stesso, passando troppaparte del suo tempo a pensare alla propria organizzazione, piuttosto che al rapporto coi pazienti.

È possibile evitare tutto questo? Credo che solo una formazione diretta a cogliere tutta la complessità e la ricchezza del fenomeno del transfert, a tutti i livelli professionali e in tutte le pieghe dell’attività istituzionale, possa ovviare a questo rischio. E una leadership capace di dare l’esempio di questo interesse, che si applichi in prima persona all’esperienza di questa parte così essenziale del nostro lavoro e non si limiti a una ben funzionante organizzazione manageriale.

Soltanto un leader che non sia soltanto manager, ma che mostra con i suoi atti la fiducia in questa dimensione, che "si sporchi", insomma, "le mani" coi pazienti, può favorire una formazione adeguata in questo senso.

Perché la "ben funzionante organizzazione manageriale", se non prende in considerazione i fenomeni transferali, rischia di diventare una incontrollabile produttrice di fantasmi.

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Commenti

E' da tempo che rifletto sui temi che qui porta l'amico Correale. Essendo di una generazione successiva alla sua, ed avendo trascorso come lui la maggior parte della mia carriera professionale nei servizi, penso che, per la psichiatria, la questione sollevata sia sempre più attuale e sempre più critica. Ospedali per intensità di cura, percorsi, processi di cura basati su protocolli e procedure sono ormai i requisiti del fare anche in psichiatria; la salute mentale è equiparata ad una macchina che deve essere efficace ed efficiente, vale a dire ispirata a criteri di qualità e sicurezza che si identificano con il rispetto delle linee guida. Che cosa ci sia all'interno di questa sorta di macchinario complesso all'interno dei quali i pazienti si muovono secondo flussi preordinati (e spesso burocraticamente preordìnati) non se lo chiede nessuno. Poco importa chi "governa questi processi", la valutazione aziendale è data solo sull'adeguatezza e appropriatezza dei processi. Che si produca salute, come si dice, viene valutato come la produzione di chiodi o di biscotti.
Dove stanno in questa nuova e obbligata organizzazioe dei servizi il rapporto col paziente, la dipendenza e interdipendenza, il transfert e il contro transfert? E' possibile fare una psichiatria totalmente medicalizzata, deprivata delle variabili soggettive del rapporto, senza l'intimità delle comunicazione, senza il monitoraggio delle emozioni che passano tra medico e paziente?
La questione assume toni paradossali se si pensa che in ultima analisi la variabile più permanente in un processo di cura è proprio il rapporto col paziente che, in molti casi, a frequenze variabili, coincide con la durata della permanenza del medico nel servizio; cambiano le terapie farmacologiche, cambiano i setting di cura, cambia la patologia stessa, nel lungo periodo della cura; non cambia invece la relazione, con le conoscenze che consente di accumulare e, con esse, il saper fare e il saper interagire con quel determinato paziente. E' vero, le variabili soggettive, la dipendenza e il transfert, posso avere effetti collaterali fastidiosi, soprattutto per il medico direi, e essere a rischio di vari abusi; ma questo sta nella capacità e nella professionalità del medico saperli gestire, magari con un confronto di equipe, di quelli che si usavano una volta, e che ora sono scomparsi nell'assegnazione delle specificità funzionali dei medici.
Dopo diversi decenni di pratica e di riflessione, io penso che gran parte dell psichiatria consista nei rapporti coi malati, nel saper discernere le loro dinamiche transferali (e ovvimente le nostre controtransferali), modulare le spinte regressive e simbiotiche, le fantasie onnipotenti, nel saper frustrare gli impulsi narcisistici, le derive rivendicative, i ribaltamenti di potere, tutte cose umane molto umane, di cui principalmente i rapporti umani si compongono.
Tutto torna nel mondo e anche in psichiatira; è solo questione di tempo vedere che le magnificenze organizzative della salute mentale non sono sufficienti per la cura e che i pazienti, con la vis sanatrix che li anima, riusciranno sempre ad infrangere i vincoli burocratici, i vuoti emozionali, la mancanza di dialogo, e tutto quanto la medicina basata sulle evidenze non assicura, alla ricerca di una vita vera, almeno in terapia.

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Caro Antonello, in un clima di celebrazioni per il Quarantennale del trionfo della moderna Salute Mentale sull'Alienistica tardo ottocentesca, il tuo discorso, con il garbo e l'umiltà che da sempre ti contraddistinguono, spinge dalla penombra alla luce un tema quanto mai scottante : qual è lo stato della psicoterapia, o dell'atteggiamento psicoterapeutico nei Servizi? Ovvero quali sono il tempo, lo spazio, il modo che i nostri Servizi di Salute Mentale riservano ai vissuti dei pazienti, alle loro aspettative, alla mobilitazione dei loro investimenti emozionali? Su questi ambiti più volte si è pronunciato, in maniera critica ed allarmata, Corrado Pontalti. Dove finiscono i transfert dispersi? Quanto tu dici è da mettere in relazione con il burnout degli operatori? Con il loro lungo lamento? Con la loro stanchezza, la loro rabbia, con il loro sentirsi dimenticati, lasciati senza rinforzi, sovraccaricati di un lavoro immane? Molti Servizi, partiti come avamposti creativi negli anni Ottanta del Secolo scorso, si sono trasformati in ridotte lungo la ritirata. La marea sciamata da quelle sinistre cattedrali della follia che erano i manicomi, che ha percolato lungo le mille e mille rotte del territorio, sembra oggi refluire verso le casamatte dove trovare riparo, strutture, strutture, strutture. In tutto questo che attenzione, che spazio, che tempo rimane per raccogliere, elaborare e restituire trasformati i transfert dispersi? Può uno stanco esercito che batte la ritirata, senza orgoglio,cercando di smantellare le posizioni più avanzate, muovendosi di copertura, cercando di portare la pelle a casa, questionarsi sul destino dei transfert? Con questo non intendo dire che il problema da te posto è marginale. Credo, invece, che sia cruciale, e che la tua domanda vada spietatamente allargata, come una ferita suppurata con la punta di un bisturi. Credo che tu abbia centrato un punto dolente, e che la questione vada aperta e, se mi consenti, riformulata senza mezzi termini nella seguente maniera : quanto sono terapeutici, allo stato dell'arte, i nostri Servizi di Salute Mentale? Evidentemente nel termine "terapeutici" ci sta tutta la capacità di farsene qualcosa di una relazione. Senza voler essere tecnici, ma non credo che populismo e psicoterapia vadano d'accordo. Il "siamo tutti un pò terapeuti" va bene, in quanto tutti esseri umani, ma va bene se c'è quella che tu chiami una leadership, ovvero un lavoro di consapevolizzazione che non può essere lasciato ai ritagli di tempo. Più volte, per averne parlato, ti ho trovato critico anche sull'istituto della supervisione dell'èquipe. Meno sul concetto di supervisione del caso clinico. Io sento chiaro il pericolo che tu denunci, a proposito della tecno-burocratizzazione dei Servizi, che il nostro comune maestro e amico Bruno Callieri avrebbe definito come "la lettera che uccide lo spirito", però penso che non tutti possiamo fare tutto. Oggi credo che, oltre ad una generica funzione terapeutica di base, che va continuamente rivitalizzata, l'area della psicoterapia meriti un'attenzione specifica. Non è possibile che chi tenta di tenere in piedi una dimensione terapeutica nel Servizio debba venire travolto dall'emergenza, oberato da riunioni su riunioni, costretto a trascorrere il suo tempo nel riempire schede, nel raccogliere dati. La psicoterapia nel nostri Servizi, o, meglio, l'attenzione al vissuto del paziente, mettiamola così, nei nostri Servizi, è l'anello debole che salta ad ogni tensione della catena. E' passato qualche anno da quando tu hai lasciato i Servizi, anche se con il tuo peregrinare di formatore non ne hai mai perso il polso. Per quel che io vedo, per quel che vivo, per quello che mi raccontano i pazienti i cui brandelli raccolgo qua e la dispersi, tra Prontosoccorso, SerT e Carcere, posso dirti che oggi, la persona del paziente, per la configurazione che i nostri Servizi hanno assunto, da primo obbiettivo della mission, credo sia diventato l'ultimo dei problemi. E come tale, un qualcosa di cui nessuno si occupa, o di cui tutti si occupano nei ritagli. Come possono, come capita, come dove chi si trova para, come quando da bambini giocavamo a pallone alla "romana", ovvero con una porta senza portiere, in cui il malinconico pallone entrava spesso prima che qualcuno si trovasse nei paraggi per intercettarlo. Potrei continuare, ma il messaggio è forte e chiaro: ci sono Servizi che non sono più terapeutici. Questi andrebbero riformulati, come quegli aeroplani che non sono più in grado di volare. Altri dove il fuoco della cura arde come una fiammella nel ghiaccio. Altri più versati. Ma nei quali chi pone attenzione al transfert deve sforzarsi di creare una calotta, o accettare di finire fuori dal via vai di quelli che sono impegnati, tutto il giorno, a fare il lavoro istituzionale, quello serio, che consente all'istituzione di sopravvivere, forse, ma che non impedisce al paziente di continuare ogni giorno a morire. Ti abbraccio con gratitudine e grande affetto.

Questo intervento, come tutti quelli di Correale, mi colpisce per la pregnanza e la densità di argomenti, anche apparentemente molto diversi fra loro o perlomeno appartenenti a vari domini e modelli teorici, messi in fila, però, con una coerenza, una logica e una leggibilità straordinarie.
Il concetto e la locuzione stessa, "transfert disperso" sono di una estrema suggestione e mi portano a una riflessione e a una domanda: mi chiedo cioè se Correale intenda, in questo stupendo intervento, il transfert disperso (quasi un tumore curabile se accolto al suo emergere, prima che possa metastatizzare sui soggetti coinvolti e sulle istituzioni, se lasciato disperdere), quello incipiente, quello cioè che il soggetto comincia ad attivare, illuso da un contesto che ne prometteva l’emergere e poi avverte questa aspettativa delusa, o se considera transfert disperso, anche quello che rimane latente, perché il soggetto non coglie nessuno, nessuno sguardo, nessun sorriso, nessuna stretta di mano (Borgna), che prometta una disponibilità.
E, simmetricamente, se l’operatore, per rimanere nell’ambito di una casa di cura, oltre a farsi carico di una richiesta emergente, solo intuita, debba anche essere provvido ad elicitare nel soggetto che gli sta accanto, di fronte, in una potenziale relazione, quello latente che sicuramente esiste nel soggetto e che quasi sempre rimane tale, per pudore, per paura, per una ormai radicata disillusione verso l’altro. Cioè, è transfert disperso anche un transfert mai nato?


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