1. Premessa
Vorrei iniziare il mio intervento con una citazione di F. Basaglia
"In qualità di non psichiatra […] Goffman è riuscito a trovare […] il significato razionale e umano dei malati mentali, la cui razionalità e umanità vengono sistematicamente distrutte all’interno dell’istituzione deputata alla gestione dell’irrazionale e del disumano". (Basaglia e Basaglia, 1968, p. 9)
Stiamo riflettendo in questo seminario su come "l’istituzione deputata alla gestione dell’irrazionale e del disumano" (Goffman parlava dei manicomi, noi oggi pensiamo ai nostri servizi territoriali, non solo di tipo residenziale) possa fare questo suo mestiere in modo da rilanciare e potenziare l’umanità e la razionalità, e non distruggerle ulteriormente. La nostra esperienza ci dice che molte dinamiche disumanizzanti che si manifestavano in tutta potenza negli ospedali psichiatrici agiscono in forme più soffici, e per questo più subdole, dentro ogni istituzione sociosanitaria convenzionale, anche se non "totale". In questo senso mi permetto di fare alcune riflessioni non di circostanza ma, credo, radicali, spinto dalla audacia del titolo del nostro seminario, perché la partecipazione è un tema audace. Parlando di partecipazione entriamo in un campo fecondo ma minato, e dobbiamo essere attrezzati concettualmente per attraversarlo con proprietà.
La mia competenza è relativa alla metodologia del lavoro sociale e alla analisi logica degli interventi sociali di welfare. Mi tocca stare perciò strettamente in questo ambito. Il mio intervento non sarà quindi descrittivo di pratiche o di esemplificazioni di esperienze di partecipazione in psichiatria (ne sapete senz’altro più di me tutti), né voglio infervorarmi a decantare le virtù della partecipazione, esortandovi a operare in questo modo (ognuno fa quello che gli pare). Vorrei piuttosto delucidare il tema analiticamente, seguendo la logica fino a dove essa ci porta.
Dividerò il mio intervento in tre sezioni che intersecherò poi nell’esposizione, per questo vorrei evidenziarle in anticipo.
- Nella prima, mi chiederò "chi partecipa a che cosa e come", cioè vorrei capire chi sono i soggetti della partecipazione di cui parliamo, quali siano gli ambiti o le attività nelle quali questi ipotetici soggetti si inseriscono, e che cosa si debba intendere con il termine "partecipazione". Senza questa operazione si rischia la confusione e il parlare a vuoto.
- In particolare, nella seconda, cercherò di stabilire se esiste, e quale sia eventualmente, la differenza tra il partecipare ad attività a valenzasanitaria e partecipare ad attività a valenza sociale, o a valenza mista socio-sanitaria (nella psichiatria è questo il caso). Oltre a questi due ambiti principali, ne possono essere individuati altri, per esempio quelli a valenza istituzionale o a valenza civica o finanche politica. Mi pare evidente che parlare di partecipazione in vicende sanitarie strette è una cosa, negli altri ambiti (dal sociale al politico) è un’altra. In alcuni interventi sanitari, riguardo alla partecipazione è legittimo e opportuno disquisire, in altri dovrebbe essere una prassi scontata se non obbligatoria, in quanto libertà garantita dalla nostra Costituzione repubblicana.
- Nella terza sezione, approfondirò la questione di che cosa voglia dire esercitare le "terapie" istituzionali secondo lo spirito di una partecipazione radicale, che diviene sociale a pieno titolo. Qui incontriamo il concetto di capitale sociale, vale a dire delle relazioni fiduciarie, e in questo senso cercherò di connettere la salute al senso civico.
Lascerò invece sullo sfondo, per mancanza di tempo, la riflessione su che cosa voglia dire aprire davvero alla partecipazione un sistema istituzionale (penso ad una ASL ad esempio — ma anche una singola struttura al suo interno). Per gli enti "partecipazione" vuol dire "aprirsi a estranei", far accedere nelle loro amministrazioni dei non incardinati: è possibile fare ciò? Quali rischi "presumibili" e quali vantaggi ci possiamo aspettare, soprattutto nel clima attuale dominato dal managerialismo liberista, il quale, a parte la retorica sulla libertà di scelta dei consumatori, va decisamente in direzione contraria alla partecipazione (ossia verso una proceduralizzazione sempre più stretta)?
2. "Chi partecipa a che cosa e come"
Quando parliamo di partecipazione in psichiatria, intendiamo in genere quelle prassi dove la società – vale a dire l’"ambiente" e il "target" delle strutture e dei presidi psichiatrici – è chiamata a collaborare con quelle strutture stesse. Il nostro seminario ci vede impegnati a capire come il mondo della psichiatria formale possa favorire e ottimizzare – oppure "contrariare" – l’afflusso di idee e sollecitazioni verso di sé presente nella società esterna.
Tendiamo a pensare a un afflusso unidirezionale, dalla società ai servizi psichiatrici. Volendo tuttavia radicalizzare e forzare la logica fino in fondo, si potrebbe anche capovolgere tale impostazione, e parlare non della partecipazione della gente al funzionamento dei servizi, ma della partecipazione dei servizi al funzionamento della gente, cioè partire dal riconoscimento di ciò che sarebbe primariamente lo scopo ultimo e alto del sistema psichiatrico pubblico, quello di entrare nella vita delle famiglie e delle comunità, partecipare al loro vivere (più che erogare prestazioni tecniche).
Potremmo fare un esercizio di immaginazione e pensare che da qualche altra parte in Italia o nel mondo ci sia in questo stesso momento un seminario speculare al nostro, in cui dei cittadini si interrogano sulla partecipazione degli operatori psichiatrici (stipendiati dal sistema sanitario nazionale) alla vita delle loro comunità, cioè si chiedono in sostanza che fine abbia fatto la psichiatria sociale famosa ai nostri tempi. C’è poi un’altra possibilità, senz’altro la più auspicabile: che vi sia un seminario non unilaterale ma intrecciato, dove esperti del sistema psichiatrico e cittadini interessati si ritrovano assieme a parlare alla pari di queste questioni. Torneremo su questo punto in seguito.
Parliamo per intanto della partecipazione degli esterni al sistema psichiatrico formale. Cogliamo l’interazione tra società e sistema di welfare, facendo salva la possibilità che i cittadini nella società (all’esterno del sistema) facciano ciò che credono meglio per la loro salute mentale e agiscano anche in modo autonomo rispetto ai servizi, finanche si organizzino in modo indipendente per andare contro il sistema psichiatrico, più che partecipare ad esso e collaborare, con azioni di advocacy, di lobbying o di protesta o per iniziative civiche varie, anche politiche, nell’ottica dei cosiddetti "nuovi movimenti sociali" (Barnes, 1999).
Parlerò qui solo delle interazioni intenzionali e costruttive tra società e istituzioni di cura, e in specifico delle azioni di vari soggetti interessati all’efficacia del sistema psichiatrico nella sua interezza (mi riferisco a un sistema misto, dove terzo settore e anche qualche impresa di mercato possano trovare collocazione). In questa ottica, dobbiamo distinguere tra interessati in quanto utilizzatori diretti dei servizi (pazienti e familiari) ovvero interessati in quanto collaboratori civiciper una migliore realizzazione degli stessi, cittadini motivati e sensibili (volontari).
Di nuovo qui possiamo imbatterci in una importante intersezione, sulla quale è bene soffermarsi. Anche in psichiatria, gli utilizzatori possono essere collaboratori per la realizzazione/gestione dei servizi, o di certi servizi. Se io penso a un utente o un familiare come un semplice utilizzatore delle prestazioni tecniche (nell’accezione letterale del termine utente), la sua partecipazione, quando c’è, può essere descritta come ancillare, cioè preziosa solo in due accezioni marginali: (a) come prerequisito alle operazioni tecniche (per esempio come compliance, o motivazione, o suggestione favorevole all’intervento ecc.); (b) come feedback in itinere, o finale, dell’intervento stesso (per retro-informare i tecnici o i decisori politici sulla qualità o l’appropriatezza dell’intervento, sull’onda anche della retorica neoliberale sul potere del consumatore).
Se io penso invece all’utente o al familiare come a un collaboratore per la realizzazione dell’intervento, entro in una dimensione più profonda, in cui gli utilizzatori sono anche produttori o coproduttori di ciò che ricevono dal sistema (e da loro stessi). Si usa in genere il termine prosumer per esprimere questa doppia condizione simultanea, di produttore e consumatore assieme. Vedremo più oltre che cosa possa voler dire questa espressione in psichiatria.
Prima dobbiamo chiederci quale sia l’oggetto della collaborazione. I vari interessati non tecnici – diciamo così – a che cosa esattamente dovrebbero collaborare? Che cosa dovrebbero/potrebbero fare gli utenti/familiari e i volontari infiltrandosi come collaboratori dentro il sistema del welfare sociosanitario? In linea logica individuiamo tre livelli di inserimento possibili:
- nel policy making, il pensare le strategie e fare la politica del sistema sociosanitario pubblico (qualcosa di simile si potrebbe verificare nei piani di zona, per intenderci);
- nel management, il gestire progetti finalizzati (ad esempio: gli utenti, i familiari e i volontari collaborano alla conduzione di una campagna di sensibilizzazione) ovvero gestire o collaborare nell’espletamento di attività correnti entro i singoli servizi (ad esempio collaborano alla gestione dello sportello di accoglienza) o partecipare alla gestione strategico-amministrativa del servizio (qualcosa di simile alla famosa partecipazione dei cittadini degli anni Settanta, per esempio quella dei comitati di gestione della scuola pubblica);
- nel fieldwork (campo tecnico-applicativo), il gestire o collaborare alla gestione degli interventi specifici di terapia/ riabilitazione/reinserimento.
È chiaro che i primi due ambiti sono più facili da pensare e da presupporre, rispetto al terzo, che è più medico e quindi più esclusivo. Pensare a dei volontari o dei familiari e persino degli utenti compensati che facciano il policy making, o assumano responsabilità manageriali interne, è più facile che pensare a queste persone impegnate nelle terapie sanitarie. Tra di essi – perché no – ci potrebbero essere delle "personalità", ad esempio dirigenti o ex dirigenti di imprese o enti pubblici, personaggi che evidenzierebbero quindi tutte le competenze per espletare al meglio quelle collaborazioni (anzi, in molti casi più competenze degli stessi medici o del personale-amministrativo interno ai servizi). Per cui delegare loro delle responsabilità, se le accettano nello spirito gratuito del volontariato o dell’impegno civico, non sarebbe strano. Diverso è discutere di partecipazione nella costruzione del proprio progetto terapeutico o riabilitativo: che titolo hanno queste persone, seppur anche competenti nella vita e nel lavoro, a inserirsi da pazienti nella tecnicità medica?
Prima di affrontare questo essenziale quesito, dobbiamo ancora dire qualcosa riguardo alla natura della collaborazione. Collaborare come: da esecutori o da interlocutori? Ci dobbiamo chiedere: i cittadini partecipanti alle politiche pubbliche di salute (in tutti i livelli visti sopra) rimangono in posizione subordinata e meramente esecutiva (prendono ordini) rispetto al sistema accogliente? Ovvero si pongono in relazione con esso, vale a dire in un rapporto di piena reciprocità? Le collaborazioni esterne possono essere viste come opportunità funzionali a completare e affiancare i normali poteri tecnici intrasistemici? Il volontario è inteso come un semplice materiale umano aggiunto, prezioso peraltro in un clima come quello attuale di taglio delle spese dove i servizi si ritrovano spesso "sotto di personale"?
Al contrario, ai collaboratori potrebbe essere consegnato un potere effettivo (empowerment), uno reale status di interlocutori. Potrebbe essere dato loro accesso alle "leve di comando" per contribuire alla costruzione delle politiche o degli interventi in modo tendenzialmente paritetico. Dobbiamo decidere se intendiamo per "partecipazione" un fedele allineamento dei cittadini alle nostre volontà esperte (intrasistemiche) oppure un vero riconoscimento della loro competenza autonoma (sia tecnica che esperienziale).
Si aprono qui questioni e problemi di non poco conto. Quanto è opportuno e formalmente possibile dare accesso a estranei, seppur motivati e bene intenzionati, e delegare loro impegnative responsabilità? Chiedere collaborazioni subordinate e disciplinate gerarchicamente sarebbe più facile, anche più rassicurante forse per il sistema, ma ci sono controindicazioni che ci informano che la partecipazione o è di tipo paritario o non è.
Non abbiamo tempo per approfondire questo punto. Dico solo che la prima opzione (aprire le porte solo a collaboratori allineati e fedeli; chiudere i contatti con le possibili divergenze e con l’"alterità") ha un handicap forte: disegna per i collaboratori una posizione di paria e questo status non è soddisfacente per i nostri ospiti dentro il sistema. L’esperienza ci dice che essi, in tali condizioni, tendono a demotivarsi. Vediamo spesso demotivarsi anche gli addetti interni, che sono stipendiati e che quindi avrebbero il dovere di ufficio di non rilassarsi. A maggior ragione si demotiva chi non riceve utile economico ma solo soddisfazioni emotive dalla partecipazione all’azione. Se queste soddisfazioni non vi sono, perché essere trattati da esecutori non è piacevole, nulla impedisce loro di andarsene e/o ritirarsi emotivamente dall’impegno (i collaboratori societari non sono dipendenti del sistema sanitario nazionale).
Ovviamente, le persone se ne vanno se sono volontari, se partecipano alla gestione organizzativa di attività eventualmente utili per altri. Più difficile è la loro ritirata se si tratta di pazienti e familiari bisognosi di cure mediche essenziali per se stessi. Quando le cure sono dispensate in modo unilaterale e inibente una partecipazione paritaria, non sempre i pazienti se ne possono andare. Non succede così neppure in un regime di welfare in teoria liberalizzato (quando gli utenti possono allocare voucher in un mercato di servizi); a maggior ragione non succede in un regime convenzionale dove gli interessati non hanno libertà di scelta e non possiedono alternative a quelle cure. Non possono far altro che rimanere, ma si ritirano in se stessi e deprimono la loro umanità (per dirla con Goffman).
Ci chiediamo ora pertanto: come è possibile o, meglio che cosa significa partecipare pariteticamente alle proprie cure psichiatriche da parte degli interessati diretti? Qui dobbiamo distinguere tra intervento sanitario e intervento sociale. Faremo con ciò un esercizio di scissione analitica, perché in pratica sappiamo che queste due dimensioni sono un unico indissolubile, in psichiatria in modo particolare.
3. "Partecipare al curing o al caring?"
Un medico può dire: "Come si permette un paziente o un familiare di pretendere di partecipare al progetto di cura che io mi sforzo di pensare? Come può farlo se io stesso che ho studiato medicina per dieci anni e poi ne ho fatti molti altri di esperienza faticosa, spesso non so bene che cosa esattamente fare?". Io riconosco delle ragioni a questo sentimento di chiusura e di tutela della propria professionalità, da parte dello specialista. Ci sono momenti in medicina in cui lapartecipazione del paziente può sembrare inopportuna e forse controproducente. Ad esempio, quando si anestetizza il paziente, si procede in modo da disinnescare la sua coscienza così che lui dorma e non partecipi all’operazione che viene fatta su di lui. Se partecipasse, disturberebbe: meglio sgombrare il campo dalle sue iniziative per un’azione esclusiva dell’esperto. In psichiatria, ci possono essere situazioni di grave scompenso e crisi dove l’eventuale desiderio del paziente di partecipare alla determinazione del proprio destino è così rischioso per sé e gli altri che può in qualche caso giustificare una pesante sedazione della sua coscienza o un trattamento farmacologico curativo non negoziato, e anche imposto con la forza. In questi casi estremi non c’è relazione (relazione per la cura). Ma si tratta appunto di casi estremi.
In realtà va tenuto conto che anche sotto anestesia il paziente collabora all’operazione resistendo fisicamente e sopravvivendo all’ingerenza del bisturi (si parla di resilienza organica). Nel TSO la estrema costrizione è sottofirmata dalla autorità civile per sottolineare che un medico non può mai spingersi oltre i confini minimi della relazione per propria decisione tecnica, deve essere per così dire autorizzato (non dal paziente incapace, bensì dal tutore insieme suo e della collettività, che è il sindaco). Anche nel TSO, pertanto, c’è partecipazione dell’interessato, per quanto indiretta tramite il rappresentante politico.
Sappiamo poi che in medicina, se consideriamo la cura di molte malattie complesse – e ancor più se consideriamo la promozione della salute, anziché appunto la terapia delle patologie –, la partecipazione degli interessati è indifferibile e sempre presente anche qualora, come spesso avviene, il terapeuta non la concettualizzi. La terapia tecnica si realizza solo saldandosi a un completamento esterno, che è l’agire sensato dei vari interessati alla produzione di quello stesso bene cui l’intervento tecnico mira. Molta patologia (o molta produzione di salute) è legata allo stile di vita, vale a dire al modo con cui il destinatario delle cure o dei consigli sanitari organizza la propria vita. Lo star bene di Tizio dipende quindi anche dalle azioni che lui autonomamente intraprende per vivere. Non servono tanti esempi, pensiamo solo a che cosa varrebbe una esatta prescrizione tecnica di un certo dosaggio di insulina se il paziente non partecipasse al progetto terapeutico, rifiutandosi – per così dire – di offrirsi alle periodiche iniezioni o di controllare la sua dieta; a che cosa servirebbe un perfetto trapianto di fegato se il paziente continuasse a bere, e così via.
Quando introduciamo il concetto di che cosa faccia un essere umano malato nella sua vita, la logica sanitaria incontra quella sociale. Quando ipotizziamo una fusione piena e armonica dell’istanza sociale con quella sanitaria, noi concettualizziamo questa sinergia: che l’efficienza organica oggettiva (sanità) aiuta a vivere meglio (sociale). Vale anche il contrario: vivere meglio aiuta l’efficienza psico-fisica (vivere bene è un farmaco, forse il migliore oggi esistente). In nessuna specialità medica come in psichiatria questo intreccio di sociale e sanitario è così profondo e indissolubile. Tale integrazione costitutiva è il bello (e anche l’estremamente difficile) di questa disciplina.
Gli anglosassoni individuano due stili del curare. Da un lato il curing sanitario stretto, la tensione a guarire, cioè a modificare la struttura organica o psichica del corpo umano, cosicché quella "oggettiva" entità costruita dall’esistenza di schemi diagnostici formali – la patologia – sparisca. Chiamo caring sociale il prendersi a cuore la condizione di difficoltà di una persona, una famiglia o una collettività, entrando in relazione con gli interessati che percepiscono i loro problemi allo scopo di facilitare la riorganizzazione della loro vita da parte di loro stessi.
Se dovessimo mettere a confronto le prestazioni tecniche con la vita, dovremmo constatare che la vita ha sempre la prevalenza. Offriamo i nostri specialistici trattamenti per togliere di mezzo le patologie, quando ci riusciamo, per uno scopo superiore: rendere la vita più efficace. Non avrebbe ovviamente senso affermare il contrario, che il paziente debba offrire la propria vita per rendere possibile o più efficaci i trattamenti tecnici (questa assurdità era presente, in forma estrema, nei manicomi, dove la vita intera era confiscata affinché gli psichiatri potessero esercitare le loro cure, un paradosso illichiano tanto palese quanto ancora poco compreso). La vita prevale sui trattamenti e idealmente li finalizza. Una vita rispettata nella sua essenza può poi retroagire sui trattamenti rendendoli sensati e anche tecnicamente efficaci.
Accenno qui solo al noto fenomeno della cronicità, per dimostrare la superiorità del vivere rispetto alle terapie. Quando i trattamenti non hanno più effetto e non alimentano più alcuna speranza, la persona vive comunque fino al suo termine segnato. Anche chi zoppica non va indietro – per così dire. Anche da malati o da disabili o da deficienti di molte cose o persino da pazzi, noi ciononostante viviamo. Il diritto umano di ogni persona a vivere la propria vita così come essa è strutturalmente al momento presente (e pazienza se non appare conforme a standard normativi scientifici) viene dall’etica del sociale. La tensione a cambiare l’essere umano per portarlo a norma (più che a controllarlo per interessi di difesa sociale o di sicurezza) viene dall’etica sanitaria. Quest’ultima istanza ci appare legittima, anche esercitata in esclusiva, finché ci sono ragionevoli speranze di un suo positivo impatto (evidence) sulla patologia, diviene disfunzionale e persino grottesca nella cronicità accertata.
I servizi psichiatrici sono i più complessi, io credo, dentro l’intero sistema sociosanitario nazionale. Per loro natura essi debbono offrire contemporanee prestazioni di curing e di caring, cioè devono insieme guarire (quando possono) e migliorare il vivere. Questa complessità non è sempre ben compresa, né risulta ben codificata, dall’ingegneria astratta dei sistemi sociosanitari moderni, i quali per semplificare le cose fanno prevalere la logica più intuitiva e poderosa, quella della sanità. Nonostante il vivere sia il valore prioritario della psichiatria, come detto, la sua incardinazione istituzionale è per intero nel comparto sanitario. La sua logica prevalente, se non la sua retorica, è ancora per gran parte sanitaria.
Per le persone che si rivolgono ai servizi di cura psichiatrica sarebbe prioritario trovare nuovi equilibri del loro vivere, essendo loro anzitutto colpiti da quel vivere disagiato che pure evidenzia l’eventuale patologia sottostante. Per il sistema psichiatrico, così com’è organizzato attualmente, sembra invece risulti più importante capire scientificamente il loro male e combatterlo altrettanto scientificamente. I progressi della neurobiologia e della farmacologia psicotropa incoraggiano gli psichiatri ad andare verso un rinnovato biologismo. Il problema è che in questa deriva tecnica, peraltro legittima secondo i canoni sanitari, la partecipazione – a noi interessa questo tema tipico del "sociale" – si stempera o viene meno, diviene un concetto incomprensibile o persino intollerabile.
La partecipazione del paziente o del familiare alla decisione riguardo a se un farmaco sia adatto può essere minima, limitarsi ai feedback iniziali o poco meno. La loro partecipazione alla decisione di che cosa fare per riorganizzare la propria vita non può che essere totale. Quando ad esempio si tratta di cercare un lavoro o di decidersi ad andare in pensione; di sposarsi e fare famiglia oppure di separarsi e tornare a vivere soli; di smettere di drogarsi o di giocare d’azzardo o di maltrattare un familiare, ecc. l’interessato è al centro del processo di cambiamento. Se non c’è partecipazione del vivente, la vita non cambia volontariamente.
Torniamo qui al paradosso gia menzionato: guardando le cose psichiatriche dall’ottica sociale, dovremmo discutere non se l’utente possa partecipare al processo di aiuto, essendo ovvio che alla vita sua non può che partecipare, bensì quanto e in che modo e con quali accortezze possano partecipare i professionisti estranei. Nella sua dimensione sociale, la psichiatria deve compiere gesti di cura che siano facilitatori della riappropriazione delle capacità decisionali e delle potenzialità autorealizzative che sono l’essenza delle persone. Tali potenzialità possono anche essere prossime allo zero in questo o quel caso, ma è sempre su di esse che il terapeuta punta. Il sociale della psichiatria agisce per mettere il paziente in condizione di visualizzare e progettare il proprio cambiamento possibile, di reggere il timone verso un proprio vivere "migliore". Per questa via incrociamo la sanità, perché così egli diviene terapeuta di se stesso, posto che, come abbiamo detto, un cambiamento "buono" non solo migliora la vita, ma anche di riflesso addolcisce, e persino a volte fa sparire, la malattia.
Le persone che sono dentro la malattia mentale e stanno lottando per convivere con essa e forse anche per venirne fuori, possono essere considerate coterapeuti in quanto conoscono la malattia mentale nel suo versante sociale/esistenziale. Esattamente sanno che cosa sia una vita con la malattia e sanno come vivere, bene o male, nonostante la malattia, e a volte nonostante le cure ufficiali. Quando sono sfortunate e incontrano il servizio sbagliato, esse debbono loro malgrado imparare a sopravvivere alle confische di decisionalità che una supponente cultura terapeuticistica impone loro senza interrogarsi sul senso di tutto ciò.
Il sapere dal di dentro che cosa è l’esperienza di vivere nella sofferenza psichiatrica conclamata è detta competenza esperienziale. L’esperienza della malattia mentale insegna la psichiatria, una psichiatria soggettiva, così come lo studio dei manuali insegna la psichiatria oggettiva a medici che non sono mai stati malati di mente nella loro vita. La combinazione equilibrata di queste due competenze – esperienziali ed esperte – fa emergere una psichiatria intera(comprehensive). Il combinarsi di queste due esperienze, nelle concrete relazioni medico-paziente, arricchisce entrambe le parti, rende gli interessati, immersi nel proprio problema, più capaci di vedere le cose oggettivamente (razionalmente), e rende più capace di vedere le cose soggettivamente il medico esterno, il quale per preciso dovere tecnico-deontologico deve rimanere distaccato (ma non distante o assente). La relazione di cura è una relazione formativa per entrambe le parti interagenti, dove lo specifico di ciascuna si enfatizza nello scambio.
Anche quando la vita è consegnata momentaneamente al sistema tecnico della psichiatria (ad esempio per un ricovero), la vita deborda da quel momentaneotime out, ha un prima e un dopo autonomi. Il vivere resta sempre in possesso del suo possessore. È fuori di discussione dunque che la partecipazione – se la intendiamo come partecipazione al proprio vivere – debba essere massima. Il vero problema teorico è piuttosto un altro: come debba partecipare al fronteggiamento altrui il tecnico estraneo. Quando non guarda alla malattia ma alla vita, il tecnico diviene ancillare e agisce a supporto della libertà di espressione e di decisione del paziente, che in quanto essere umano agente (nell’ottica quindi del sociale) non è più da intendersi come un paziente ma un vivente. Lo psichiatra è intelligente di cose umane, oltre che di disfunzionalità psichiche, ipotetiche o certe che esse siano. Egli sa che impedire, seppur a fine di bene, la libertà e il potere di azione vitale significa disumanizzare e deprimere. Al contrario, facilitare una piena partecipazione alla lotta quotidiana per fronteggiare i propri disagi percepiti – consentendo al paziente di "essere" il proprio progetto terapeutico – è la strada maestra per umanizzare. Dire che cosa sia l’umanità dell’uomo è un concetto elusivo e difficile, ma sappiamo (da Rousseau) che esso ha a che fare con la libertà di gestirsi nel mondo e di provvedere alla propria sopravvivenza. Quando nelle routine sociosanitarie si arriva a considerare il soggetto umano come un oggetto plasmabile – un essere che non sa badare alla propria sopravvivenza e alla propria salute –, si crea il paradosso estremo: l’uomo curato è ridotto a un non uomo, alla stregua di un sasso, un legno o qualsiasi altro genere di materia fisica. L’esperto che senza consapevolezza mette il sanitario contro il sociale (la patologia prima della vita; la soddisfazione di sentirsi "tecnicamente bravo" prima del senso di ciò che si fa) produce un cortocircuito curioso e tragico assieme.
Ovviamente non intendo caricare di romanticismo queste affermazioni. Non vorrei lasciar passare il retorico messaggio che le persone sono comunque e sempre capaci di vivere bene secondo etica e senso umano. Sappiamo che il vivere di molte persone è disorientato e distruttivo e proprio per questo esse hanno bisogno di aiuto psichiatrico (a volte per colpa di una interna malattia mentale, a volte no). Quindi non dico che la persona, comunque viva, qualunque cosa faccia, viva bene o nel giusto assoluto. Neppure pertanto vorrei che passasse l’idea che i servizi debbano lasciare gli interessati in cura liberi di fare quello che vogliono nel presupposto che qualunque cosa facciano comunque vada bene. Dico piuttosto questo: che ogni persona può recuperare senso del proprio vivere solo attraverso un percorso di vita proprio, non attraverso una manipolazione, seppure a fine di bene. Dal che dedurrei che è compito dei servizi psichiatrici strutturare il loro lato "sociale" non trattando i pazienti da pazienti bensì consentendo loro opportunità di agire un proprio progetto, che poi si esprimerà fin dove potrà. I servizi sociali manifestano fiducia nelle potenzialità umane e le sorreggono, stando a vedere che cosa di buono (forse) ne viene fuori.
4. La questione della fiducia e del capitale sociale
L’umanità si realizza dunque nell’autonomia, nella fiducia di poter essere se stessi utilmente. Sappiamo tuttavia che un percorso di vita proprio si costruisce nelle relazioni sociali, nella condivisione e nella fiducia in altri. L’umanità è cooperazione, intraprendere assieme. L’aprirsi alle relazioni, aiutare e farsi aiutare in caso di bisogno, essere disponibile a riflettere e tirar fuori energie mentali per migliorare la propria vita e quella di altri vicini è la manifestazione sociale dell’umano. L’uomo tipico vive e plasma la sua vita e affronta i suoi problemi assieme ad altri (è produttore di beni comuni).
Il non voler partecipare alla costruzione della propria vita e il chiudersi alle relazioni sociali è uno dei segni/sintomi di malattia mentale, secondo le classificazioni psichiatriche ufficiali. Allo stesso tempo è indicatore di scarso capitale sociale, secondo la sociologia. Dunque facilitare la riappropriazionecondivisa di progetti di vita comune è arte sopraffina sia in campo sanitario sia in campo sociale. Consentire alle persone che sono in problemi percepiti di affrontarli assieme ragionando e riflettendo dialogicamente, facilitando lo stare assieme e l’intraprendere assieme, apre gli scenari di una tipica "terapia sociale", che io da anni chiamo lavoro di rete.
Penso qui ai gruppi di auto/mutuo aiuto, che sono tipiche strutture per raddrizzare la propria vita in relazione con altri che hanno la stessa necessità; penso pure alla costituzione di progetti comunitari dove le persone, pur con tutti i problemi che possono avere, hanno voglia di fare assieme non solo per se stessi ma anche per altri nella loro comunità. Le persone connettono in queste reti "il fare per sé con il fare per altri", sia altri con cui sono a diretto contatto (altri significativi) sia altri non conosciuti, arrivando forse anche, a volte, fino al livello di un agire "politico" per l’affermazione della giustizia sociale, della convivenza pacifica o di altri valori civici fondamentali.
I movimenti degli interessati possono costituire forze attive e competenti per la costruzione delle politiche sociali dal basso. Vorrei qui far notare la differenza tra un fare pressione politica o fare rimostranze individualmente o in piccoli gruppi spontanei (che pure è iniziativa sociale) rispetto a una azione organizzata e ragionata assieme, dove gli interessati a una conquista culturale o politica non si scagliano contro una istanza istituzionale distante e distaccata per rivendicare o pretendere che faccia essa – per così dire – ma si mobilitano per un bene comune costruito dal loro fare assieme. Le reti di azione comunitaria assistite dai servizi nel loro fronteggiare diventano palestre dove le persone – pazienti, familiari, volontari, esperti – si allenano a un reciproco apprendimento. Essi fanno esperienza del relazionarsi e della sua efficacia sia funzionale che psicologica che civica, insomma stanno in una palestra dove esercitano l’umanità pura, senza secondi fini da parte di nessuno (nemmeno secondi fini tecnici da parte dei terapeuti, i quali possono stare tranquilli sapendo che proprio l’esercizio dell’umanità pura fa bene alla salute, per così dire).
Questo agire in senso fiduciario nei confronti degli altri è "capitale sociale". Il capitale sociale nelle vicende psichiatriche è alto quando lo psichiatra ha fiducia nel paziente, il paziente ha fiducia nello psichiatra e nei familiari, i familiari hanno fiducia nei volontari e nei politici in buona fede, ecc. La reciproca fiducia è ciò che rende possibile le relazioni sociali. Non posso approfondire questo tema. Dico solo che in una società sempre più atomizzata e liquefatta dove le persone sono sempre più ossessionate dai consumi e dal loro proprio tornaconto stretto, il capitale sociale si erode ed erodendosi impoverisce l’attitudine cooperativa e solidale (in ultimo l’umanità) della società.
Il capitale sociale ha a che fare con la psichiatria in due modi: primo perché vivere in una società povera di capitale sociale e di relazioni sensate è un fattore sociologico che "produce" malattia mentale. Secondo, e soprattutto, perché, pensando alle cure in senso relazionale, scopriamo che i servizi sociali possono fungere da gangli rigeneratori del capitale sociale. Proprio l’esperienza della malattia e del disagio esistenziale e per converso l’esperienza del "venirne fuori assieme" può fornire una energia vitale per imparare a vivere in spirito solidale e non competitivo, cosa difficile ormai nella nostra società di homini consumens. La condizione perché questa sorta di miracolo avvenga è che nel contatto con servizi psichiatrici istituzionali (e persino in quelli di mercato) la persona non ritrovi di nuovo la logica spezzettata e asfittica del consumo. La persona malata o il familiare può andare dallo psichiatra con due sentimenti contrastanti: può andare nello spirito di "comprare" prestazioni risanatrici tutto di un colpo, oppure sperando di ritrovarsi immersa nella logica vitale delle relazioni fiduciarie. Quale spirito trovi la persona nel servizio dipende dalla logica con cui quel servizio è pensato e organizzato.
I servizi sociosanitari condotti con spirito relazionale, quindi basati su una partecipazione degli interessati alla costruzione del proprio destino, sollecitano la produzione di capitale sociale. Essi formano perciò cittadini nello stesso tempo che li curano. Formano persone che, dopo avere parlato e detto la loro con forza e con garbo per riorientare la loro vita colpita dalla malattia, sanno parlare e dire la loro con forza e con garbo anche nella società civile, fuori dai circuiti della psichiatria. I servizi ben condotti in senso relazionale – aperti alla partecipazione responsabile –restituiscono alla società non solo persone forse risanate secondo gli standard medici, ma anche persone più consapevoli del bene comune e più motivate a farsene carico per quello che possono. In una recente ricerca sui gruppi di auto/mutuo aiuto in campo alcologico ho dimostrato come un’esperienza di recupero dialogica e relazionale renda "più cittadini" i membri recuperati di quei gruppi (Folgheraiter e Pasini, 2006). Questo dato ci incoraggia a pensare che lo stesso possa avvenire anche attraverso una partecipazione piena alle proprie vicende psichiatriche.