Il gruppo composto da 21 partecipanti provenienti da quasi tutte le regioni è stato condotto dal dottor Marco D’Alema ed è rappresentato da psichiatri, neuro-psichiatri infantili, psicologi, sociologi, rappresentanti di associazioni, rappresentanti di familiari e di utenti.
Il gruppo ha centrato le sue argomentazioni principalmente sul concetto di cultura inteso come realtà interattiva complessa e ha posto la questione se non sia il caso di abbandonare il concetto di cultura al singolare per parlare di cultura al plurale facendo riferimento al valore delle differenze. Concretamente, suggeriscono alcuni partecipanti, noi siamo immersi in contenitori che accolgono sempre e comunque più culture, da quelle generazionali a quelle culturali vere e proprie che si esprimono anche con costumi e bagagli linguistici profondamente diversi dalla nostra.
E’ emerso in maniera significativa il concetto di "Altro" e di alterità e ci si è chiesti più volte chi è, o che cos’è l’Altro? E infine se questo Altro da noi è sempre un’occasione per capire meglio chi siamo?
È emerso che l’accogliere l’Altro come elemento per capire meglio chi siamo sia da assumere come una sfida continua per ampliare i confini della nostra cultura. Tutto ciò è reso necessario anche dal fatto che viviamo (da qualche decennio) all’interno di una realtà post-moderna nella quale è ormai un dato di fatto che i punti di riferimento identitari e culturali siano più di uno, non c’è più un punto centrale che distribuisce ruoli e competenze come nella modernità; in una società post-moderna è il concetto di rete e di scambio paritario che determina l’organizzazione e lo scambio informativo e culturale: quella in cui viviamo, sostiene un partecipante, è una società della complessità e questa realtà complessa bisogna afferrarla da più punti di vista pur rispettando le diverse discipline e, quindi, a cascata le diverse culture quando vogliamo capire e intervenire nella costruzione della socialità e della convivenza interculturale.
Queste immagini di complessità e di migrazione hanno riportato il pensiero del gruppo ai concetti di cultura nomade e di cultura stanziale. Mi permetto di fare una precisazione in relazione a questi due concetti: quando parliamo di flussi migratori dovremmo fare attenzione a tutte quelle fasce di popolazione che nel territorio sono fermi per necessità; e inoltre chi primariamente nella nostra cultura è reso immobile e per quale motivo?
Se consideriamo questi concetti sul piano antropologico ci ritroviamo all’origine dell’umanità e la domanda che sorge spontanea è: quando l’uomo si è fermato? e per quale ragione si è fermato? Le risposte sono tante e di diversa natura. Io vorrei lasciare solo questa immagine: penso che il nomade sia colui, ancora adesso, che assolva per lo stanziale il compito di mezzo di comunicazione e lo fa maggiormente adesso raccontando allo stanziale cos’è il mondo attorno a lui, quali sono le sofferenze e i modi per superarle. Per finire vorrei far notare come in una società post-moderna il nomade diventi uno strumento di conoscenza vero e proprio che si impone con forza quando pensiamo al suo ruolo del mediatore culturale.
Il gruppo ha parlato parecchio della figura del mediatore culturale mettendolo a confronto con il mediatore sociale e cioè con una figura professionale che primariamente si occupa di mediare i conflitti che nascono fra i servizi che si occupano della salute delle persone e il senso comune. A tal fine si sottolineava come per il mediatore culturale tutto divenga più difficile sia per la diversa lingua parlata, sia per le diverse matrici culturali a confronto che il mediatore culturale si trova chiamato a mettere in relazione in situazioni di emergenza e di confitto. La diversa lingua parlata impone che sia reso più significativo e profondo l’ascolto dell’immigrato in quanto le emozioni trasmesse nella relazioni se non tradotte saranno la principale cause di malintesi e di conflitto
Infine si è fatto cenno all’importanza di fare attenzione ai luoghi nei quali pensiamo le persone-utenza; spesso, infatti, le cerchiamo nelle comunità locali senza riflettere abbastanza su cosa sono divenute queste comunità rispetto a quelle che abbiamo conosciuto negli anni passati?
Quando parliamo di utenza della salute mentale, è forte il rischio di pensare e cercare le persone in un contesto territoriale che non c’è più; e se li cerchiamo in luoghi diversi da quelli in cui vivono di conseguenza questo complica la nostra relazione con loro. Sarà necessario, quindi, ripensare i concetti di rete e di comunità per capire se l’Habitat di una persona che abbiamo in mente corrisponde realmente a quello nel quale la persona vive.
Vorrei concludere richiamando sotto forma di parole chiave i temi emersi durante questa esperienza gruppale.
I termini ricorsi più di frequente sono stati: comunità, territorio e territori, cultura e culture, reti e scambio fra culture, mediazione e mediatore, ascolto, Alterità, Altro, migrazione, nomadismo e stanziamento, accoglienza, salute e multiculturalità.
Finisco con una notazione più generale.
Il gruppo ha ripreso più volte le relazioni della mattinata proposte dai relatori come, allo stesso tempo, ha ripreso tematiche trasversali trattate anche nei precedenti seminari, quali l’organizzazione dei Dipartimenti, la cultura organizzativa, la cultura locale, le reti relazionali e i rapporti con l’Alterità.