Il gruppo è stato condotto dal dottor Raffaele Barone ed è composto da 23 partecipanti provenienti da quasi tutte le regioni. Le figure professionali presenti sono: psichiatri, neuro-psichiatri infantili, psicologi, e rappresentanti di associazioni di familiari ed utenti.
Uno dei temi affrontati anche nel nostro gruppo è stato il ruolo che deve avere il mediatore linguistico e culturale oggi: è emersa l’immagine di un mediatore ideale che sia specifico rispetto ai contesti, che non sia solo un tecnico della traduzione, ma che sia in grado di mettere in relazione i diversi universi simbolici che passano attraverso le parole e che a volte vanno oltre le parole, deve essere un possibile modello di integrazione per l’utente in difficoltà mostrando come si possa essere abitante di due mondi.
Si è riflettuto sul rischio di una delega eccessiva alle competenze e al ruolo del mediatore: ciò metterebbe l’esperto, lo psichiatra o chi per lui, nelle condizioni di allontanarsi sempre di più, di sganciarsi dal suo ruolo che dovrebbe essere quello di utilizzare le competenze del mediatore per cercare di dare una risposta, sulla base delle sue specifiche competenze, a chi chiede aiuto.
È emerso, inoltre, come spesso il ruolo del mediatore venga svolto dai bambini che sono socializzati alla lingua attraverso la Scuola o peggio ancora dagli utenti che fanno da mediatori con altri utenti.
Il gruppo ha riflettuto su quanto sia rischioso fare generalizzazioni indebite: lo stereotipo di straniero che desumiamo dalle nostre interazioni con persone in difficoltà, spesso emarginate, recluse in carcere, non può essere esteso agli stranieri in quanto categoria sociale. Va considerata, invece, la singolarità di ognuno, aldilà dell’appartenenza etnica, un’ulteriorità di senso che è legata alle singole biografie.
La psichiatria inoltre è stata configurata nell’elaborazione del gruppo come una prassi che ha cercato, anche per la sua stessa storia, di governare, controllare la diversità, e il gruppo si è interrogato se la psichiatria stia facendo la stessa cosa oggi di fronte all’emergenza immigrazione; forse, più che parlare di malattia, dovremmo considerare i percorsi di salute mentale e, quindi, la psichiatria dovrebbe assumere il ruolo di farsi promotrice di tali percorsi.
La psichiatria ha bisogno di rivolgersi ad altre discipline al fine di comprendere al meglio il fenomeno di cui intendiamo occuparci, nello specifico le società multiculturali, per trovare degli elementi che possano poi essere declinati nell’operatività. Dovremmo interrogarci su quelli che sono i fattori che fanno di un cittadino immigrato un non-cittadino, intendendo con "cittadino" una persona integrata, realizzata, in salute.
Si è parlato degli aspetti normativi e si è detto che esistono delle leggi di assistenza sanitaria, ma meno di assistenza sociale; come tali leggi vengano applicate nei diversi contesti è un grande problema. Nell’elaborazione del gruppo l’immigrazione è andata configurandosi come un’opportunità nel riconsiderare anche da un punto di vista politico la possibilità di assumersi delle responsabilità relative a questioni ancora oggi "scottanti" che sono state portate sul tavolo dalla riforma di Franco Basaglia, ovvero concetti come l’ascolto, l’incomprensibilità dell’altro, la necessità di prestare attenzione alle narrazioni che l’altro porta e – come già detto – la questione politica, il farsi portavoce di diritti che forse devono ancora essere costruiti.
Il gruppo, inoltre, ha fatto un’analogia tra lo straniero e la persona che esprime un disagio psicologico, mentale riflettendo su come spesso, purtroppo, di fronte all’incomprensibilità dell’altro le due cose coincidano. Laddove non capiamo diciamo che lo straniero è anche folle, riduzione sincretica di solito confermata attraverso una diagnosi psichiatrica che conferisce un’identità a chi ne possiede una magari precaria, fornendo un "passaporto" per entrare in relazione con gli altri. In questo senso la diagnosi psichiatrica e il processo di costruzione di identità di "paziente psichiatrico" mette l’arrivante – così come lo chiamerebbe Derrida – colui che non ha nessun tipo di identità facilmente e immediatamente riconoscibile, sancita da un documento, da un certificato che attesti chi realmente egli sia, colui che arriva quando non lo aspettiamo, laddove non lo aspettiamo, nelle condizioni di essere riconosciuto attraverso l’assegnazione ad una categoria sociale precisa (quella di malato di mente, di folle) che fornisce sì un’identità, l’appartenenza ad un mondo, ma al contempo stigmatizza la persona svolgendo una funzione di rassicurazione nei confronti della collettività, radicando sempre più la dicotomia "noi, i sani"/"loro, i folli".
La rete dei Servizi può essere una rete che imbriglia, mentre attraverso le sue tramature, i suoi buchi, dovrebbe essere una rete che mette in comunicazione con l’esterno e non una rete che chiude la comunicazione.
Il ruolo della formazione è stato ampiamente affrontato come nei precedenti seminari parlando della comunità come l’unica possibile e cioè quella internazionale (si veda a tal proposito l’intervento di Gualtiero Harrison tenutosi in occasione del primo seminario) e della necessità di assumersi una certa responsabilità.
Si è parlato, infine, della strumentalizzazione del concetto di cultura portando esperienze diverse, ma facendo emergere come questa strumentalizzazione divenga un blocco monolitico che pesa sulle vite delle persone impedendoci di pensare a nuove prospettive e facendoci imbrigliare nella rete. Quindi, piuttosto di parlare di disagio legato alla multiculturalità, dovremmo parlare di disagio interculturale nel senso che il disagio psicologico, mentale, la sofferenza psichica è sempre un disagio tra culture che interagiscono: sono due culture in interazione anche il terapeuta e il suo paziente, entrambi connazionali.
Concludo con questa frase che mi sembra esemplificativa del seminario di oggi: "molto spesso chi non è in grado di costruire un mondo nuovo lo replica con le sole categorie che ha a disposizione" e questo accade sia per gli operatori che non sono formati ad incontrare la diversità che per l’immigrato che replica il suo mondo qui.