NON ABBANDONARE, NON MORTIFICARE

 

1. Una riforma sofferta

 

Poche altre discipline, fra quelle introdotte di recente in Italia, si presentano agli occhi del lettore con un volto promettente e, al tempo stesso, sofferto quanto l’amministrazione di sostegno.

Così già a ripensare le tappe che separano, cronologicamente, la redazione del primo progetto rispetto alle ultime fasi dell’approvazione parlamentare: un arco di più di quindici anni fra la data del famoso convegno triestino del 1986 e il voto conclusivo del Senato, pochi giorni prima del Natale 2003. Con un’altalena di successi contingenti (al Consiglio dei ministri, in qualcuna delle commissioni, in questa o quell’aula) e puntuali delusioni alla scadenza dei lavori; rimbalzando fra una legislatura all’altra, ogni volta a ricominciare!

Un testo messo a punto, come spesso accade alle normative sui soggetti deboli, con grandi aspettative e fervente attenzione; seguito poi nel cammino romano, passo dopo passo, soprattutto dagli addetti ai lavori, oltre che da rari politici sensibili; con rischi di insabbiamento a ogni occasione, anche durante il triennio 2001/2003 – con un’approvazione giunta infine all’unanimità, in termini pressoché fortunosi, rocamboleschi.

Anche il debutto applicativo della legge, se si guarda alle diverse zone del paese, non può dirsi avvenuto all’insegna della scioltezza, del massimo di uniformità e di concordia: con due ordini di riscontri che – nei commenti dottrinari, presso gli operatori socio-sanitari, nelle cronache dei giudici tutelari – mostrano frequentemente di intrecciarsi.

Da un lato la presa d’atto delle tante mancanze di contorno, nell’apparato circostante all’A.d.S., sotto il profilo gestionale/organizzativo: ritardi e contraddizioni lungo il territorio, vastità della clientela ma esiguità numerica dei giudici tutelari; complessità del lavoro istruttorio e frequente inadeguatezza dei servizi sociosanitari, fabbisogno di amministratori di sostegno al di fuori della famiglia e difficoltà di reperirli, volontariato generoso ma spesso impreparato. E così via.

Dall’altro lato la sensazione, diffusa presso molti osservatori, di un "fai-da-te" eccessivo a livello di conduzione giudiziale – città per città, talvolta stanza per stanza dello stesso corridoio. Qua propensione a de-burocratizzare il più possibile, là inclinazioni al formalismo e alla pignoleria; da un canto giudici decisi a investire ogni energia personale sul nuovo fronte, dall’altro magistrati fermi a una denuncia circa i "velleitarismi" della svolta, pronti a passare ogni "patata bollente" a qualcun altro. Per un verso interdizioni che continuano a pieno ritmo, per l’altro amministrazioni di sostegno istituite nel 100% dei casi, gravi o meno gravi.

Un consuntivo non del tutto roseo, in definitiva, comunque un bilancio ancora aperto. Luci e promesse, senza dubbio; ma, nell’opinione di più d’uno, anche ombre ricorrenti da registrare. Sentimenti compositi in prevalenza: soddisfazione (o euforia) per un progetto legislativo così ardito, quasi "rivoluzionario", giunto in porto finalmente; e insieme però timori di sfaldature nella pratica, percezione di sacche di indifferenza culturale – rassegnazione dinanzi all’impossibilità, paventano alcuni, di un welfare davvero al passo con i tempi.

 

 

1.1. Struttura e contingenze

 

Verso cosa debba orientare il riscontro delle carenze nel territorio, e delle disomogeneità fra risposte di un ufficio e dell’altro, avremo presto modo di vedere.

Restando sul terreno positivo: vi è un dato che, a giudicare proprio da alcuni fra i provvedimenti giudiziali emessi dopo l’entrata in vigore della legge (nonché da certi scritti dottrinari, fra quelli pubblicati nel corso di questi anni), colpisce a prima vista: le difficoltà – che qualche nostro interprete accusa – nel riuscire a distinguere ciò che all’interno della riforma si presenta come il nucleo centrale, "eponimico" circa gli intenti profondi di chi l’ha varata, rispetto a quel che appare frutto piuttosto di scelte compromissorie, di esitazioni su questo o quel punto.

Anche incertezze (o sordità) del genere richiedono di essere, a loro volta, spiegate. Ed è manifesta comunque l’ambiziosità del legislatore del 2004: sottrarre un insieme così variegato di persone fragili nel nostro paese – centinaia di migliaia, se non tanti più – ad una condizione di oblio, di marginalità nella vita civile!

Resta il fatto che, al di là di qualche titubanza, le direttrici autentiche della novella si lasciano cogliere con facilità.

 

 

1.2. Le singole disposizioni

 

Il testo delle legge é ben noto. Tutto comincia – restando alle disposizioni che concernono direttamente l’A.d.S. (altre norme riguardano l’interdizione, altre ancora sono regole di attuazione, di coordinamento e finali) – con una dichiarazione di carattere introduttivo, destinato a non entrare poi formalmente entro il codice civile: vi si prevede che "la presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente".

All’art. 404 c.c. vengono enunciati i principi cardine della riforma: dinanzi a una "infermità" o ad "una menomazione fisica o psichica" – che sia tale da causare l’"impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi" – la persona sofferente potrà "essere assistita da un amministratore di sostegno".

L’art. 405 si sofferma su alcuni aspetti di natura procedimentale. Il giudice tutelare deve provvedere entro sessanta giorni dalla data del ricorso, e la decisione avverrà con "decreto motivato immediatamente esecutivo": potranno adottarsi anche d’ufficio provvedimenti urgenti, di natura personale o patrimoniale; sarà possibile far luogo alla nomina di un amministratore provvisorio. Infine, l’indicazione di ciò che il decreto di nomina dell’amministratore deve, di regola, contenere – con precisazioni varie circa i profili pubblicitari dell’atto.

Nell’art. 406 viene indicato quali siano i soggetti abilitati a proporre il ricorso: l’interessato stesso, le varie figure di cui all’art. 417 c.c., più i responsabili dei servizi sociosanitari. L’art. 407 indugia, subito dopo, su taluni passaggi di natura procedurale e istruttoria: contenuto necessario del ricorso, colloquio diretto fra giudice e persona interessata, eventuali attività volte ad assumere informazioni, decisioni che possono assumersi anche d’ufficio dal g.t., partecipazione del pubblico ministero.

La norma successiva fissa i criteri da seguire per la scelta dell’amministratore: possibilità di designazione (formalizzata) – anche in via preventiva – ad opera del soggetto bisognoso; conferibilità dell’incarico da parte del g.t. ai familiari più stretti, compresi quelli di fatto, oppure a colui che sia stato indicato dal genitore superstite; eventualmente ad altri soggetti (non però agli operatori sociali che siano coinvolti direttamente nella cura dell’interessato), magari a una persona giuridica.

Segue l’ art. 409 – intitolato agli effetti dell’amministrazione di sostegno — ove si precisa che il beneficiario conserverà in linea di principio la capacità d’agire, specificando come ciò sia destinato a valere, senza eccezioni, per quanto concerne gli atti della vita quotidiana.

L’art. 410 tratta dei doveri gravanti sull’amministratore. Necessità che costui tenga, in particolare, conto dei "bisogni" e delle "aspirazioni" dell’interessato; obblighi di informazione circa gli atti da compiere, e ciò tanto nei confronti del beneficiario, quanto (in ipotesi di dissenso) verso il giudice tutelare. La norma stabilisce che sarà quest’ultimo – nell’eventualità di dissidi, errori, inerzie dannose, etc. – ad adottare gli opportuni provvedimenti.

L’art. 411 elenca poi quali regole, fra quelle dettate in tema di tutela dei minori, siano applicabili all’amministrazione di sostegno; e altri rimandi hanno per oggetto, subito dopo, disposizioni varie in tema di testamento o di donazione. Segue una clausola di vasto respiro, nell’ultimo comma, che riserva al g.t. il potere di estendere al caso considerato — ogniqualvolta ciò appaia opportuno – taluni "effetti, limitazioni o decadenze" di cui alla normativa sull’interdizione e inabilitazione.

Ecco ancora l’art. 412, con le disposizioni inerenti alla patologia negoziale: annullabilità, in particolare, degli atti che siano stati compiuti – dall’amministratore – in violazione di legge, o in eccesso rispetto ai poteri conferiti dal giudice; soluzione non diversa relativamente agli atti che vengano posti in essere – dal beneficiario – in contrasto con quanto stabilito nel decreto del g.t. Termine per l’azione: cinque anni, in ambedue le ipotesi, con decorrenza dal momento in cui il regime di amministrazione di sostegno sarà cessato.

Infine l’art. 413, che fissa la disciplina concernente la revoca dell’amministrazione di sostegno, nonché le regole in tema di sostituzione dell’amministratore: possibilità rimesse entrambe – dietro istanza del beneficiario o di altri soggetti, e dopo le correlative istruttorie – alle valutazioni del g.t., il quale potrà provvedere anche d’ufficio.

 

 

2. Cardini dell’istituto

 

Sin qui il contenuto delle disposizioni più importanti.

E’ palese, già a una prima scorsa, come si tratti di indicazioni fortemente innovative, sotto molteplici punti di vista: coralità nei meccanismi d’intervento, sapore interdisciplinare a ogni passaggio, anzitutto; mancanza di rigidità statutaria, lessico ostinatamente sensibile ai momenti della promozionalità – attenzione per le ricadute emotive e familiari di ogni decisione, snellezza nel rito, importanza del ruolo anche formale che i servizi sociosanitari si vedono riconoscere.

Non è un caso che dell’A.d.S. si sia, fin dagli inizi, parlato come di un primo suggello e al tempo stesso di un faro avanzato — quasi un punto di non ritorno – sulla rotta avente di mira il "diritto dei soggetti deboli": realtà già in nuce nel nostro ordinamento, da qualche decennio a questa parte, per tanti aspetti (si precisa) in attesa di venire completamente alla luce, in cerca ancora di una fisionomia ben precisa.

Ma veniamo ai punti chiave della legge.

Fra le soluzioni prescelte nel 2004 s’è detto come qualcuna sia apparsa oscura, poco felice sul piano dogmatico, a una parte dei nostri interpreti. Sono critiche comprensibili in certi casi – e altri appunti di ordine tecnico potrebbero, giustificatamente, sollevarsi. Un’attenta lettura rivela comunque (tenuto conto dei fondali storico/geografici del primo progetto, e dei motivi che hanno costellato l’itinerario parlamentare) quali siano i principi ispiratori del provvedimento.

 

 

2.1. L’art. 1 della legge

 

Nessun dubbio circa i tratti disciplinari in cui l’essenza della riforma va ravvisata: è il legislatore stesso ad enunciarli apertamente, del resto, con una proclamazione "intrecciata" entro la medesima disposizione – quella in cui vengono definiti gli obiettivi generali del provvedimento, ossia nel testo dell’art.1.

Il primo caposaldo (sancito con la formula "finalità di tutelare … le persone prive in tutto o in parte di autonomia") è un tutt’uno con il no che si proclama dinanzi a ogni situazione di abbandono, per i soggetti versanti in difficoltà – portatori cioè di un disagio tale da insidiare, nella quotidianità, il concreto esercizio di questo o quel diritto civile.

Il secondo (ritrovabile nella frase "con la minore limitazione possibile della capacità di agire") è costituito dal no che la legge pronuncia rispetto a qualsiasi proposta o via d’uscita giudiziale tale da annunciarsi — suscettibile comunque di essere vissuta – come oppressiva e mortificatoria per l’interessato.

A questi due fuochi di partenza è riconducibile, capoverso per capoverso, il resto dell’intera normativa.

Circa poi il coordinamento fra l’un momento e l’altro, in ordine alle opzioni da preferire sul terreno ermeneutico, i binari per l’interprete si lasciano cogliere facilmente:

(a) se è pur vero che taluni fra gli esiti di cui alla novella si presentano, in the book, riportabili più marcatamente al raggio d’azione del primo canone; mentre altre misure sembrano rientrare soprattutto nell’ambito precettivo del secondo: la verità è che le direttrici di cui all’art. 1 appaiono largamente compatibili fra di loro, tendendo anzi ad influenzarsi in maniera vicendevole (ciò che è "abbandonico" diventa alla lunga "avvilente" per la persona, e viceversa); e, nei passaggi migliori della legge, che sono anche la larga maggioranza, ciascuna lascia ben trasparire il proprio timbro d’origine;

(b) agli effetti applicativi ambedue i "no" di cui all’art. 1 dovranno atteggiarsi, in via congiuntiva, quali "filtri generali di ammissibilità"; ciascuna indicazione dotata (per così dire) di un suo autonomo potere di veto: nel senso della sicura contrarietà alla vis ac voluntas legislativa per ogni conclusione teorico/pratica che si presentasse come fedele, in apparenza, ad uno dei due imperativi – e che si prospettasse tale però, nella sostanza, da calpestare inopinatamente le indicazioni o lo spirito dell’altro.

 

 

2.1.1. Individui non autosufficienti

 

Quanto al primo principio, possiamo dire allora di trovarci (come il dato letterale appena ricordato attesta) di fronte a un intervento a largo spettro, fortemente secolarizzato nei suoi passaggi – e ciò anzitutto dal punto di vista soggettivo: con riguardo al target di persone cui il nuovo presidio risulta cioè, formalmente, destinato.

Il diritto privato non può limitarsi, ecco la traccia da cui il legislatore muove, a prendere in considerazione e salvaguardare la sola "clientela pesante" – gli individui schiacciati, senza tregua e per sempre, lungo le soglie estreme della disgrazia o dell’inettitudine: creature impossibilitate a fare alcunché nella loro vita o destinate, ben che vada, a combinare periodicamente disastri (a se stessi, ai familiari, a chi sta loro accanto). Non esistono sulla terra soltanto situazioni del genere.

Sotto il profilo della destrezza mentale, per cominciare. Il mondo non è fatto (si legge negli scritti degli stessi civilisti, sempre più spesso, partire dagli anni 70, soprattutto dopo la l. 180/1978; e sarà anche il punto di partenza del primo progetto di riforma sull’A.d.S.) unicamente di soggetti sani al 100%, oppure malati "di testa" al 100%. Innumerevoli sono gli esseri umani che sul piano dell’intendere o del volere si collocano, piuttosto, a metà strada, che stanno psichicamente "così così": bene una settimana e male quella dopo, lucidi per un verso e distratti per l’altro; qua vitali, smaniosi e là invece torpidi o rassegnati – assenti e presenti al tempo stesso.

Né il discorso è diverso per le residue categorie che, secondo la nomenclatura tradizionale, rientrano nell’area della c.d. devianza: alcolisti, anziani della quarta età, morenti, visionari, down, handicappati, parkinsoniani, oppure barboni, sofferenti del morbo di Alzheimer, maniaci del sesso, oligofrenici, vittime di un ictus, giocatori, o ancora pazienti in SVP, tossicodipendenti, coatti e anancastici, eremiti, seguaci di una setta, e così via. Basta guardarsi intorno, sfogliare le statistiche di settore. V’è, anche all’interno di fasce del genere, chi ha perduto le forze al 100%, non ha più il lume degli occhi, conclude poco o nulla di buono; e ci sono invece le persone (la grande maggioranza) che non appaiono toccate dalla sorte fino a quel punto – e a cui necessita però occasionalmente qualche ausilio.

C’è chi funziona su alcuni versanti (poniamo) e non su altri. Reagisce bene di qua e male di là – è troppo ingenuo, ha scarsa memoria, si lascia spesso imbrogliare, sbaglia due conti su tre; sembra cavarsela da solo, a prima vista, ma in realtà perde regolarmente fatture e bollette, sottovaluta i pericoli, trascura i suoi bisogni, manca d’iniziativa o di feedback: non vuole ammettere le proprie goffaggini, incespica, vive di ricordi, tradisce segreti mancamenti che lo isolano ogni tanto dal resto del mondo.

Non gli servirà un appoggio 24 ore al giorno, dal diritto privato; ma ha pur sempre necessità di essere supportato, contingentemente, tanto quanto richiede il suo benessere.

 

 

2.1.2. Situazione pre-riforma

 

Il grande limite di un sistema come quello del 1942 (ecco l’accusa di fondo, ricorrente nei lavori preparatori dell’A.d.S.) è quello di occuparsi solamente dei disabili gravi, degli individui più seriamente colpiti dal destino, soprattutto a livello mentale; la massa dei c.d. borderline viene lasciata a galleggiare per conto proprio: soggetti che non stanno abbastanza male, psichicamente, da poter essere interdetti o inabilitati — e null’altro esiste, nell’armamentario del codice, che possa disporsi a loro beneficio.

In una situazione del genere – cominciano ad accorgersi gli addetti al diritto privato, ascoltando le cronache degli assistenti sociali, dei più diversi comparti amministrativi – tanti sono i percorsi attraverso cui "coloro che non ce la fanno" potranno, giorno per giorno, scivolare nella precarietà o nel degrado. Disturbi all’intelletto o meno.

Per i "terzi" e passanti vari, in attesa magari sul pianerottolo (fornitori, postini, condomini, questuanti, piazzisti, etc.), tutto è spesso il regno dell’ignoto: chissà oltre l’uscio chi potrà esserci, quei rumori come andranno spiegati. Cosa sta succedendo dentro casa! Per chi è nell’appartamento, e non è in grado di "cavarsela" da solo, dipende ogni volta dalle circostanze; talora i contrafforti abituali reggono, non sempre però: sospettosità e noncuranze, allora, occultamenti magari, prevaricazioni striscianti, rinunce a vivere alla luce del sole, débauche.

Quanto poi ai tramiti istituzionali che dovrebbero, in un immaginario di comodo, fungere da ammortizzatori tecnico/sociali della fragilità, una volta che il velo sulle cose venga alzato le disillusioni non tardano:

(a) la negotiorum gestio, anzitutto. La sua presenza ufficiale nel c.c. (tanto spesso rammentata a chi neppur sapeva che esistesse, una figura del genere – ad esempio agli operatori dei dipartimenti di salute mentale, per tranquillizzarli rispetto a quanto alcuni di essi già fanno, quotidianamente) non basta certo a risolvere le questioni. Non sempre almeno: i vicini di piano possono essere in vacanza o mancare di altruismo; gli ex colleghi di lavoro malati oppure all’altro capo della città; gli assistenti sociali esistono soltanto sulla carta, magari, o si fanno vedere raramente, o sono inesperti di cose di diritto. Il dominus può, dal canto suo, opporsi a qualunque ingerenza, talora anche rispetto a iniziative sacrosante, indifferibili.

Pur quando le premesse parrebbero le migliori, il risultato è non di rado insoddisfacente. Il gestore non ha (quasi per definizione) il quadro preciso di ogni risorsa patrimoniale, ignora le emergenze più riposte: interviene alla giornata, non coltiva priorità meditate. Anche dove non combini pasticci, il rischio di frammentarietà organizzative – privo com’è di sapienze o di controlli esterni – rimane notevole.

(b) Le procure ufficiali, poi, le ricevute sui moduli, i contratti alla luce del sole – con tanto di notaio o di pubblico ufficiale o di funzionario della banca.

Sarà, l’esperto o il professionista di turno, disposto a fingere sempre che sia tutto regolare, impeccabile? Pronto a tenere gli occhi mezzi aperti e mezzi chiusi – fra protocolli, capezzali, omertà, ufficiali giudiziari, estreme unzioni, verbali di pignoramento, ipocrisie e stanze d’ospedale; accanto a psichiatri riluttanti o ammiccanti; con invalidità negoziali spesso in agguato, responsabilità disciplinari e civili dietro l’angolo, lacerazioni fra buon cuore e prudenza di mestiere?

(c) La famiglia infine. Quando esiste e funziona davvero, nessun problema (o quasi); e pazienza se alcune firme a penna saranno false, in margine ai prestampati, se metà delle deleghe corre ai bordi dell’invalidità – se qualche mandato tacito appare forzato o inventato, con la complicità dei terzi.

Va ogni volta così, però, tutto è compiuto sempre a fin di bene, disinteressatamente? Troppi episodi di cronaca attestano il contrario.

Incurie, neghittosità anzitutto: il parente "strano" messo da parte, in una stanza lontana, nessuno che lo accontenti nelle attese più sentite (pur se un piatto di minestra può non mancare). Segregazioni talvolta: catenacci tirati, vergogne da nascondere, catene vere e proprie. Oppure affetti morbosi, eccessivi, folie à deux, morte incombente sul genitore del disabile – preludio, in certi casi, a un omicidio/suicidio finale (a un "suicidio allargato").

Interdizioni forzate, ancora, ingiustificate opposizioni alla revoca: meglio, hanno pensato i parenti, nel rivolgersi al tribunale, che non sia il congiunto ad amministrare la sua pensione di invalidità (tanto più quando in famiglia non v’è altro); conti correnti che si prosciugano, allora, beni di casa svenduti. Le finte deleghe come mezzo per spogliare, giorno per giorno, il familiare indifeso.

 

 

2.1.3. Presa in carico

 

E’ per rovesciare tutto ciò che il progetto sull’amministrazione di sostegno, tra la metà degli anni ’80 e i primi anni ’90, verrà formalmente messo in campo: il no alla dismissione sistematica rispetto ai soggetti "deboli" – l’assunzione al riguardo di impegni di copertura/puntello (sulla falsariga già collaudata nella legge 180) – diventa, anche per il legislatore italiano, l’oggetto di un’esplicita linea di interventi.

(i) Colmare anzitutto il "grande vuoto" di salvaguardia, sul terreno civilistico: mai più in futuro zone di nessuno fra il piano delle istanze gestionali, grandi e piccole, quali si affacciano nella vita di una persona – che non sta né bene né male del tutto – e quello delle possibilità formali di esaudimento.

Vi sarà uno strumento atto a plasmarsi d’ora in poi, tecnicamente, sui deficit funzionali di quel destinatario (il "vestito su misura"); per far sì che, da qualcuno titolato per farlo, i vuoti di reazione o di prontezza – quelli e nessun altro – possano essere colmati tempestivamente, a livello patrimoniale come non patrimoniale.

(ii) Al bando poi le mezze finzioni di capacità negoziale: a fronteggiare le scadenze in agenda sarà un vicario di nuovo tipo, ammesso al compimento di determinati atti o contratti – magari uno soltanto – sulla base di un provvedimento specifico del g.t.

Basta per sempre uffici da prestare imbarazzatamente – per i notai o per i pubblici ufficiali – in contesti di clienti sospesi a mezz’aria, fra lucidità tendenziale e ricorrenti turbe psichiche, senza vie d’uscita appropriate; sullo sfondo di operazioni giuridiche urgenti, nella cerchia di parenti magari voraci o indigenti. Con sottoscrizioni e rogiti tanto essenziali ai fini pratici, quanto formalmente arrischiati, impresentabili.

(iii) Tramontato anche l’azzardo delle gestioni – un po’ forzate, inevitabili – di affari altrui (art. 2029 c.c.); svolte con premura magari, spesso maldestramente però, nel difetto di istruzioni coerenti, articolate. A sostenere chi è in affanno, perduto nel suo romitaggio, provvederà ormai un rappresentante vero e proprio (o un curatore); senza più spazio per "filosofie originali", oppure libere improvvisazioni o esperimenti, su ciò che è meglio per agli altri a questo mondo.

Chi si veda investito del potere, dal magistrato, dovrà seguire i binari che traccia quest’ultimo, secondo cadenze ben precise, al di là di ogni discontinuità o facoltatività – quando occorra, con obblighi prefissati di inventario e rendiconto.

(iiii) La famiglia ancora: finite per sempre le cambiali in bianco, da parte dell’ordinamento, nulla più di scontato nelle nomine. E’ probabile sia da cercare lì, in prima battuta, il soggetto cui rimettere gli incarichi del caso; toccherà chi a di dovere stabilirlo, comunque, a null’altro guardando se non alla convenienza dell’interessato.

Se è un parente il prescelto del g.t., le attività di cui al decreto non si scosteranno, verosimilmente, da quanto sarebbe stato comunque intrapreso ex art. 2029 c.c., in maniera spontanea; non è detto però – potrebbe anche andare diversamente, soprattutto con riguardo alle decisioni di maggior peso (specie quelle contrarie all’interesse dei congiunti). E differenti saranno, in ogni caso, le regole da osservare circa i controlli, i tempi della contabilità, le sanzioni dinanzi a irregolarità o negligenze.

(iiiii) Non più margini di rinvio o accantonamento, infine, per la pubblica amministrazione; nessuna scusante per le amnesie di tipo politico/istituzionale (così frequenti nel campo del bisogno dei cittadini). Piena consapevolezza, presso il legislatore del 2004, che numerosi sono al mondo i "cani perduti senza collare" – che i p.m. possono non saperne nulla, che spesso manca un nucleo domestico alle spalle; che una società evasiva o poco solidale non merita di sopravvivere più di tanto.

L’assunzione dichiarata presso la comunità, allora, di impegni di supporto assiduo, permanente: assistenti sociali chiamati a bussare alle porte di casa (insistentemente quando occorra), con una segnalazione dei casi che imporrebbero un approdo all’A.d.S.; nuove distribuzioni di lavoro all’interno dei tribunali, cancellerie e ruoli potenziati di tanto. Sinergie da ritoccare nei bilanci degli enti territoriali, raccordi inediti entro i capitoli della l. 328.

Complicità fra il livello dell’assistenza socio-sanitaria e il momento del vicariato civilistico: il tratto individual/negoziale destinato a intrecciarsi sempre più sovente, entro i piani regionali, con quello amministrativo — l’uno concepito come prolungamento dell’altro, utente per utente. Una "presa in carico" collettiva, rigorosamente intesa.

 

 

2.2. Diritto al sostegno

 

E’ quanto basta, pensando al rango delle situazioni soggettive che il legislatore tratteggia, per accorgersi come ci si trovi di fronte alla configurazione – all’ingresso nell’ordinamento italiano – di un autentico diritto al sostegno per le persone deboli.

Significativa in tal senso la circostanza che, per i comportamenti deputati alla fornitura di quel supporto, la prospettazione in termini di "doveri" (quando non di veri propri "obblighi" giuridici) risulti in modo esplicito dal testo della novella del 2004, o appaia direttamente ricavabile dal nostro sistema — a cominciare dagli articoli della Costituzione.

Più precisamente, siamo dinanzi al modello di una prerogativa individuale complessa, derivante dall’insieme di più momenti, da prestarsi via via alla persona non autosufficiente; alcuni dei quali inerenti, temporalmente, alla fase che precede l’apertura del procedimento di A.d.S., altri ancora a quella dello svolgimento dello stesso, altri piuttosto al dipanarsi quotidiano della gestione. Tutti con propri contenuti specifici e ognuno da riconnettere, partitamente, ad uno o a più soggetti/debitori ben precisi – di taglio più marcatamente privatistico o pubblicistico, a seconda dei casi.

 

In particolare:

(a) sulla pubblica amministrazione (e il pensiero corre soprattutto alle direzioni delle ASSL, e al management degli uffici/assessorati regionali e comunali) cade l’obbligo di organizzare – a monte – la rete dei servizi in modo da prevenire l’eventualità stessa di vuoti assistenziali, o di silenziose emarginazioni: l’impegno a che non difettino sul campo, in particolare, operatori pronti a cogliere via via gli indizi di "ristagno di cittadinanza", e a provvedere di conseguenza;

(b) sul Ministero della giustizia, in una con i responsabili delle varie sedi giudiziarie, incombe il dovere di evitare che tra il numero dei ricorsi ex art. 406 c.c., affluenti man mano alle cancellerie, e l’insieme dei giudici tutelari attivi in quella sede, possano crearsi forbici insidiose per l’efficienza delle procedure; tali ad esempio da vanificare, in troppi casi, l’indicazione dei sessanta giorni, termine entro cui il decreto di A.d.S. deve per principio emanarsi (art. 405 c.c.);

(c) il giudice tutelare e il pubblico ministero saranno, dal canto loro, tenuti a scongiurare pericoli o tentazioni di "diniego di giustizia": ad es., mancato riscontro (con effetti comunque abbandonici o mortificanti) della sostanza di una pratica, sotto pretesto di questo o quel "cavillo" interpretativo, in ogni caso irrispettoso della voluntas della legge; interdizioni o inabilitazioni promosse artatamente, disposte comunque senza valide ragioni; disattenzioni significative compiute in sede istruttoria (omesso colloquio del g.t. con l’interessato, audizioni frettolose, etc.); inerzie contrastanti con il potere-dovere del giudice di operare anche d’ufficio, per il bene della persona; negligenze relative alla fase di svolgimento dell’ Ad.S. vera e propria (proteste del beneficiario ignorate, denunce circa abusi dell’amministratore messe da parte, etc.);

(d) i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, laddove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, saranno tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’articolo 407 o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero (così l’art. 406 c.c., ult.co.);

(e) sui familiari, con diverse graduazioni a seconda dell’intensità che il motivo assistenziale riveste (anzitutto sul terreno dei legami: coniuge, piuttosto che genitori, oppure figli, nonni, nipoti, magari parenti più lontani), incombono tutta una serie di doveri: quello, preventivo, di impedire il formarsi di "capri espiatori" in ambito domestico; quello, subito dopo, di non sequestrare, di non maltrattare, di non derubare il congiunto debole; quello di evitare comunque teatralità atte a facilitare, all’esterno, l’approdo a interdizioni o inabilitazioni ingiustificate; quello, ancora, di non presumere troppo dalle proprie forze (ad es. sotto il profilo della continuità assistenziale), rinunciando agli eccessi di orgoglio, non celando al di fuori l’esistenza di un parente "a rischio"; e così avanti;

(f) l’amministratore di sostegno si vede gravato, a sua volta, di obblighi che in parte risultano esplicitamente dal testo del 2004, in parte derivano dal richiamo a qualche norma di legge, in parte sono ricavabili dal complesso dell’ordinamento: dialogo paziente col beneficiario, chiarimenti periodici circa i dettagli della gestione, diligenza nel compimento dell’ufficio, correttezza dinanzi a conflitti d’interesse insorgenti, non travalicamento dei poteri conferiti dal giudice, etc.

Quanto poi alle azioni giudiziali a difesa del "diritto al sostegno" (da esperirsi, ricordiamo, ad opera dello stesso beneficiario, dell’amministratore di sostegno, di un curatore speciale, a seconda delle occasioni), va sottolineata sin d’ora la possibilità che è riconosciuta all’interessato, nel nuovo quadro legislativo, di stare lui stesso per l’attivazione del procedimento (art. 406 c.c.), oppure per far revocare un’eventuale interdizione precedente (art. 406) o ancora per ottenere la sostituzione dell’amministratore (art. 413) nonché la facoltà che gli è attribuita, salve esplicite esclusioni nel decreto istitutivo dell’A.d.S., di richiedere in prima persona — nei confronti di questo o quello fra i "debitori", ove sussistano gli estremi dell’illecito — il risarcimento del danno.

 

 

2.3. Dentro il codice civile

 

Passando ai profili "logistici" dell’Ad.S., merita sottolineare un dato che, storicamente, non sempre è stato così ovvio – come oggi può apparire – nel ruolino di marcia del legislatore. E ci si riferisce alla scelta, che i redattori hanno compiuto a un certo punto, di insediare la neo-disciplina nel seno stesso del codice civile.

(I) C’è stato un tempo in cui siffatta opzione, ricordiamo, era stata pressoché rimossa dall’agenda dei lavori. A qualcuno dei funzionari romani, esperti in labirinti parlamentari e ministeriali, l’assunzione di un traguardo così ambizioso appariva (ecco il rischio) zeppa di controindicazioni "politiche", di incognite sul piano strategico – tali da infirmare seriamente le chances di futura approvazione.

Ben più saggio, nei confronti di una novità debolologica tanto "bizzarra" (in un paese a vocazione interdisciplinare così scarsa), puntare su una veste formale meno aulica, sull’involucro di qualche provvedimento speciale – il più oscuro o di settore possibile, si consigliava, meglio se estraneo alle problematiche del disagio.

Meglio sfumare anzi qua e là, ecco il suggerimento finale, lo stesso taglio civilistico dell’articolato: modificando titoli e rubriche, ritoccando qualche passaggio disciplinare (perché ad es. quegli addolcimenti dell’interdizione, a che scopo spaventare i conservatori?); allestendo eventualmente intorno al testo una sorta di parvenza ospedaliera, di destinazione infermieristica – confidando poi nell’indulgenza di filtri istituzionali diversi da quello della Commissione Giustizia della Camera (notoriamente arcigna con le riletture troppo ardite del c.c.).

 

Portare a casa il risultato anzitutto!

 

(II) Il paradosso di una tale sistemazione — con l‘"eccezione" statutaria (vale a dire l'interdizione, buona per non più del 3% fra i malati di mente) destinata a rimanere imperturbata nel codice, forte dei suoi quasi venti articoli; e con la "regola" (ossia l'amministrazione di sostegno, preziosa per tante fra le persone socialmente fragili) confinata entro le strettoie di qualche leggina — non poteva sfuggire a lungo agli interpreti.

Da un certo momento in avanti, affinatasi la sensibilità dell’ambiente politico, quell’ipotesi riduttiva verrà così abbandonata – aprendosi la strada alla soluzione che è stata accolta, alfine, dal nostro parlamento: un ritorno all’originaria collocazione normativa, le difficoltà gestionali delle persone chiamate col loro nome, un’enfatizzazione per l’A.d.S. anche sul piano gerarchico.

 

 

2.3.1. Cos’è cambiato

 

La tecnica utilizzata è stata, in particolare, quella di modificare, attraverso l’art. 2 della l. n. 6/04, la rubrica del titolo XII del libro primo del codice civile – già intitolata "Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione" – denominandola "Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia".

Con il successivo art. 3 è stato introdotto nel predetto titolo XII un capo I, intitolato "Dell’amministrazione di sostegno", nel quale le norme disciplinanti il nuovo istituto sono state inserite come articoli dal 404 a 413 (questi ultimi, nel testo originario del codice civile, facevano parte del titolo XI relativo all’affiliazione e all’affidamento ed erano stati abrogati dall’art. 77 della legge 4 maggio 1983, n. 184; ormai privi di testo vigente, questi articoli sono stati utilizzati dal legislatore del 2004 per inserirvi la disciplina del nuovo e diverso istituto).

 

Tre le osservazioni da muovere rispetto a tutto ciò:

– in confronto alla versione precedente, balza agli occhi ben maggiore morbidezza nei registri, sintattici e linguistici, che sono stati impiegati dal legislatore: altro è mettere al centro di una rubrica normativa l’accenno ai tratti clinico/psichiatrici di determinati malesseri, agitando subito spauracchi di incapacitazione; altro indicare come prima cosa i risvolti protettivi, solidaristici di cui godrà il beneficiario, ostentandoli a chiare lettere come filo conduttore dell’intera manovra;

– optando per la nuova dicitura, si dimostra di aver puntato su un contenitore non prettamente medicalistico (la malattia, di natura mentale o fisica, conterà in quanto abbia determinato appannamenti di "autonomia" – la chiave del sì o del no al sostegno è quest’ultima), nonché ben più esteso e variegato sul piano antropologico (non soltanto gli infermi psichici potranno ambire alla neo-salvaguardia civilistica – la "demenza" non è il solo fattore che debiliti una creatura);

– la collocazione della A.d.S. al primo posto, fra i corpi dei tre istituti (come li incontriamo oggi nel c.c.) scandisce anche esteriormente il carattere di residualità che, secondo quanto si ricava da vari altri passaggi, legati al dato letterale della legge, hanno assunto dopo il 2004 i vetusti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.

Resta da aggiungere come, nelle modifiche di questa parte del 1° libro, si esaurisca anche l’elenco delle innovazioni che sono stati apportate, nel 2004, al vigente testo del codice civile (le residue correzioni, effettuate dalla l. 6, riguardano niente più che disposizioni di collegamento). Si è in particolare rinunciato a porre mano, fin da adesso, a una serie di ulteriori rifiniture, de iure condendo, relative alla disciplina della famiglia, del testamento, delle donazioni, della responsabilità civile dei soggetti in difficoltà; cambiamenti che, tratti dalla bozza Cendon del 1986, figuravano invece nei primi progetti presentati al Parlamento.

 

 

2.4. L’incapacitazione come male

 

Non è difficile – scendendo sul terreno più propriamente applicativo – individuare una fra le note di maggior spicco della l. 6/2004 nella prospettazione della capacità d’agire come un "bene" (un fronte da presidiare strenuamente, durante come dopo il procedimento iniziale), e nella parallela sottolineatura dell’incapacitazione come un "male" (un esito cui rassegnarsi solo in caso di necessità, pur di fronte alle menomazioni più gravi).

Nient’altro che un diretto corollario, a ben vedere, del principio in cui è già stato ravvisato uno fra gli imperativi-chiave della riforma – ossia il dogma della non mortificazione per la persona umana. Ma anche sul piano dei raffronti modulari: nessun’area palesa così chiaramente, quanto le regole in tema di capacità, la diversità che intercorre tra imprinting dell’amministrazione di sostegno, da un lato, e armamentario dell’interdizione e dell’inabilitazione, dall’altro lato.

Numerose le occasioni nelle quali il Leit-motiv in esame (il "bene" e il "male" a paragone tra loro) segnala la sua presenza al lettore — ogni volta, può osservarsi, sotto punti di vista differenti. Lo ritroviamo così:

– nella (già segnalata) locuzione di cui all’art 1 della legge, in base alla quale la limitazione della capacità legale dovrà risultare, al termine del giudizio, la minore possibile;

– nell’indicazione di cui all’art. 405 c.c., secondo cui ai soli negozi menzionati specificamente nel decreto di nomina (a quelli e a nessun altro) sarà circoscritto il potere rappresentativo o curatoriale dell’amministratore;

– nell’attribuzione alla persona interdetta o inabilitata della facoltà di proporre essa stessa, direttamente, il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno (art. 406 c.c.);

– nella disposizione secondo cui, alla restituzione di margini più o meno significativi di capacità, al beneficiario, il giudice tutelare può sempre provvedere anche d’ufficio (art. 407 c.c.);

– nel dettato di cui alla prima parte dell’art. 409 c.c., ove si proclama che il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedano la rappresentanza esclusiva, o l’assistenza necessaria, dell’amministratore di sostegno;

– nella precisazione di cui alla seconda parte di quest’ultima norma, secondo cui il beneficiario dell’amministrazione di sostegno potrà, in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana;

– nell’esplicita previsione circa la possibilità per il giudice tutelare di disporre (anche dietro diretto ricorso dell’interessato), che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (art. 411 c.c., ult.co.); previsione destinata a svolgere – su un terreno di politica del diritto, al di là di ogni contraria impressione – chiare funzioni di tenore liberatorio e "anti-incapacitante", nella misura in cui consente che talune linee di protezione intensa, ritenute opportune nel singolo frangente, siano attivabili dal g.t. prescindendo da ogni messa in causa delle figure più arcaiche;

– nei ritocchi introdotti all’art. 414 c.c., dove mostra di essere stata eliminata, con riguardo agli stessi malati di mente abituali, ogni indicazione circa l’ineluttabilità di un approdo all’interdizione: aggiungendosi la specificazione circa l’ammissibilità di un siffatto ripiego in un solo caso, ossia allorquando tanta severità appaia "necessaria" per garantire l’adeguata salvaguardia dell’interessato;

– nell’indicazione, aggiunta ex novo come secondo comma dell’art 427 c.c, in cui si stabilisce che "nella sentenza che pronuncia l’interdizione o l’inabilitazione, o in successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore".

Sin qui gli esiti più significativi, presenti nel testo del c.c..

È però un elenco da integrare (osserviamo) col richiamo a una serie di ulteriori indicazioni, affermatesi in sede di interpretazione, nel corso dell’ultimo periodo: ad es., ammissibilità di un regime di amministrazione di sostegno – secondo quanto chiarito sia in dottrina che in giurisprudenza – di tipo "non incapacitante" (soluzione da prospettare come regola generale, anzi, salvo diverse specificazioni nel decreto); oppure, sovranità tendenziale del beneficiario per tutto ciò che attenga alle decisioni sanitarie; e così di seguito.

 

 

 

2.4.1. Motivi in gioco

 

Dal punto di vista sistematico – ove ci si interroghi sul significato da assegnare, per il terzo millennio, alle tematiche della capacità legale – due sono i tratti che rilevano.

(i) Vi è anzitutto il profilo, caro alle impostazioni di taglio più scopertamente basagliano, che fa leva sulla pervasività delle corrispondenze ideologico-statutariefra soluzione manicomiale e, rispettivamente, logiche di stampo interdittivo/inabilitativo.

Nell’accantonamento ufficiale dell’ospedale psichiatrico, quale paradigma forte dell’ istituzione sanitaria, si saluta così l’evidenza di un rifiuto parallelo, pur esso "di bandiera" – quello da pronunciare verso ogni cultura espropriativa, di sapore meccanicistico, in punto di autonomia degli esseri svantaggiati, sul terreno del diritto privato.

Se la realtà fosse che si può venire esautorati, ai giorni nostri, anche rispetto al 100% delle proprie valenze colloquiali o partecipative (con la sola alternativa, nei contesti meno infelici, di un’impossibilità altrettanto rigida di soccorso: il "grande vuoto" normativo antecedente alla l. 6/2004). Se la spiegazione fosse che ciò è possibile perchè tale si presenta, in the book, la modellistica di aiuto/contenimento per gli individui a rischio (non importa come e perché sopravvissuta fino ad oggi). Orbene, vorrebbe dire che è sempre in auge, al di là delle apparenze, il repertorio delle vie d’uscita canoniche; significherebbe che nel nostro paese gli archetipi dell’istituzione "totale" (contenzioni a fin di bene, fermezze segregative) non sono stati mai davvero accantonati – che sono ancora le tassonomie convenzionali, lo stile e le cifre delle cartelle ospedaliere, il gioco delle perizie e delle diagnosi accademiche a dominare, intatte, nella teoria e nella pratica delle "prese in carico".

Non già, ecco il punto, i riscontri anamnestici e biografici relativi a quella certa creatura: con le inchieste minuziose, hic et nunc, circa le vicissitudini familiari e sentimentali – con l’ascolto intorno alle difficoltà patite in casa, per strada, all’oratorio, sul luogo di lavoro. Col riandare passo passo agli scacchi relazionali del passato, ai lutti, alla gamma delle funzionalità aperte e chiuse, ai paradisi perduti dell’adolescenza, agli incidenti scolastici, agli incontri mancati con il prossimo.

Il ripristino/presidio di cittadinanza viene ad atteggiarsi, a questa stregua, quale valore da apprezzare in se stesso, come frutto di un completamento simbolico – con una duplicità di evocazioni rispetto alle classiche posizioni della persona: da un lato il richiamo alle voci della dignità (da intendersi, stavolta, come rispetto per l’identità specifica di ogni cittadino, non importa quanto "deviante" o menomato); d’altro l’appello ai valori chiave dell’uguaglianza tra soggetti (qui, precipuamente, come ripudio di ogni transitività troppo disinvolta fra sofferenza mentale, pericolosità nell’esercizio dei propri spazi di libertà, ablazione opeiudicis per questo o quel gruppo di poteri).

(ii) Vi è poi (ed è il secondo crinale di lettura) la prospettazione della capacità d’agire quale variabile "tattica", a fini riabilitativi, come conquista disciplinare per sé: una risorsa da custodire in vista di qualcos’altro, per la salvaguardia cioè di congrui margini di recupero/fertilità entro quella sfera — quando non per un rilancio di occasioni di dialogo, di feed-back effettivo, rispetto al contorno circostante.

Di nuovo agganci, come si vede, alle voci più accreditate del lemmario psichiatrico – su un fianco diverso però, quello delle istanze diempowerment/reinserimento sociale. No cioè all’incapacità giudiziale in quanto viatico di umiliazione, spesso di atrofia, nell’esperienza di chi già si trova "nel giro d’aria"— e ciò su entrambi i lati che interessano il diritto privato: quello dell’interfacciamento rispetto all’insieme dei terzi (scambi rallentati, vicendevolezze più ardue) e quello delle modalità di intesa con se stesso (radicalizzarsi degli ostacoli, un immaginario soffocato a 360°).

Mentre chi veda preservati i propri "diritti di cittadinanza", entro l’ordinamento, sarà invogliato a puntare lui per primo (sol che i lieviti essenziali non manchino, a livello di welfare ) su obiettivi correnti di benessere quali ci si era ripromessi inizialmente — a lottare per tornare a farli suoi.

 

 

2.4.2. Direttrici del cambiamento

 

Più d’una, sotto entrambe le angolature, le conseguenze del mutamento di prospettive.

L’orizzonte stesso degli interventi, per cominciare: scelte da compiere non già in via assoluta, ad opera del g.t., bensì lungo cadenze stagionali – quando occorra mensilmente o settimanalmente (secondo come il quadro va evolvendosi). Al centro dell’istruttoria: non già un paziente cui mettere a nudo i grovigli, intellettuali e/o volitivi, magari con l’ausilio di qualche esperto "psi"; piuttosto il conteggio di talune scadenze, proprie dell’ambito bancario, alimentare, sanitario, pensionistico, etc., in vista di un piano adeguato di fronteggiamenti (meglio se tracciato in connessione coi servizi).

Via le etichette di stampo manicheo, kraepeliniano, la psichiatria restituita agli psichiatri: nuove categorie di indagine, sul piano disciplinare, più confacenti agli scenari della volontaria giurisdizione. Propensione a discorrere soprattutto di intermittenze "organizzative", di inadeguatezza burocratica o "contabile". Lealtà rispetto alle sfide liberatorie del legislatore del 2004, senso comune nell’impostare i cimenti ermeneutica – accompagnamento civilistico ai disabili come un quidda graduare, sempre di più, sul terreno della secolarità, del quartiere.

Sguardo innalzato al "grande cielo" del sistema (quarant’anni di diritti della persona in movimento) nell’approccio alle lacune più intriganti.

Non più esami dall’alto dello scranno, trattando coi soggetti in difficoltà (basta con gli sventolii di banconote, coi quiz da tabulati di autoscuola). Delicatezza nel riscontro degli handicap – incoraggiate, per i progetti grandi e piccoli, le faville più segrete della persona. Soppesati, ogni volta, i risvolti patrimoniali e non patrimoniali delle alternative sul tappeto.

Chiusa l’epoca dei "pacchetti confezionati" a monte, per le investiture del vicario, nulla più da trasfondere dall’alto al basso, meccanicamente; semmai una rosa di indicazioni distillate dal g.t., punto per punto, originali per ciascun destinatario. Declino per le categorie onnicomprensive dell’ incapacità, legale o naturale, anche nei settori non toccati esplicitamente dalla riforma: matrimonio, contratti, pagamento, negozi mortis causa, titoli di credito, indebito.

 

 

2.4.3. Combinazioni antropologiche

 

Tre allora – nel momento in cui il rapporto fra "salvaguardia" (di cui la persona in difficoltà abbisogna) e "ablazione di poteri" (quale sbocco eventuale del procedimento) si trasforma così profondamente – le situazioni suscettibili di affacciarsi.

La prima è quella dei soggetti impossibilitati, per motivi di ordine fisico o neurologico, a fare/decidere alcunché da soli: creature bisognose di un pieno soccorso legale, ridotte contingentemente (o irriducibilmente) "al lumicino"; e tenute al riparo tuttavia – dalla stessa gravità della condizione in cui versano – contro la possibilità di errori contrattuali, nonché rispetto all’eventualità di approfittamenti altrui.

Così i soggetti immersi in coma profondo, ad esempio; oppure, in diversa misura, gli esseri colpiti da gravi forme di ictus, i malati terminali, gli ospiti del Cottolengo, i pazienti affidati a una macchina di sostentamento, i portatori di sindromi estreme di oligofrenia o di demenza – in generale gli individui costretti all’immobilità assoluta, quelli murati vivi entro se stessi, non in grado di dare segnali apprezzabili di sé, piegati oltre una certa soglia.

Nessun dubbio qui – pena un abbandono del sofferente al suo destino – sulla necessità di far capo all’intervento di un effettivo alter ego, dotato istituzionalmente di ogni credenziale del caso; e nessun dubbio, parimenti, quanto all’ impossibilità per infermi del genere di farsi (negozialmente) del male.

Ecco entrare in gioco allora — corollario del principio già accennato, che s’intona all’inammissibilità di orpelli e avvilimenti superflui — la regola secondo la quale nessun frammento di sovranità può venire tolto a qualcuno, ope iudicis, laddove pericoli di dissipazione non sussistano.

Donde l’impossibilità di far capo, anzitutto, a coperture come quelle dell’interdizione o dell’inabilitazione (che non potrebbero non comportare un’ablazione, platonica e dunque "maramaldesca", delle prerogative individuali); nonché l’impresentabilità, altrettanto ferma, di esiti ripiegati sulle linee di un’amministrazioneincapacitante (vi è già la crudele protezione offerta dalla vegetalità).

La risposta non potrà giungere, in casi simili, se non dalla messa in opera di un ben preciso modulo di supporto, da articolarsi come segue:

(i) un regime di A.d.S dal raggio ampio quanto occorra, sotto il profilo oggettivo – esteso cioè, ab origine, all’intera fascia della straordinaria e financo dell’ordinaria amministrazione (ove se ne ravvisi l’opportunità);

(ii) fondato, in particolare, sul paradigma di una piena rappresentatività negoziale per il vicario (senza previsioni di momenti curatoriali, ex artt. 405, n. 4, e 409 c.c.);

(iii) epperò tale da non contemplare – ecco il punto – esautoramenti di sorta a carico del destinatario: ciò che verrà compiuto dall’amministratore giorno per giorno potrebbe, in teoria, farlo anche il suo protetto.

 

 

2.4.3.1. Menomazioni fisico/sensoriali

 

Seconda tipologia da considerare, quella degli esseri i quali:

– vantino, per se stessi, condizioni psichiche più che rassicuranti o addirittura impeccabili;

– accusino tuttavia, sotto il profilo fisico/sensoriale, deficit tali da far temere intralci o ristagni di vario genere, nella coltivazione dei rapporti con i terzi (ad es. rapporti condominiali, micro-appalti, intese con cooperative sociali, pagamenti di fatture e bollettini, accordi con infermiere, contatti ambulatoriali, manutenzioni elettroniche, e così via);

– non beneficino hic et nunc (della presenza) di familiari efficienti e affezionati, né della disponibilità e/o generosità di amici e conoscenti;

– così da trovarsi, in definitiva, ostacolati in termini più o meno profondi per quanto concerne il governo quotidiano di sé.

Un soggetto non vedente, poniamo, senza parenti al mondo, assillato da emergenze varie; oppure un sordomuto, goffo agli sportelli degli uffici, privo di congiunti disinteressati. Un individuo in carcere, destinato a restarvi per un po’; magari un adulto non in grado di farsi capire bene (tic, dislessie balbuzie oltre misura): ancora, un sofferente di epilessia, una persona affetta dal morbo di Parkinson (a uno stadio avanzato), uno spastico cronico, qualcuno costretto alla sedia a rotelle e con seri disturbi espressivi. Un neo-immigrato da un paese lontano, tuttora spaesato, frequentemente incerto sul da farsi; qualcuno già in là negli anni ma perfettamente lucido, consapevole; e così via.

Difficile per creature del genere, una volta che gli "impacci comunicativi" di base oltrepassino determinate soglie, riuscire a badare a sé convenientemente, in ogni frangente giornaliero (attraverso acconce iniziative negoziali); e non meno arduo, ove nessun fiduciario degno di questo nome esista all’orizzonte, risolvere quei problemi gestionali per via indiretta, attraverso il conferimento di qualche procura.

Ancora una volta: benché si tratti di situazioni opposte, per tanti versi, rispetto a quelle sopra considerate – nessuna deminutio nelle facoltà di discernimento qui! -, la necessità di attivare un supporto appropriato, sul terreno civilistico, si fa sentire senza che vi sia motivo per paventare azzardi e incognite di sorta, a danno dell’interessato.

Ecco che la soluzione andrà cercata, di nuovo, in un provvedimento di amministrazione di sostegno "non incapacitante"; con la riserva (anche implicita) di una completa sovranità che si conserva al beneficiario, corrispondente al 100% degli atti negoziali – compresi quelli di cui al pacchetto specifico del vicario.

 

 

2.4.3.2 Incapacitazioni giustificate

 

Terza categoria (per certi aspetti la più semplice, anche se, di gran lunga, la meno più diffusa tra i "clienti" potenziali dell’A.d.S.) quella dei soggetti afflitti da malanni psichici abbastanza insidiosi e/o radicati da trovarsi – in via continuativa, ove venissero conservati standard ordinari di pienezza amministrativa – esposti a seri rischi di sperpero/autolesionismo.

Schizofrenie accentuate, propensioni al delirio, anancasmi, stati confusionali e allucinatori, ad esempio: oppure catatonie, Alzheimer avanzati, paranoie acute, depressioni forti, inclinazioni suicidarie: e ancora sindromi bipolari, disturbi profondi del carattere, forme gravi di alcolismo, di tossicodipendenza. Il vecchiotarget dell’interdizione, per intenderci.

Il richiamo alle funzioni di guarentigia che svolgerebbe pur sempre, sulla carta, l’art. 428 c.c. (l’invito ad accontentarsi dell’egida offerta da tale norma, contro possibili disguidi gestionali – onde evitare ai destinatari riflessi di stigma, legati alla pubblicità degli istituti di protezione) non potrebbe certo bastare in casi simili.

A parte ogni altra considerazione, circa le differenze tecnico/statutarie tra le varie figure di incapacità (basti pensare al diverso ruolo della malafede, ai fini dell’annullamento del contratto), come fronteggiare le evenienze nelle quali la "stramberia" del disabile si esprimesse – non già nell’inclinazione a effettuare atti di disposizioni ingenui o rovinosi, quanto piuttosto – nella riluttanza al compimento di negozi pur strettamente necessari alla vita corrente, sul terreno patrimoniale o non patrimoniale?

Ecco che la risposta non potrà giungere, qui, che dall’ (a) dall’approdo a forme ben precise di salvaguardia civilistica, in chiave rappresentativa o assistenziale,(b) istituite col parallelo accompagnamento di un’incapacitazione negoziale; le due aree, beninteso, non necessariamente coincidenti fra di loro:

– la prima estesa, di regola, al ventaglio delle iniziative tali da non sopportare neghittosità o dilazioni temporali;

– la seconda strettamente limitata (secondo le indicazioni desumibili sul versante dei rischi in agenda) alla gamma delle operazioni realmente minacciose per quella certa persona.

 

 

2.5. Suggestioni antipsichiatriche

 

Rispetto agli scenari invalsi sino a ieri, ben diverse – una volta che i profili del sostegno (non incapacitante) vengano messi in primo piano – si presenta il cammino da seguire operativamente.

Così per quanto concerne, anzitutto, i richiami al "progetto personalizzato" che attiene al soggetto preso in carico – motivo in cui si lascia cogliere, secondo molti autori, il filo conduttore dell’intera riforma. Vari i passaggi da sottolineare al riguardo.

Spicca in primo luogo la fermezza con cui il legislatore mostra, nel testo del 2004, di aver preso le distanze da ogni suggestione di tipo "antipsichiatrico" (trionfo del principio di autodeterminazione, contrarietà ad ogni T.S.O., ripudio della scienza e della medicina tradizionale, morte della famiglia, principio del piacere, anti-istituzionalismo a oltranza, etc.). Ed è un passaggio che ben pochi dubbi lascia, all’interprete, circa il percorso da imboccare volta a volta.

Se è pacifica, in generale, la necessità che le aspettative del beneficiario figurino presidiate scrupolosamente (e che egli sia, anzi, incoraggiato a coltivare i propri sogni, piccoli e grandi: art. 410 c.c.); se è indubbio che occorrerà tollerare – quanto a stile di vita – capricci, fughe in avanti e bizzarrie di varia sorta (escludendo, di norma, contro-interventi idonei a generare frustrazioni o sconforto): altrettanto netta è, da parte dell’ordinamento, la sottolineatura circa l’ obiettiva invalicabilità di alcune soglie di normalità/civiltà, nell’accudimento dei disabili.

In nessun caso, l’astratta comprensione per filosofie selvagge o anticonformiste potrebbe (da parte del g.t. o dell’amministratore) giustificare l’assecondamento di istanze annunciantisi come incompatibili, già sulla carta, con la sopravvivenza alimentare, sanitaria, economica, logistica, o con gli standard di un sia pur minimo benessere – dell’interessato o delle persone a lui vicine.

Poco importa, qui, domandarsi quanto spesso la "drammaticità" di certi episodi di cronaca, relativi a individui in serio pericolo di vita (vicende di sospensione dei trattamenti sanitari, di operazioni chirurgiche mutilanti, di trasfusioni nei confronti di testimoni di Geova – col puntuale rifiuto dell’interessato a seguire il consiglio dei medici), sia da attribuire – nell’Italia di oggi – al dato di una scarsa presenza/efficienza dei Servizi sociosanitari, lungo il contesto circostante.

Una responsabilità della pubblica amministrazione, o degli addetti privati alla cura e all’assistenza, non potrà negarsi, verosimilmente, allorché emerga che la ricerca tempestiva di un dialogo (spettacolarizzazione dei mass-media a parte) avrebbe reso quel contrasto meno rovente — senza ricorsi obbligati alla durezza, anche fisica, al momento di eseguire certe scelte.

Resta il fatto che ogniqualvolta figurino in gioco prerogative fondamentali, comunque momenti di rango (indiscutibilmente) superiore rispetto a quelli cari in via contingente al beneficiario – e tali da sconsigliare titubanze di sorta, presso gli uffici preposti alle decisioni – le linee di una copertura quotidiana ex l. 6/2004 saranno definibili pur senza minute approvazioni, e in casi limite anche contro l’esplicito parere, di quest’ultimo.

 

 

2.6. Quotidianità, dinamismo

 

Né il discorso è desinato a valere, beninteso, soltanto nei frangenti più estremi. Anche rispetto all’esistenza quotidiana, per le voci più correnti di gestione (dalle esigenze della pulizia al riscaldamento, dalle tasse ai vestiti o alla corrente elettrica, dall’acqua dal condominio o alle badanti, etc.), vi sarà uno zoccolo di "non eccentricità antropologica" al centro dei progetti da intrecciare.

Combinazioni poco ortodosse – scontati ancora una volta i doveri dell’ascolto, nonché gli impegni alla ricerca della persuasione, verso l’interessato – sarebbero ammissibili soltanto là dove i pericoli (di degrado alimentare, igienico, ambientale) apparissero significativamente meno gravi rispetto ai contraccolpi che minaccerebbero, hic et nunc, invadenze/imposizioni troppo drastiche: rischi di scontrosità o ribellioni, manie persecutorie senza ritorno, ostinazioni sorde, tentazioni autolesionistiche.

Eloquente, in tal senso, il linguaggio impiegato dal legislatore del 2004.

Valga l’esempio di espressioni quali "interessi ed esigenze di protezione della persona", "espletamento delle funzioni della vita quotidiana", "necessario per assicurare la loro adeguata protezione". "condizioni di vita personale e sociale", "interessi morali e patrimoniali del minore o del beneficiario".

Non è difficile, in quei passaggi del c.c., cogliere l’eco delle discipline (extragiuridiche) che meglio hanno saputo analizzare, anche sul piano del linguaggio, i nodi della colloquialità inter-individuale – nonché l’impronta dei settori privatistici che più sono venuti fiorendo in chiave realistico/antropologica, da vent’anni in qua: danni alla persona, interessi del lavoratore, crisi della famiglia, beni a valenza esistenziale, contratti del tempo libero, assistenza medica.

Due allora – se si pensa al "sostegno" per chi accusi margini ridotti di autosufficienza (specialmente sul fronte degli affetti, dello svago, della creatività, della partecipazione sociale) – le ricadute più importanti.

(a) Da un lato l’approdo a scale di priorità del tutto nuove – opposte, per certi versi, rispetto alla logiche dell’interdizione e dell’inabilitazione – fra questa e quella voce di spesa. Dovendo in partenza sottolinearsi (accanto all’ovvia inammissibilità di follie dissipatrici, e semmai all’opportunità di investimenti più accorti, di una maggior lucidità manageriale) l’impresentabilità di falserighe in cui motivi dell’incoraggiamento per il fare non reddituale, anche quello meramente voluttuario, figurassero — in nome di nostalgie pan-risparmiatrici, o di ossequiosità per gli eredi in attesa – accantonati ingiustificatamente.

(b) Dall’altro lato l’ importanza ben maggiore, questa volta sul crinale patrimoniale, del momento dinamico fra le svariate poste in gioco. Trattandosi di riconoscere come i tratti della staticità amministrativa appaiano assai più a loro agio, di regola, davanti a patrimoni di una certa entità, che non invece là dove – ai fini dell’entrata in gioco dello strumento vicariale – poco o nulla interessa quanto le ricchezze del destinatario siano consistenti.

Dovendo ammettersi, cioè, come i richiami al (motivo di un congruo) "decisionismo" negoziale risulteranno assai meno pertinenti rispetto a istituti come l’interdizione e l’inabilitazione (quando il rappresentante mira soprattutto a respingere gli assalti ai beni, da parte dei terzi) che non invece sul crinale dell’amministrazione di sostegno: dove il problema è in prevalenza quello di scongiurare i guasti minacciati dall’inerzia accidiosa o rassegnata del soggetto, e dove – se i titoli pericolanti non venissero venduti in tempo, le tasse non pagate, la cura termale o la dentiera differita, il box tenuto sfitto, la barca lasciata a marcire in porto, la pensione dimenticata alla posta, il tetto non aggiustato – le conseguenze sarebbero non di rado esiziali.

 

2.7. Complessità

 

Nessun dubbio come tutto ciò sia destinato, in prospettiva, a richiedere alla gran parte degli "addetti ai lavori" – e più ampiamente alla macchina complessiva della giustizia – un profusione di energie ben maggiori rispetto alla situazione pre 2004.

E’ questo anzi uno snodo intorno a cui non poche chances si giocheranno, verosimilmente, in vista di una piena affermazione dell’A.d.S. a livello applicativo — città per città.

Duplice l’ ordine dei riscontri al riguardo.

Le variazioni di tipo quantitativo, in primo luogo. Scambi di competenze più frequenti, fra giudice tutelare e tribunale, un target più nutrito di destinatari; e poi, via via, amministratori sempre nuovi da immaginare (come numero e specializzazione), impegni quotidiani per l’ufficio del p.m., un tot più alto di fascicoli da curare, nelle varie sedi. Più soggetti, pubblici e privati, coinvolti sistematicamente nelle procedure – il disabile, i suoi parenti, il milieu ambientale, i servizi socio-sanitari, eventualmente l’avvocato, il notaio, il consulente tecnico, etc.

I mutamenti di ordine qualitativo, in secondo luogo. Maggior spazio riconosciuto alla discrezionalità del magistrato, un mix di risvolti personali e patrimoniali dietro ogni vicenda; decisioni più intriganti da prendere – al di là di un semplice "sì" o "no" all’incapacitazione (come in passato). E, ancora, coralità di tanti passaggi dell’istruttoria, importanza accresciuta dei saperi extragiuridici (soprattutto in ambito "psi"); frequente allargarsi/restringersi nel contenuto dei decreti, con lo scorrere del tempo: vocazione dei provvedimenti a rinnovarsi di frequente, a seconda delle circostanze. E il discorso potrebbe continuare.

 

 

2.8. Il giudice tutelare

 

Indicativa – rispetto a questi vari aspetti – la delicatezza dei compiti che il legislatore assegna, sul terreno dell’A.d.S., al giudice tutelare.

Ben poche le eventualità in cui lo sbocco di un’istanza giudiziale si profili, in effetti, come del tutto scontato ab origine.

Più numerose, dopo il 2004, le vie d’uscita sulla carta – maggiori, e più insidiose, le zone grigie fra una situazione e l’altra. In quel caso converrà, poniamo, assecondare puntualmente la domanda dei ricorrenti, con un decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno, e correlativa nomina del vicario. Altrove apparirà preferibile (trattandosi di un disabile ben seguito in famiglia, in discrete condizioni psicofisiche) la soluzione di un nulla di fatto, senza interventi di sorta. Là ancora il g.t. potrebbe orientarsi – tale almeno l’opinione di certuni – verso l’apertura di un giudizio di interdizione, o di inabilitazione, con correlativa trasmissione degli atti al tribunale.

E puntare su un cammino, o sull’altro, potrà non riuscire agevole talvolta.

Non meno ampia – una volta che la strada imboccata sia quella dell’amministrazione di sostegno – la rosa delle opzioni che si apriranno innanzi al g.t. Meglio, in quel frangente, l’attribuzione al vicario di poteri pienamente rappresentativi? O più opportuno invece l’approdo a un modello curatoriale?

Così per i punti a seguire. Durata dell’istituenda protezione: prevedere fin dall’inizio una scadenza o evitare di apporre termini di sorta? Scelta dell’amministratore: restare entro i confini domestici o cercarlo, piuttosto, al di fuori? Sovranità per il beneficiario: mantenerla intatta, conservare all’interessato alcuni poteri, sospenderli tutti quanti – salvo quelli elementari?

Il modo stesso di operare, a livello istruttorio. Risorse più sottili cui fare appello, nuovi intrecci culturali e metodologici, spesso anche al di fuori dello strictumius. Necessità di soppesare attentamente le ricadute esistenziali delle decisioni – un’altra sensibilità nell’orientarsi. I vantaggi della perspicacia allora, i doveri dell’ascolto: quali le reazioni probabili dell’interessato, di fronte all’assunzione di un certo provvedimento restrittivo della libertà (magari più che giustificato in astratto), quanti i pericoli di futuri struggimenti in famiglia?

Diversa anche la tecnica redazionale per decreti e ordinanze.

Il dato nuovo per il g.t. (dopo la l. 6/2004): consapevolezza che gran parte delle risoluzioni inerenti a quel certo disabile avranno vita breve, potendo modificarsi già all’indomani, per cambiare ancora il giorno successivo. Propensione a verbalizzare, ogni passaggio del decisum per sommi capi, quindi, tenendo a mente l’insieme della vicenda – nella coscienza che tanto basterebbe, all’occorrenza, a decodificare ogni frammento poco chiaro.

Ogni indicazione come parte di un sommerso orale, in definitiva, affidato per il 90% alla memoria del conduttore; ciascun procedimento di A.d.S. come una sorta di biografia (giuridica) a puntate, scritta solo in minima parte – destinata ad allungarsi senza pause, una volta incominciata, talvolta fino all’ultimo giorno.

Difficoltà crescenti allora – all’interno dei tribunali – per la sostituzione di un (bravo) giudice tutelare: "perderlo" significherà ogni volta non disporre più del 50% delle connessioni, abbandonare a se stessi i beneficiari dalla vita più difficile – troppi essendo i perché da ritrovare e aggiustare daccapo.

 

 

 

2. 9. Scritto e orale

 

Diversa anche la tecnica per la redazione di ordinanze e decreti.

Il dato inedito nell’agenda del g.t., dopo la l. 6/2004: consapevolezza che gran parte delle risoluzioni attinenti a quel certo beneficiario avranno vita breve, potendo modificarsi già all’indomani, per cambiare ancora il mese successivo. Tempo a disposizione per ciascuna pratica: lo stretto indispensabile – e sempre meno, c’è da credere, via via che venga migliorando l’efficienza dei presidi giudiziari e sociosanitari (stante il numero dei casi da seguire in contemporanea, nel territorio).

Propensione a trascrivere, allora, ogni sequenza istruttoria per sommi capi, quasi in forma stenografica, tenendo presente il contesto circostante: nella certezza che l’insieme varrebbe, all’occorrenza, a decodificare i frammenti meno chiari. Per le singole amministrazioni di sostegno: cartelle e schedari (mezzi pieni cioè) mezzi vuoti – fogli d’album punteggiati di sigle, abbreviazioni, rimandi interni.

Ricadute sugli uffici in tribunale: nulla di significativo fintantoché la riforma del 2004 resti al palo – corridoi vuoti, allora, silenzio, porte chiuse. Altrimenti il contrario: cancellerie affollate, va e vieni degli operatori, toni accesi nelle discussioni, magistrati spesso fuori stanza (visite domiciliari, art. 407 c.c., 2° co.). Più difficile sostituire un giudice bravo, premuroso con gli "utenti"; ogni trasferimento implicherà la dispersione di un patrimonio di ricordi, con minacce di abbandono per i più vulnerabili – troppi essendo, a carico del successore, i fondali extragiuridici da ripristinare.

Linguaggio proprio del (neo)istituto di cui all’art. 404 ss c.c.: informale assai più spesso che solenne, tracce orali di gran lunga prevalenti su quelle scritte: e la stessa scrittura ridotta abitualmente a stilemi da bloc notes. Privacy, nessi impliciti, anonimato obbligatorio, omissis. Ciascun provvedimento quale punta di un sommerso tacito, rimesso alla buona memoria del "conduttore"; ogni dossier come una sorta di biografia a puntate, verbalizzata solo in parte – così fino all’ultimo giorno del beneficiario.

Per gli storici futuri della "debolologia": destino di ogni vicenda privata del malessere a restare alquanto misteriosa, a lasciarsi ricostruire – negli archivi del diritto civile, per l’Italia del XXI secolo – limitatamente ai tratti più vistosi.

 

2. 10 Diritto dal basso

 

Non sorprende che della protezione per gli individui svantaggiati si tenda allora a parlare, oggigiorno, come di una realtà destinata a prendere vita assai più "dal basso" (secondo le tracce fornite dal giudice) che non dall’alto (in forza di questo o quell’archetipo codicistico).

Rispetto agli scenari propri dell’interdizione – basta leggere il c.c. del ’42 – le differenze non potrebbero essere più marcate.

(a) Là – c.c. versione originaria – il postulato di una netta superiorità dello ius scriptum rispetto ad altre fonti; un approccio semplificato all’universo delle malattie mentali. Interesse per i soli versanti patrimoniali del diritto privato, anche trattandosi di opzioni relative a soggetti disabili; lo statuto del disagio come un blocco rigido, fitto di elenchi e di minuzie: nessun tratto disciplinare patteggiabile più di tanto ("devono" essere interdetti, così il vecchio testo dell’art. 414 c.c.), ogni prescrizione pressoché definitiva. Esclusa la possibilità di ritocchi ope iudicis, impensabili aggiustamenti a seconda delle circostanze – basti rammentare le trascorse dispute sul matrimonio dell’interdetto.

Dopo il 2004 invece: ridimensionati i miti circa l’autosufficienza, e l’intoccabilità di principio, delle regole scritte; diffusa attenzione degli interpreti verso i crinali affettivi e colloquiali della debolezza. Il legislatore incline ad operare soprattutto quale araldo di linee di civiltà, sul terreno culturale e strategico. Pluralità di assetti difensivi entro il sistema privatistico, diffusa interscambiabilità fra l’uno e l’altro: colmature e integrazioni rimesse al formante giudiziario – per le varie sequenze che interessino: il se, il quanto, il dove, il come del sostegno, e così via.

(b) Ancora: là (ancien régime) riluttanza a concedere al "deviante" margini apprezzabili di autonomia. Su ogni questione l’ultima parola – oltre certe soglie di importanza – affidata al consulente tecnico d’ufficio; con l’interdicendo/inabilitando nessun dialogo di cui prefigurare i contorni, le atmosfere ideali; niente più che riscontri burocratici, confinati all’inizio della procedura.

Il contrario sul terreno dell’A.d.S. Nessuna limitazione alla sovranità propria del beneficiario, nulla almeno di scontato in partenza; i riverberi di ordine emotivo e personale (familiari, sanitari, psicologici, ambientali) quali incognite da valutare previamente, spesso da calcolare insieme. Presa d’atto che le difficoltà di gestione possono nascere non soltanto dalla "follia", e che di quest’ultima, oggi come ieri, non esiste un unico stampo sulla terra. La quotidianità sempre al centro del procedimento: nuovi spazi di reclamabilità, altre legittimazioni, forme inedite di trasparenza – al di là di ogni autoritarismo – da immaginare a garanzia dell’interessato.

(c) Con l’interdizione, l’unicità come misura di qualsiasi cosa; l’incapacità quale gabbia fatta per applicarsi a ciascun sofferente nell’identica maniera, insuscettibile di variazioni. Tutti uguali fra di loro i tutelati: stesso labirinto di divieti istituzionali, stesso bagaglio di assoggettamenti al vicario o al tribunale (anche dopo il 2004: impossibile ammettere un incapace ex art. 414 ss. a sposarsi, a fare testamento, etc.).

Basterà ai terzi, una volta appurato di aver dinanzi qualcuno con uno status del genere, scorrere semplicemente gli articoli del c.c.: qualsiasi interrogativo troverà risposta – nessun’altra ricerca sull’interlocutore è necessaria.

L’opposto con l’A.d.S.: pluralità di combinazioni antropologiche, disomogeneità quale costante dell’istituto. Per ogni creatura versante in difficoltà un decreto personalizzato del giudice tutelare – emesso appositamente su suo conto, tale da cucirle intorno un "vestito su misura". Tutti diversi fra di loro i beneficiari.

Ben poco, sul conto di un individuo protetto ex art. 404 s., racconterebbe questa volta il c.c.; troppe le clausole generali nel testo, troppo ampio il range delle variabili statutarie. Occorrerà l’attenta disamina di "quel" provvedimento giudiziale, sapendo di dover anzi rinnovare il controllo periodicamente, lungo i vari registri ufficiali che interessano – se è vero che già all’indomani questo o quel particolare di vaglio potrebbe essere cambiato.

 

2. 11. Il richiamo ai servizi

 

Di particolare rilievo poi, tra le novità della legge 6/ 2004, la menzione dei compiti che figurano affidati agli operatori dei servizi socio-sanitari, nel procedimento di amministrazione di sostegno.

Si tratta di un riferimento, per vari aspetti, tutt’altro che sorprendente: quanti non sono, nell’esperienza di una persona in difficoltà, i crinali tali da richiedere l’intervento di un presidio assistenziale – di questo o di quel genere, su basi contingenti o stabilizzate? E in frangenti siffatti, come attesta una scorsa al c.c. o alle leggi collegate, la voce del legislatore finisce per farsi sentire pressoché sempre (si pensi, ad es., al rdl. 1404/1934, artt. 25 e 27, sui minorenni irregolari; alla l. 833/1978, art. 26, sul Servizio Sanitario nazionale; alla l. 194/1978, artt. 5 e 12, in materia di interruzione di gravidanza; all’art. 403 c.c., nonché a varie disposizioni della l. 184, a proposito dell’affidamento familiare; alla l. n. 184/1983, art.4, 5, 10, 12, 22, nonché alla l. 285/1997, art.4., relativamente all’adozione; all’art.18 della Conv. di New York sui diritti del fanciullo; alla l. 104/1992, artt. 8-10, sull’handicap; alla l. 66/1996, art. 11 sulla violenza sessuale; all’art. 342-terc.c., in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari).

Naturale che l’incontro con l’amministrazione di sostegno dovesse anch’eso, sul piano statutario, tradursi nell’ occasione per un ennesimo riscontro.

E tuttavia – occorre dire — i tratti di originalità non sono affatto pochi nel passaggio in esame.

(i) Così, anzitutto, sotto il profilo dell’estensione applicativa. Si sa bene quale gamma di risposte metta in gioco, nell’area considerata, l’ordinamento privatistico: un corpo di ascolto e difese tanto meno solenne rispetto alla tradizione (quando mancava, non a caso, ogni accenno testuale all’operato dei servizi), e assiso intorno a una nozione di debolezza attenta a qualunque temperie quotidiana, senza angustie di tipo organicistico. Inevitabile che il suggello legislativo, con un target del genere, acquistasse un respiro sensibilmente ampio, destinato come appariva fin dall’inizio:

– a rapportarsi, dal punto di vista delle mansioni, ad un prontuario tra i meno scontati e uniformi: cure mediche, trasporto, igiene, pulizia della casa, comunicazioni, spese quotidiane, passeggiate all’aria aperta, pagamento di bollette, visite domiciliari, espletazione di pratiche burocratiche, supporti farmaceutici, alimenti, etc.;

– a mettere in gioco, sul piano tipologico, un ventaglio quantomai ricco di combinazioni professionali: servizi pubblici, privati, misti, per anziani, per minori autori di reati, per portatori handicap, per malati in ospedale, per ospiti in case di riposo, per down, per alcolisti, per carcerati, per immigrati, e così via:

– a svilupparsi, negli intrecci del futuro, secondo quanto dall’ordinamento verrà man mano affiorando: livelli aggiornati di risorse, nicchie diverse di fragilità, accorpamenti amministrativi più moderni, orizzonti più avanzati di welfare, obiettivi mutati per il diritto civile, e così avanti.

(ii) Non meno importante poi il gioco delle ricadute disciplinari.

Basta pensare alle indicazioni di cui all’art. 406 ult.co. – circa il dovere per i responsabili dei servizi sociosanitari di proporre, all’occorrenza, un ricorso al giudice tutelare o di effettuare comunque una segnalazione al p.m. Nessun dubbio che ci si trovi ( "imperfezioni" formali o rimediali a parte) di fronte a un’enunciazione non meramente astratta, da parte del legislatore del 2004; e alcuni fra gli approdi immediati travalicano, occorre dire, gli stessi confini del primo libro del codice civile.

Ad es. la reazione contro eventuali inadempienze. Almeno nelle ipotesi di palese leggerezza omissiva – dinanzi all’evidenza di danni patrimoniali e non patrimoniali, subiti dalla vittima del torto – l’affermazione di un obbligo risarcitorio (a carico dei preposti all’ufficio, talvolta dei singoli operatori, comunque in capo alla pubblica amministrazione nel suo insieme) appare tutt’altro che da escludere.

O ancora il segno di letture più ambiziose, sul terreno politico/sistematico. S’è visto quanti siano oggigiorno, nella nomenclatura non solo privatistica, i motivi che spingono a ricomporre le voci del sostegno, negoziale e gestionale, intorno a una figura soggettiva di tipo inedito, plasmata sui bisogni di chi versa in situazione di malessere – e da allocare, in generale, sul terreno delle "prerogative fondamentali" della persona.

Oppure la ricerca di articolazioni più dense, lungo il territorio. Difficile non dar ragione a chi ritiene come quanto più si affermeranno, presso le comunità interessate, nuovi intrecci organizzativi e amministrativi – con la messa a punto di "tavoli comuni inter-istituzionali", aperti all’impegno di chi abbia a cuore l’attuazione della l. 6/2004 (primi fra tutti i referenti dei servizi) – tanto prima l’emarginazione dei disabili, città per città, mostrerà di regredire.

(iii) Non vanno infine trascurati, tra i diversi attori della vicenda, i riflessi avvertibili sul piano del linguaggio – le strade destinate cioè ad aprirsi, con quel richiamo, sul fronte di una progressiva giuridificazione della devianza.

Non tanto (attenzione) il comparto privatistico alla conquista di territori inediti, in ambito "psi"; l’universo della fragilità, piuttosto, chiamato ad allargare i propri spazi naturali — deciso a far sentire la sua voce (dall’ alterarsi delle capacità sensorie agli abbonamenti non pagati, dalle catatonie al rifiuto di riscuotere gli affitti, dagli appannamenti della memoria alle incurie sanitarie o riabilitative, dalle dislalie alle assenze croniche dalle assemblee di condominio) nell’ area del neo-sistema di protezione.

Ed è un passaggio scandito dall’opzione, che il legislatore manifesta a un certo punto (art. 408, 4°co., c.c.), circa i rapporti tra vicariato civilistico e funzioni assistenziali – là dove si precisa che il ruolo di operatore sociale e quello di amministratore di sostegno non dovranno mai venire a sovrapporsi.

Calati entro le maglie di una gestione contabile, i lemmi di quel bagaglio "primitivo" – piaghe, litigi fra eredi, imboccamenti, case popolari, comunità protette, siringhe, moduli, cattivi odori, bollette da pagare, fuochi sul pianerottoli, scopi d’ira, cateteri, riviste enigmistiche, danneggiamenti, buoni pasto, collocamento obbligatorio, tarocchi, feste di carnevale ai centri, neurolettici, bouffées deliranti, impudicizie, violenze in famiglia, indennità di accompagnamento, poesie solitarie, t.s.o. abusivi, etc. – avrebbero smarrito la loro purezza debolologica?

Di certo vi è l’importanza delle funzioni che l’impedimento in esame, pensato soprattutto per scongiurare conflitti d’interessi (e non importa a prezzo di quali fughe in avanti), finisce per svolgere a livello culturale e semiologico, quale suggello di una garanzia di indipendenza. I ruoli esteriori non si mescolano, anche i vocabolari rimangono distinti; e nemmeno le discipline si confonderanno.

Libera da incombenze gestionali, confermata nei suoi tratti identitari, è la rete stessa delle prese in carico e dell’ accoglienza che veglierà – per il futuro – sui beneficiari.

 

2. 12. Priorità per l’amministratore di sostegno

 

Pochi elementi risultano tanto indicativi – circa il fossato che divide passato e presente, nello statuto civilistico del disagio – quanto quelli che fornisce il confronto tra mansioni proprie del tutore, nella normativa sull’ interdizione, e compiti dell’amministratore di sostegno, nella disciplina della figura recentemente introdotta.

Così a tener conto della stessa law in action posteriore alla l. 6/2004 – a raffrontare, cioè, i decreti emanati sul terreno del neo-istituto, dacché questo è in vigore, con le sentenze pronunciate nell’ambito dell’interdizione, a partire dalla medesima data.

Salvo aspetti marginali – relativi a temperamenti che hanno contagiato, un po’ di rimbalzo, qualche ipotesi di tutela o curatela – il panorama che emerge è sempre uguale.

Dal modello di un sostituto "forte" (ex art. 414 ss. c.c.: un vicario il quale conosce la risposta a ogni domanda, sul piano scolastico, poco curandosi tuttavia delle istanze care a quel certo disabile), si è passati – con la novità introdotta del 1° libro – alla figura di un presidio "morbido" (un amministratore non necessariamente eccelso sul piano tecnico, al corrente però dei bisogni più acuti dell’assistito, e pronto nei limiti del possibile a soddisfarli).

Nell’angolatura del giudice tutelare, allora: ben diverso, al momento di sfogliare la lista dei papabili, sarà il campo delle priorità da rispettare, in vista della nomina ex art 408, 1° co., c.c. E inedita si presenta già a monte – al di là di alcuni standard minimi, da esigere comunque nel candidato (secondo quanto opinerebbe anche il tribunale, per l’ufficio ex art. 414 e ss. c.c.: principi morali, salute fisica e psichica, buon senso, maturità di giudizio, igiene, correttezza e affidabilità nei conflitti d’interesse, etc.) – la scala degli errori da evitare con maggior cura, ossia la rosa degli inconvenienti più temibili per il beneficiario.

 

Vari, al riguardo, i motivi da considerare.

Così per quanto attiene, in primo luogo, all’oggetto stesso della gestione. Rispetto alle linee-guida tradizionali la differenza non potrebbe essere più netta.

Non solamente ai profili economici (bancari, imprenditoriali, commerciali, borsistici, tributari, immobiliari, assicurativi, industriali, etc.) dovrà prestare riguardo l’amministratore di sostegno: anche esigenze e richieste di carattere non patrimoniale, o prettamente medico/terapeutico, andranno tenute in attento esame (art. 408, 1° co., c.c.). Soprattutto queste ultime anzi: far sì che avvenga ciò che accadrebbe – ecco il criterio – se non esistessero le circostanze che hanno condotto all’apertura del procedimento.

E, quanto all’attitudine a operare in tal senso, presso i singoli eleggibili: ogni curriculum andrà analizzato scrupolosamente, dal giudice tutelare – tanto più a fronte di un disabile impossibilitato a cavarsela da solo, o rispetto al quale si sconsigliassero mantenimenti ulteriori di capacità.

Nelle ipotesi di sicura inconciliabilità di bilancio, saranno le voci di tipo esistenziale/spirituale a dover essere preferite – si trattasse pur di esborsi (ecco un’ennesima differenza rispetto alla tutela) eminentemente frivoli o edonistici.

E se è pacifico che certe soglie di ragionevolezza non saranno oltrepassabili (dal magistrato come dal vicario), rimane la necessità di tener conto, al di là di ogni classifica "ufficiale" (tra spese sanitarie, cure di bellezza, pellegrinaggi, piuttosto che vacanze, mecenatismo, iniziative sentimentali e sessuali, oppure programmi legati allo sport, al cibo, all’abbigliamento, alle collezioni, etc.), del coefficiente di appetibilità assegnato da "quel" beneficiario, confessatamente o meno, alla posta in esame.

Poco importa da quali intenti (volontà di far trionfare ideali di austerità, premura per le aspettative della cerchia domestica, coerenza rispetto alle proprie regole finanziarie, riguardo verso gli eredi in attesa, etc.) le tentazioni di parsimonia o di ortodossia discenderebbero: una volta assodati quei presupposti motivazionali, nel destinatario, e sicure d’altronde le compatibilità antropologiche e finanziarie, ogni perplessità dovrà essere lasciata cadere.

 

 

2. 13. Chi preferire per la nomina

 

Di qui lo scarso peso da attribuire, nella valutazione su un candidato "buono", agli eventuali deficit in punto di destrezza legale e/o contabile.

S’intende che dinanzi a intrecci particolarmente sofisticati, a livello legale/finanziario, meglio sarà puntare su un gestore professionalmente affidabile, versato nelle pandette o nella ragioneria: e ciò soprattutto là dove le ombre di natura personale, nella sfera dell’interessato, figurassero comparativamente trascurabili. Oppure ci si potrà orientare, come talvolta è stato fatto, verso la nomina di due co-amministratori di sostegno, in parallelo: l’uno competente per la parte economico/patrimoniale, l’altro per le decisioni di natura morale e assistenziale.

Altrimenti no, non è detto. Tenendo presente che sarebbe pur utile al vicario, per le opzioni meno facili, far capo alla sapienza tecnica del giudice stesso (magari una volta che gli organici fossero adeguatamente rinforzati, nei tribunali); o appoggiarsi, piuttosto, alle risorse consulenziali di qualche "tavolo comune inter-istituzionale" – coi suoi esperti di diritto e di commercio, a portata di e-mail o di telefono, messi a disposizione dalla generosità della società civile.

Più intriganti passaggi d’altro genere, sul terreno ambientale o emotivo: soprattutto — va osservato — gli impegni a ricomporre le variabili sparse nell’universo familiare (in particolare, eventuali contrarietà alla nomina di questo o quel parente), oppure le incognite legate a pulsioni occulte di qualche candidato (circa l’assunzione dell’incarico gestionale).

Nessuna deroga ai principi generali, comunque: andrà preferita, in giudizio, la soluzione che più corrisponda al bene dell’amministrando – qualità dell’esistenza in primo piano; bilanciando il rispetto per le attese da costui manifestati, al riguardo, con la necessità di evitare contraccolpi oggettivamente rischiosi.

E’ quanto vale, anzitutto, per il primo dei capitoli in questione — quello della serenità domestica da salvaguardare.

C’era stata, da parte dei genitori del disabile, un’espressa designazione del futuro amministratore (art. 408, 1°co., c.c.)? Resterà sempre da controllare che, alla persona indicata, non difettino comunque i requisiti indispensabili. Nessuna controindicazioni quanto la nomina di componenti della famiglia, per quell’ufficio? Nessun problema a rispettare puntualmente, allora, la scaletta di cui all’art. 408 c.c., allora. Il candidato/familiare rientra nel novero dei futuri eredi? Occorrerà essere certi che, una volta in carica, l’eletto non inizierebbe a pensare troppo conservativamente ai beni che un giorno saranno suoi.

Così avanti. La nomina di questo o quel congiunto innescherebbe, presso altri parenti, frustrazioni e sottili risentimenti, di cui il beneficiario sarebbe il primo a fare le spese? Meglio volgere altrove la ricerca. L’incarico ad un extra-familiare, idoneo per se stesso alla funzione, urterebbe comunque la suscettibilità del nucleo domestico – dalle cui premure l’interessato non potrebbe, di fatto, mai prescindere in avvenire? Converrà riportare la scelta dentro il focolare.

La famiglia si dimostra "collusiva col mantenimento del sintomo" — l’offerta di aiuto nasconde, cioè, niente più che propositi di controllo inframurario? Ciò che si teme, in realtà, è che il congiunto debole ritrovi – sostenuto dall’amministratore – margini tropo ampi di autonomia? Più adatta allora la guida di un estraneo. Il suggello impresso ex art. 404 c.c. a una gestione di fatto, di livello complessivo pur apprezzabile, turberebbe lo status quo casalingo, innescando spirali poco propizie? Meglio lasciare le cose come stanno, sotto l’ombrello informale dell’art. 2028 c.c.

 

 

2. 13.1. Motivazioni occulte

 

Non diverse (merita aggiungere) le indicazioni sul secondo dei terreni accennati, quello delle motivazioni inconsce all’incarico.

Nessun dubbio che la premura verso i derelitti sia, di per sé, tra i sentimenti più nobili al mondo – meritevole di lode e gratitudine; e tanto maggiori saranno i titoli di encomio quanto meno felice appaia la situazione di chi ha bisogno. Pacifico però che al gestore (ecco il rovescio della medaglia) vengono pure attribuiti dei poteri; e si tratta non di rado di investiture significative, da spendere anche in via esclusiva, oggigiorno sullo stesso terreno mondano o colloquiale.

Impossibile escludere che dietro qualche candidatura – sia pur nascostamente, magari in termini non continuativi – possano annidarsi allora proiezioni o simbologie poco rassicuranti: facenti capo (per un verso) a voglie di sacrificio, a desideri di espiazione e di perdono, a spinte un po’ tolstoiane di "resurrezione"; riportabili (per l’altro verso) a volontà segrete di potenza, a suggestioni alla Faust, a linfe parassitarie o vampiresche.

Motivi tutti, occorre dire, assai meno plausibili lungo fondali di tipo pan-economicistico, come quelli dei vecchi istituti. E per sventare i quali il g.t., con riguardo all’amministrazione di sostegno, dovrà attingere invece alle sue qualità migliori, specie sul piano della finezza maieutica: scartando in partenza volontari con biografie o inclinazioni poco limpide, e salvando comunque beneficiari "intrappolati" (a un certo punto, contro ogni loro aspettativa) in combinazioni di anoressia organizzativa, di romitaggio più o meno complice, di indulgenza verso qualsiasi vizio – quando non di simbiosi coatta, di mescolanza di ruoli e di linguaggi, di soggezione quotidiana agli altrui diktat.

 

 

2. 14. Quale comunicazione

 

Diverse poi, rispetto al passato, le indicazioni che attengono alle modalità comunicative fra protettore e disabile – e, più ampiamente, al clima da favorire nell’operato del primo.

(a) Quello dinanzi a cui ci si trova, nell’impianto della tutela e della curatela, è essenzialmente un copione "paternalistico": non troppo difficile da scrivere né da interpretare. C’è un vicario addentro agli aspetti economici del caso, il quale sa come comportarsi in frangenti simili; decide lui tutto quanto, per il bene generale del patrimonio, mobiliare e immobiliare non importa. Ha le carte in regola per farlo; al massimo utilizzerà dati della consulenza tecnica (se ne esiste una) e chiederà di essere autorizzato dal tribunale per certi operazioni.

Con la persona interdetta? Non proprio scambi fluenti, atmosfere di confidenza; bollettini contabili semmai, aggiornamenti di stagione, di solito in merito a scelte gestionali già effettuate. Informazioni ex post, al più corredate da qualche pezza giustificativa: fatture, cartelle, note spese, ricevute. Talvolta nessun tipo di ragguaglio, nulla di nulla – tanto l’altro poco capirebbe, oppure è il tempo per le spiegazioni a mancare.

Preoccuparsi di quanto l’interessato potrebbe desiderare, sottoporgli le alternative in campo? Questioni che neppur si sogna il tutore – come non se n’è curato il tribunale, prima. Né a suo tempo ci ha badato il legislatore: il testo dell’art. 419 c.c., immutato dopo la riforma del 2004, parla chiaro al riguardo: chi è in odore di incapacitazione potrà al massimo necessitare di un "esame", e solamente all’inizio del procedimento. Quanto ai rendiconti, è al giudice che vanno presentati (art. 424 c.c.).

Impensabili confronti alla pari, dialoghi relativi a costi/benefici; il contesto cui riferirsi è sempre quello dell’art. 414 c.c.: il portatore di fragilità quale entità alienata, sorda a ogni messaggio, persa nel suo universo. Nulla di buono per la sfera dell’ "intendere" – e compromesso (l’ha accertato il collegio) anche il fronte del "volere". Incongrua persino l’idea di un gioco di domande e risposte quotidiano. Non si è giunti a mettere in dubbio — presso qualche interprete – la risarcibilità stessa del danni morali, nei confronti di infelici del genere?

 

 

  1. Di ben altro segno la filosofia nell’amministrazione di sostegno.

Premessa iniziale: tutto potrà affermarsi, sul conto di un soggetto da proteggere civilisticamente, meno che si tratterebbe di un "alieno". Basta seguirne uno a caso, in mezzo a un gruppo di persone; al caffè, allo stadio, in chiesa, al supermercato: difficile, si sottolinea, riuscire a distinguerlo dagli altri, a prima vista almeno, in fotografia o proprio dal vero. Ma anche a sentirlo parlare, pronunciare qualche frase (ad es. nel refettorio di una casa di riposo); spesso è quello che ne sa di più, che si esprime con maggior proprietà – meglio del suo vicario talvolta: coglie prima i nessi, vede subito i retroterra, ha orizzonti più vasti.

Premessa successiva: per poter decidere, un sostituto deve anzitutto conoscere – e ciò a maggior ragione su terreni come quelli dell’art. 404 c.c., dove ogni scelta è idonea a mettere in circolo aspetti personali. Conoscere, a sua volta, significherà essenzialmente comprendere, o almeno cercare di farlo: chi sia in effetti l’interessato, da dove venga, cosa vorrebbe realizzare nel futuro, con quali mezzi finanziari.

Ecco allora nuove fonti di incertezza – e non stupisce che volontari i quali hanno svolto egregiamente la funzione di tutori, nel corso del passato, possano dichiararsi indisponibili a ricoprire, in nuove vicende, l’ufficio di amministratore di sostegno.

Sapere non può non implicare la necessità di parlare: chiarire al destinatario, in particolare, perché una certa risoluzione debba essere presa, dove starebbero i vantaggi, quali inconvenienti si eviteranno. E non si tratta tanto di eloquio, di profferte vocali a senso unico; intendersi vorrà dire soprattutto – nel 90% dei casi (con un essere non proprio al top dell’ efficienza) – stare a sentire colui che illustra, che racconta, ascoltare per minuti di fila; scoprire come l’altro, il beneficiario, valuti quella certo appianamento negoziale: apprendere dalla sua viva voce se non preferirebbe soluzioni diverse, farsi elencare le obiezioni principali, prendere atto dei timori emersi di recente, e così via.

Relazioni complesse, inchieste delicate – come si vede – oltretutto passaggi da rinnovare periodicamente. Col tempo le cose si modificano, dopo un po’ l’interessato potrebbe aver cambiato opinione.

 

 

2. 14. 1. Difficile intendersi

 

Molteplici – e di varia natura, sul terreno della comunicazione. – gli scogli che attendono al varco l’amministratore.

Non poche, anzitutto, le doti di intuito psicologico che andranno messe in campo – e chi non le abbia di suo dovrà procurarsele. Talvolta l’interessato non sa neppur lui cosa volere (i dettagli non gli erano state chiariti, lui non si è informato), o preferirebbe il contrario di quanto viene suggerito (ma è riluttante ad ammetterlo). Come interpretare una galleria di sguardi distolti in fretta, saracinesche calate, salti continui di discorso – oppure di motteggi leziosi, frasi di cortesia, risatine a cascata?

Eppure è certo che tutti vogliono e non vogliono qualcosa, in questa o in quella parte di sé.

(i) Talune spine alla comprensione, più che da deficit specifici, nascono dal contesto istituzionale in atto – dalla richiesta di salvaguardia giudiziale.

Così, soprattutto, nella fase in cui il rapporto ex art. 404 c.c. venga ancora avviandosi: già l’attesa formale del decreto, con i vari ritocchi allo status quo che incombono, è destinata a influire – di per sé – sulla qualità dello scambio, togliendo alle risposte margini di freschezza, favorendo riluttanze o autodifese. E anche in seguito: l’amministratore è colui che detiene il potere, che ha il filo diretto col giudice; la relazione col disabile non è proprio alla pari, un eccesso di sincerità potrebbe essere rischioso.

L’eterno paradosso che grava sugli istituti di protezione stabilizzata: le autorità del comparto avrebbero bisogno di reazioni spontanee, per poter prendere alcune decisioni, ma un certo tipo di naturalezza è arduo verso chi comanda.

Non sempre, d’altro canto, saranno le carenze mentali e intellettive lo scoglio maggiore – più di un intralcio nasce da ragioni di natura affettiva, prettamente emozionale. E anche per l’amministratore è talvolta così.

Mai l’assistito — poniamo — aveva sperimentato in precedenza quel tipo di défaillance, su se stesso; oppure mai gli era accaduto di dover schiudere, a terzi, certe zone del proprio io (ritrosia ad ammettere inettitudini segrete, allora, vergogna a confessare passate scorrettezze). Quanto al vicario, si tratta magari di uno stretto parente, restio ad invadere spazi di intimità, timoroso di compiere profanazioni; oppure di un amico o di un conoscente, solerte quanto frastornato all’entrare in camere fitte di tabù; o invece di un estraneo, gettato per la prima volta fra rovi poco confortevoli dell’umano spaesamento.

Prestare ascolto alle parole – imperativo sacrosanto della "debolologia"! E quasi mai, però, sarà questione soltanto di orecchie da tenere aperte, di flussi orali cui porgere attenzione. Non meno cruciale è, abitualmente, un altro tipo di riscontro – quello in ordine alla mimica del corpo, ai segni del "linguaggio non verbale". Sospiri, occhiate in tralice, dita sulle labbra, colpi di tosse a metà del discorso; piuttosto che rossori inaspettati, cenni del capo, sbuffi, gambe accavallate bruscamente: oppure agitarsi di braccia, espressioni incredule, boccate nervose di sigaretta, arricciamenti del naso, spallucce.

Spesso i due piani coincidono fra loro – talora lo scenario è meno semplice. Vengono pronunciate frasi il cui significato contrasta, più o meno vistosamente, con qualche movenza dal di fuori. Quanti "non ho bisogno di nessuno" nascondono (come rivela un sub– gesto spontaneo) la preoccupazione di diventare un fardello per il prossimo, il timore di pesare sulla famiglia? E quanti "non ce la faccio da solo" altro non sono che espedienti per mettere la propria vita nelle mani altrui, accortamente, sfruttando al meglio i "benefici secondari" della malattia?

Buona la prima alternativa, la seconda? Ma anche nell’ipotesi di divergenze fra quei piani: in cuor suo l’interessato cosa starà augurandosi, davvero, che la sua recita orale venga creduta, dall’ascoltatore, che di quei contro-segnali non si tenga alcun conto? O la chiave ultima è che questi ultimi sono davvero ciò che sembrano, a prima vista – inviti a non prestar fede a quanto esce dalla bocca, appelli a scavare più a fondo dentro le cose?

(II) Tanto maggiori le questioni, poi, nei confronti dei disabili più duramente colpiti dalla sorte: persone vittime di ictus totali, individui i quali versano in coma, in stato vegetativo permanente.

Arrendersi alla crudeltà del destino o cercare di sfidare, comunque, l’impossibile? e con quali strumenti di ricognizione però? Se può essere vero che "tutti gli esseri umani parlano", in qualche modo – che il beneficiario il quale "non si è fatto capire" è solo quello che nessuno ha "saputo ascoltare" – la messa in pratica del principio può implicare, talora, sforzi oltremisura.

Ricordi degli ex-amici, pagine risalenti di diario, interviste presso qualche tv locale, lettere accostabili (con un po’ di buona volontà) ad una designazione ex art. 408 c.c.: quante volte ricostruzioni del genere — ad opera del vicario – non verrebbero contrastate dai familiari, non minaccerebbero comunque risultati ambigui ?

 

2. 14.2. Conflitti, persuasione, ascolto

 

Gli obblighi della diplomazia subito dopo.

Ascoltare prima ancora che spiegare, venire edotti assai più che informare. Saper infondere nell’assistito la fiducia che ogni segreto resterà tale – non presumere troppo dalle capacità di resistenza dello stesso; farlo sentire al sicuro contro le minacce.

Nei casi di più accesa disparità di opinioni – di maggior lontananza rispetto alle linee dell’establishment: a che pro rappresentare la civiltà organizzata come il luogo delle verità definitive, una sorta di punto d’arrivo per tutti? E di fronte a opzioni sanitarie non più differibili (causa un precipitare della situazione, nell’ultimo periodo): tentare di mediare, conciliare fra loro i diversi punti di vista, ben più che imporre protocolli dal di fuori.

Concedere quante più gratificazioni è possibile, a chi versa in difficoltà, cercando sempre il punto in cui gusti e idiosincrasie della persona possano armonizzarsi con le istanze "superiori" del sistema.

Non si tratta – sottolineiamo – di un mero ossequio verso alcune indicazioni codicistiche (cfr. art. 410, 1° e 2° co., c.c., ove si parla di attenzione ai "bisogni", alle "aspirazioni", alle "richieste", di osservanza dei doveri di "informazione"); è anche il solo modo per scongiurare bracci di ferro, sordi e prolungati, nei confronti delle autorità ufficiali – con rischi di forte malessere per più d’un attore nella vicenda.

Così sul terreno medico anzitutto – in particolare per quanto concerne i nodi da sciogliere con più urgenza (pena azzardi per l’integrità fisio-psichica dell’infermo). Si sa che potrebbe essere l’amministratore di sostegno, nei confronti di individui vittime di serie turbe mentali, a dover esprimere il consenso al trattamento. E non v’è dubbio circa la necessità di tenere in serio conto, anche stavolta, le preferenze manifestate o intuibili nel paziente.

Basta pensare a certi contrasti insorgenti in ambito chirurgico, allorché il malato abbia dichiarato la propria indisponibilità a sottoporsi ad operazioni (poniamo, l’amputazione di un arto) prospettate dai terapeuti come ineluttabili. Quante volte, in frangenti come questi, non ci si trova dinanzi a formalizzazioni troppo severe, a livello giudiziario – magari a un radicalizzarsi di incomprensioni e di sfide verso la classe medica; col risultato di una guerra di posizione sotterranea, di un vero e proprio cul de sac per l’ordinamento?

Oppure certe applicazioni di un trattamento sanitario obbligatorio, nei riguardi di individui portatori di sofferenza psichica (di solito depressi, ossessivi o maniacali). Col triste rituale cui non di rado si assiste, in talune zone dell’Italia specialmente – dai barricamenti in casa alle urla e scenate dell’infermo, sino alle minacce di suicidio; dagli interventi più o meno rudi della forza pubblica, alle porte sfondate, all’imposizione di camicie di forza. Talora con una coda di abusi farmacologici, o di eccessi nella contenzione fisica, ad opera dal personale ospedaliero, dopo l’internamento nei centri di diagnosi e cura

Tenuto conto di ciò che verrà spesso affiorando, al termine di episodi del genere (ossia che nessuno aveva mai parlato con nessuno, che il disabile per mesi era rimasto abbandonato a se stesso, che una tempestiva presa in carico avrebbe scongiurato tanti equivoci), si può ben salutare nell’avvento dell’amministrazione di sostegno il fattore di svolta, in questo campo, anche sotto il profilo della comunicazione istituzionale – in vista di un corretto esercizio del "principio di autodeterminazione", prima e durante i picchi della crisi.

E ciò non solo, va sottolineato, come riconoscimento di uno spazio per la fornitura periodica – attraverso l’amministratore – degli opportuni chiarimenti circa i dettagli della vertenza: ad esempio quanto all’acquisizione di migliori supporti, a un rilancio di intese coi servizi sociosanitari, alla sopravvenienza di circostanze tali da modificare il quadro precedente (scoperte scientifiche dell’ultima ora, chances assistenziali nuove, dotazioni ospedaliere più moderne, etc.).

Ancor più importante sarà l’occasione, che si offre proprio al beneficiario, di una meditazione/illustrazione introno alle ragioni profonde di quella contrarietà (anche sub specie di monitoraggio di paure, riconciliazione coi propri fantasmi, recupero di tracce antiche); senza di che – va detto – né un serio lavoro di "persuasione" entro il focolare, né un’efficace difesa sui fronti esterni del dissidio, risulterebbero mai alla portata del vicario.

 

 

2. 14.3. Abitazione, beni di famiglia, tattiche

 

Così pure – aggiungiamo – in altri contesti (meno drammatici ma ugualmente) delicati sotto l’angolatura della "qualità della vita"

(i) E’ quanto vale, in primo luogo, per le decisioni di tipo abitativo: allorché le alternative del beneficiario oscillino, mettiamo, tra un possibile ritorno nel proprio alloggio, un cambiamento di città, la scelta di una nuova abitazione – piuttosto che l’entrata in qualche casa di riposo, una divisione dell’ appartamento con altre persone, la sistemazione in una residenza protetta, etc.

Nessun dubbio che le valenze esistenziali di una scelta, piuttosto che dell’altra, siano qui ragguardevoli.

E per l’amministratore si tratterà, da un lato, di non lasciare l’assistito all’oscuro di passaggi importanti (ad es., circa il fatto che i soldi della pensione non bastano più, che gli ultimi test medici sono meno cattivi del temuto, che la nuora non osteggia più l’ipotesi di una coabitazione, che è in arrivo una piccola eredità, etc.); dall’altro di venir messo lui al corrente, dal beneficiario, intorno ai dettagli utili per la decisione (debiti pendenti, conversioni religiose in atto, gioielli nascosti nel muro, cambiali in circolo, insofferenze che covano sotto la cenere, passioni nascenti, e così via).

Soprattutto andranno moltiplicate le occasioni per un’analisi a quattr’occhi – quanto più possibile franca, scrupolosa – circa pro e i contro delle varie ipotesi.

Misurando con la lente, poniamo, la convenienza di spostarsi nella casa piccola, con la sorella meno ricca ma generosa, rispetto alla probabilità di litigi in un alloggio più grande, con l’altro fratello troppo debole, e la cognata dispotica. Oppure soppesando i vantaggi del puntare su un ospizio costoso, con le necessarie rinunce all’infermiera notturna e alle pratiche di fisioterapia, rispetto ai pregi di una sistemazione in istituti meno comodi e più a buon prezzo, compatibili col mantenimento degli optional. O, ancora, valutando insieme se accettare che sia un altro parente, da un’altra città, a stabilirsi nell’alloggio del disabile (con l’acquisizione di una compagnia preziosa, allora, e con un po’ di libertà casalinga in meno), o se insistere invece per la combinazione inversa. E così via.

(ii) Stesso discorso, solo in apparenza prosaico, per quanto concerne la voce "alienazioni di beni domestici" – là dove il disabile si trovi nelle condizioni di doversi disfare, entro poco tempo, di qualche gloria di famiglia.

Boschi, fondi agricoli, una cascina, barche, piuttosto che cavalli, mobili d’epoca, biblioteche, quadri, o magari gioielli, cimeli, reliquie, collezioni; nonché, beninteso, le versioni più modeste o "proletarie" di tutto ciò: un trattore, un pollaio, i quadri amatoriali del nonno, vecchie pellicce, francobolli, trofei della gioventù, dischi in vinile, etc.

Peccato dover vendere? Impossibile fare altrimenti però, in tutta una serie di ipotesi – quando vi siano fornitori e creditori da pagare, tasse arretrate o spese di condominio da saldare, un viaggio di studio al figlio da finanziare, un fallimento al fratello da evitare. E per l’amministratore il copione non cambia ad ogni modo: colloqui pazienti, bilanci realistici, giri di boa da immaginare insieme.

Sottili ponderazioni: le voci del male (sensi di colpa, rottura con le abitudini contratte sin dall’infanzia, timore per le dicerie) a confronto con quelle del bene (pace con le banche, nessun timore alle scampanellate, gratitudine dei più giovani, fine di alcuni incubi notturni).

Disponibilità a percepire anche il non detto: varrà davvero la pena di mettere all’asta quelle cose? Quali parti del patrimonio comunque – in che misura, entro quali tempi, a chi esattamente, a quale prezzo? I volumi del seicento potrebbero essere ceduti alla biblioteca universitaria: o meglio accettare invece l’offerta della fondazione americana?

Riscontro degli umori più sottili: uno scoglio, sia pur di ordine morale, potrebbe venire dalla contrarietà di certi parenti; ma a tacitarli basterebbe forse la soddisfazione per quell’altro obiettivo raggiunto: il ricavato comunque: se non si vendono anche gli arazzi, si tratterebbe di scegliere fra la riparazione del tetto, la chiusura di quella transazione, l’assunzione di una copia di filippini.

(iii) Così, infine, nei rapporti d’affari con i terzi: proprietari confinanti, creditori, fornitori, vittime di torti aquiliani, promotori finanziari, e così via. Sul tappeto operazioni varie: concessioni di servitù, scambi di favore, fideiussioni da accordare, alleanze in assemblea, acquisto di fondi obbligazionari, piuttosto che recessi contrattuali, remissioni di debiti, doni propiziatori, accordi di separazione, rinunce abdicative, divisioni.

Misurare allora – per l’amministratore, in stretto contato col disabile – vantaggi e svantaggi possibili; porli insieme sui due piatti della bilancia: e sentire magari come tutto ciò sarebbe vissuto nell’ambiente, quali ritorni se ne avrebbero in città.

Cercare di sapere cosa c’è sotto: la colpa sembrerebbe di A, però anche B deve essere stato d’accordo, impossibile spiegare altrimenti il voto in consiglio; e invece C non deve avere saputo nulla, a differenza di D. Valutare i pro e i contro: cedere su quel punto avrebbe certo dei vantaggi, il beneficiario dovrebbe soffrire solo un po’ a non poter più fare quella cosa; qualche parenti potrebbe irritarsi, ma dovrebbe poi approvare – qualcuno potrebbe essere più ostinato, ma non si può avere tutto.

Scelta della strategia: meglio rinunciare, comunque chiedere poco, e avere in cambio la riconoscenza e la pace? o invece negoziare fino all’ultima lira, sfruttando i propri margini di superiorità sino in fondo, col rischio però di contraccolpi psicologici? oppure far finta di niente per quel sopruso, intanto convocare Tizio, a Caio lo si dirà dopo che Sempronio avrà saputo, giusto?

 

 

2. 14.4. Il filo del rasoio

 

"Mia cara, Larry ha trovato ciò che tutti cerchiamo ma invano; e credo che nessuno l’abbia conosciuto senza divenirne più nobile e più buono. Dopotutto la bontà è indubbiamente la forza più grande che esista nel mondo: ed egli ce l’ha".

Rivolte a Isabel dall’io narrante dello stesso W.S. Maugham, queste parole del finale del "Il filo del rasoio" — che si riferiscono al personaggio centrale della storia, Larry Darrell (protettore/fidanzato per breve tempo di un’amica d’infanzia, Sophie, datasi all’alcol dopo l’incidente che le aveva ucciso il marito e la figlioletta) — immettono subito nel vivo di un passaggio che può, a buon diritto, considerarsi fondamentale per l’istituto in esame.

E’ necessario comunque intendersi in proposito. Se si tratta di prendere atto dell’insuccesso pressoché certo che attende al varco, rispetto all’assistito, qualsiasi linea gestionale mossa da atteggiamenti di gelo e indifferenza verso quest’ultimo, sarebbe arduo dissentire da Maugham. E tuttavia quel che si può e si deve pretendere dall’amministratore di sostegno – ecco il punto – è qualcosa di non proprio coincidente (benché simile) con la bontà in senso stretto.

E’ significativo che nemmeno Larry, del resto, riesca appieno nel suo intento filantropico. Il gioco dell’abnegazione e dell’astinenza durerà solo per poco; e, appena un anno dopo la ricaduta nell’alcol, Sophie verrà scoperta con la gola tagliata nel porto di Tolone, vittima del giro di droga e perdizione in cui era ripiombata. Maugham lascia capire che nessun vicario, in un caso simile, avrebbe potuto farcela (come riconosce proprio Larry nelle ultime pagine: "Non è il caso di prendersela più per Sophie, Isabel: ho avuto la sensazione tutt’oggi che Sophie sia là dove voleva essere, con Bob e Linda. So che quello che dico è solamente un luogo comune; ma è un conforto"). La realtà rimane comunque quella che s’è detta.

In generale allora: ci sono grovigli nelle persone che nemmeno la bontà più grande di un altro può ricomporre – il che offre, rispetto agli interrogativi che qui importano, una prima indicazione di metodo: non è vero che, qualora al mondo tutti fossero come il protagonista del romanzo in questione, i problemi delle creature bisognose di aiuto sarebbero già risolti.

Ed è implicita la seconda traccia di lavoro post 2004: se per ricoprire quel ruolo ciascun vicario dovesse essere eguale a Larry, e possedere le sue stesse doti di generosità e altruismo, l’intero istituto dell’amministrazione di sostegno potrebbe "chiudere bottega", per mancanza di candidati all’altezza.

Conclusione operativa da trarre: esiste bensì, in capo all’ amministratore, un fattore in mancanza del quale nessuna relazione col beneficiario potrà mai funzionare convenientemente; e si tratta però – come attestano le stesse formule che impiega il legislatore dell’A.d.S., e come si coglie soprattutto a esaminare le singole storie di disagio (quali documentate nei provvedimenti giudiziari in materia degli ultimi anni) – di un quid di diverso dalla bontà in senso stretto.

Per dirla in breve: occorrerà sussista nei riguardi del beneficiario un atteggiamento – certo all’insegna della gentilezza, ma – imperniato prevalentemente sul "fuori" piuttosto che sul "dentro" delle cose. Più precisamente: non tanto quello che il gestore sente, vorrebbe, pensa o immagina nel proprio foro interno (avente a che fare cioè col suo universo morale, con i filamenti e le pulsioni del suo spirito), quanto piuttosto ciò che viene scambiato alla luce del sole col disabile, che tutti quanti possono vedere (rapportato com’è a un certo tipo di linguaggio e di interfacciamento quotidiano).

Un’atmosfera fondata insomma sull’alleanza, un codice all’insegna dell’empatia; un sistema di gesti e di sguardi riportabile alla complicità fra i due – la disponibilità dell’amministratore (e in larga misura anche del giudice tutelare) a guardare il mondo con gli occhi dell’interessato, l’inclinazione a prenderlo per quello che è, assai più che non per quello che dovrebbe essere.

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Calensario seminari progetto salute mentale