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THE VANCOUVER INTERVIEW – Frammenti di vita e opere d’una vocazione psicoanalitica

26 Dic 19

Di Gianni Guasto

Aprile è il più crudele dei mesi, generando
Lillà dalla terra morta,
mischiando Memoria e desiderio, eccitando
Spente radici con pioggia di primavera.
L’inverno ci tenne caldi, coprendo
La terra di neve smemorata, nutrendo
Una piccola vita con tuberi secchi.

T. S. Eliot, La Terra Desolata (trad. A. Serpieri)

 

Lasciata alle spalle l’età della formazione, dopo aver incontrato a tempo debito i grandi classici della psicoanalisi, può accadere che i saggi psicoanalitici in grado di emozionare intensamente diventino sempre più rari. Ciò potranno certamente verificare anche non pochi lettori di questa recente fatica di Franco Borgogno, gli hypocrites lecteurs più decisi a non lasciarsi coinvolgere in un intenso turbinio emotivo che finirebbe fatalmente per farli sentire chiamati personalmente in causa; ma da tale coinvolgimento non potranno certo esimersi tutti quegli spoilt children (psicoanalisti e non) che, leggendolo, rischieranno di sperimentare la fortunata e rara esperienza di sentirsi vibrare sotto la pelle, con un’intensità pari a quella della gioiosa e libera ispirazione che l’ha creato, questo piccolo, delizioso e folgorante cammeo psicoanalitico.

 



 

 

In questo libro, che non parla soltanto di teorie psicoanalitiche, di tecnica terapeutica e di trasformazioni intervenute lungo la storia della psicoanalisi, Borgogno affronta con passionalità il compito di mettere se stesso al centro della scena analitica con tutto il peso e l’irrinunciabilità della propria storia personale, formativa e professionale, raccontando l’inverarsi doloroso e creativo di una competenza che, partita da una non comune capacità di respingere la tentazione di accettare acriticamente il dogmatismo di un insegnamento (accettazione, par di capire, vissuta come un’imposizione), é riuscita a costruire una personalissima visione delle cose psicoanalitiche che ha anche un senso di universalità, perché capace di valorizzare una lunga serie di domande sorte tra gli interlocutori della psicoanalisi (e non di rado rimaste inespresse) che la stessa ha troppo spesso lasciato senza risposta.

Nata in occasione di un viaggio a Vancouver effettuato nel marzo 2007 su invito della Western Branch Canadian Psychoanalytic Society (IPA), l’intervista, condotta da Christopher Fortune, é il rivissuto sintetico e ispirato di ciò che l’Autore ha più volte definito "il percorso": percorso che, come sottolinea Endre Koritar nell’introduzione, si articola lungo quattro viaggi simultanei: a) un filone personale che comprende gli eventi di vita (i "life events" di ferencziana memoria) dell’analizzando, ovvero di Borgogno stesso, impegnato sul versante del paziente in una sorta di role reversal con il proprio interlocutore Fortune a sua volta ingaggiato in un immaginario ruolo di analista.

Nel raccontarci alcuni punti fondanti il proprio cammino di studioso, Borgogno non si risparmia nel far affrontare al lettore l’esperienza dell’analizzato che si racconta, tanto più inedita se il narrante é anche analista: Borgogno parla di sé in una self-disclosure che non potrebbe essere più naturale e priva di quei rischi che di solito si paventano dalle autobiografie psicoanalitiche, quando il loro autore é ancora in vita. Ma, come vedremo, il parlare di sé é funzionale alla necessaria consapevolezza del dispiegarsi sulla scena analitica della storia personale del terapeuta.

In secondo luogo, é il mondo interno delle relazioni d’oggetto interiorizzate —prosegue Koritar- a emergere nello spazio analitico.

In terzo luogo vi é la suggestione che potrei definire "antiaccademica" (e persino, se volessi usare un termine appartenente ad un’altra era geologica, "antiautoritaria") dell’"analista che sogna il paziente" lungo una serie di fantasie inconsce non più interdette perché per troppo tempo temute, ma finalmente assurte a strumento primario di cura, attraverso l’analisi del controtransfert, degli enactment, dei prodotti onirici dell’analista, del suoi lapsus e della sua rêverie.

In ultimo, vi é il percorso della coppia analitica che co-costruisce un’area che é l’esito delle proiezioni di entrambi, e che ad entrambi definitivamente appartiene, come fonte specifica, per dirla con Bollas, da cui proviene il senso delle cose.

Nella prima parte dell’intervista, Borgogno racconta il proprio avvicinamento alla psicoanalisi a partire da una situazione familiare in cui il tenersi a distanza di una madre non del tutto responsiva si coniugava con il dogmatismo paterno, più incline ad affidare il figlio alla Provvidenza che non al proprio sostegno affettivo. Un avvicinamento guidato dalla premonizione dell’incontro con "qualcuno" che fosse finalmente capace di prenderlo per mano, fornendogli ciò che, nella sua esperienza di vita familiare, non era riuscito ad incontrare; ciò che si realizzerà lungo una prima analisi andata a buon fine, ma evidentemente non giunta ancora a realizzare quell’incontro preconizzato, che dovrà pazientemente attendere un secondo e più soddisfacente percorso analitico.

 

Nella seconda parte dell’intervista, Borgogno si addentra maggiormente nel ricordo del primo approccio alla psicoanalisi e della propria esperienza di psicoanalista in formazione, raccontando e rivivendo la piacevole sorpresa di incontrare un analista (il secondo) che sapeva essere "una persona in carne e ossa", capace di rispondere, non limitandosi ad enfatizzare il potenziale creativo delle associazioni libere, ma dedito a scongiurarne la tendenza a diventare puro esercizio narcisistico una volta che fossero state espresse al di fuori del contesto comunicativo, senza il quale avrebbero rischiato di diventare "dissociazioni libere"; che "le fantasie, le immagini interne non erano ‘folli’ —cioè prive di senso- ma ricche di ragioni che dovevano essere scoperte". E che la psicoanalisi non aveva per definizione la capacità di rispondere a questa sfida, rimanendo ancora troppo spesso "muta" di fronte ad esse, e rivelando un’insospettata incapacità di evitare il fraintendimento, e di fornire ad esse la necessaria, per dirla con Bion, "alfabetizzazione emotiva". Fu allora che Borgogno imparò con una meraviglia che nell’evocazione non ha ancora perso la sua freschezza, che il compito del lavoro analitico non è quello di "cambiare", di "diventare diversi" ma piuttosto quello di "riuscire ad essere se stessi".

Di Borgogno appare particolarmente degna d’ammirazione l’iniziale capacità di dire di no, sulla scorta del rifiuto di allinearsi una seconda volta a quello stesso dogmatismo e all’accettazione, passiva e annichilita, di quella carenza di contatto che già aveva incontrato nelle relazioni familiari. Resistere, ancor prima di aver raggiunto una piena consapevolezza di sé, all’invadenza del messaggio anche suggestivo che l’Istituzione Psicoanalitica sapeva infondere, non era certamente da tutti; né tutti seppero, quando era il loro tempo, parlare a voce abbastanza alta da infrangere (o da aggirare, cercando percorsi alternativi) la barriera no-entry che Borgogno lucidamente descrive.

Negli anni della formazione, Borgogno seppe riconoscere per tempo la discrepanza tra quanto andava apprendendo nella sua analisi, e la ristrettezza dei limiti del contesto culturale in cui si andava formando: "Freud aveva già detto tutto, non c’era bisogno di leggere molti altri autori … eccetto i più grandi che allora erano essenzialmente alcuni freudiani e poi la Klein, la Klein e pochi altri … per lo più kleiniani". In epoca di colonizzazione londinese, il contesto, l’attenzione alla lettura dei materiali era diventato certamente più preciso, "ma purtroppo il contesto che loro avevano in mente era soltanto quello interno", di cui il transfert era il "motore esclusivo". "Se ci si riferiva al contesto reale in cui uno viveva o era cresciuto (incluso quello analitico) si rischiava di sentirsi dire che era sbagliato, e se si persisteva in questa idea, che si doveva riconsiderare la possibilità di tornare in analisi …".

Tornare in analisi per riconsiderare le proprie inclinazioni perché sospette di essere fondate su di una patologia di fondo: volendo applicare un giudizio di particolare severità (di cui il recensore si assume per intero la responsabilità) si potrebbe pensare che l’antico male della psicoanalisi che era consistito nella patologizzazione dei dissidenti (Ferenczi, Rank, Tausk), si fosse mantenuto ad un livello sottile e pervasivo, fondandosi su di un ascolto one-sided, su di una autoreferenzialità che spesso sfociava in una no-entry syndrome che avrebbe pesantemente condizionato soprattutto l’analisi didattica rispetto alla più libera e creativa psicoanalisi "terapeutica" (come già aveva preconizzato, mezzo secolo prima, l’allora dimenticato Ferenczi).

Esponente di primo piano della "renaissance" ferencziana, un movimento a diffusione internazionale di cui fa parte, tra altri analisti di fama, lo stesso Fortune, Borgogno racconta il proprio precocissimo incontro con lo psicoanalista ungherese, quando è ancora agli inizi del proprio percorso, al tempo della tesi di laurea, quando la lettura di un testo allora (e anche in seguito) poco frequentato, "The unwelcome child and his death instinct" (1929), gli fece un’impressione "terrific", com’ebbe a scrivere sul margine della pagina, avvertendo oscuramente come quel "bambino male accolto" con il suo corredo d’asma bronchiale, di malattie da raffreddamento, d’umore depresso e di incidenti sessuali lo riguardasse da vicino.

Perché, anche senza essere stato un bambino indesiderato, lui si era sentito comunque diverso dal bambino che i suoi avevano immaginato. E la sua diversità era diventata un punto d’ostinazione (e anche d’emancipazione) nel ricercare una laurea diversa da quella che i suoi avrebbero voluto, ed una tesi diversa da quelle che i suoi coetanei usualmente sceglievano. E con il progredire della carriera analitica, da candidato, ad associato, a ordinario, a didatta, le riletture di Ferenczi si erano fatte più ravvicinate ed approfondite, al punto che giunto ad insegnare ai seminari SPI fu in grado di proporre una sua lettura originale e partecipata dell’opera di quel Maestro.

Nasceva così l’approccio al primo lavoro psicoanalitico di Ferenczi (On The Significance Of Ejaculatio Praecox, 1908) inteso come "biglietto da visita" di un Autore che aveva già scritto nel codice genetico il futuro interesse per la dimensione relazionale dell’esperienza umana, osando sfidare fin dal primo momento l’ideologia dominante del metodo fondato sull’"one-person psychology", come dimostrava il suo soffermarsi su quanto dell’inefficienza sessuale dell’uomo possa ricadere sulla partner; e su questa stessa scia, la scoperta che i "Sintomi transitori nel corso dell’analisi" (1912) nascono all’interno della relazione tra analista e paziente. (Ciò dimostra una volta di più, se ce n’era bisogno, che la prospettiva relazionale che è l’apporto originale e rivoluzionario di Ferenczi alla psicoanalisi è già tutta presente in nuce fin dagli esordi, come dimostra il suo inesausto bisogno di "analisi reciproca" con Freud, che percorre tutta la Corrispondenza, fin dagli esordi.).

Per non dire dell’introiezione, tema negletto all’epoca in cui Ferenczi si esprime, e di nuovo relegato ai margini del dibattito scientifico dalla preponderante "monocultura" kleiniana usa ad enfatizzare il ruolo dell’identificazione proiettiva, all’epoca degli esordi di Borgogno; e per non dire del trauma, vera spina nel fianco, "antico rimorso" di un movimento psicoanalitico che aveva condannato Ferenczi all’oblio e il trauma al diniego (verleugnung), in nome della rinuncia alla teoria della seduzione, rinuncia che avrebbe meritato una più degna considerazione, se non fosse stata interpretata come una "linea del Piave" sulla quale resistere o perire.

L’introiezione è, scrive Ferenczi, non solo fonte di vita ma anche di morte, mentre dai genitori si può anche assorbire un nutrimento vuoto o tossico, perché i genitori, come gli analisti, non sono buoni "per definizione", non solo "good enough", ma talvolta persino "too bad", al contrario di quanto parrebbe presupporre la teoria classica, rinforzata in ciò a dismisura dal contributo kleiniano, per il quale l’apporto materno -e, più in generale, quello ambientale- sono perentoriamente collocati addirittura al di fuori dell’area "legittima" dell’indagine psicoanalitica.

Ferenczi, in ciò seguito da Winnicott, intuisce fin dall’inizio del proprio percorso l’importanza dell’apporto esterno alla mente recettiva del bambino, ma ci vorranno molti anni, prima che egli stesso arrivi pienamente a credere, a padroneggiare e a sviluppare il senso di quella sua percezione.

Nell’ultima parte dell’intervista, Borgogno risponde ad una domanda particolarmente impegnativa che Fortune gli rivolge: "che cos’è, per te, la psicoanalisi?".

"Una conversazione speciale", risponde ricalcando le parole di Freud, una conversazione accompagnata da transazioni affettive, da "gesti" (Winnicott), "gesti di riconoscimento" capaci di confermare l’esistenza di qualcuno per qualcun altro. Il tutto al di fuori di una connotazione banalmente "buonistica", perché il riconoscimento può essere anche ottenuto attraverso comunicazioni di sentimenti di rabbia e di odio.

Dall’esperienza di Freud "più amico delle parole che non dei sentimenti", Borgogno passa a sottolineare l’importanza della "discesa alle madri" e al "mondo della nursery", osservando che Freud per questi temi non aveva probabilmente gli strumenti necessari, anche se in taluni passi di Psicoterapia (1904) si legge che "è la generosità di un altro cuore" che fa accedere al "mistero di un’altra persona", sulla scorta del lamento di Amleto che rivendica l’irraggiungibilità del proprio enigma da parte dell’arrogante pretesa di Guildenstern.

Perciò, la psicoanalisi è, per Borgogno come per Ferenczi, una "forma di educazione", un "apprendimento emozionale", dove il "conosci te stesso" diventa "lavora con un altro per capire chi sei" dove l’io e l’altro sono, sia pure in misure diverse e asimmetriche, sia l’analista che l’analizzando, entrambi portatori di ambienti differenti e capaci di riconoscersi e di fecondarsi reciprocamente. Soltanto se "la situazione psicoanalitica, il campo psicoanalitico, sapranno ammalarsi dello stesso male di cui il paziente e il suo campo familiare si sono ammalati nel passato", l’analista potrà comprendere -letteralmente sulla propria pelle- ciò che è accaduto al paziente e restituirgliene una "testimonianza", accompagnata da una risposta affettiva nuova e inedita.

Poscritto

Avevo appena finito di leggere The Vancouver Interview, quando per una strana associazione di idee, mi venne la voglia di sfogliare "La Terra Desolata" di Eliot. Lì per lì non mi resi conto che tra le due letture potesse esserci un legame associativo, ma ripensandoci, erano forse quelle parole poste all’inizio: mischiando memoria o desiderio, oppure quell’excipit baudelairiano del primo canto (you, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère) che sembrava uscito direttamente dalla pagina di Borgogno a tenermi legato a doppio filo a quei due testi. Per me che avevo considerato con infastidita insofferenza la prescrizione di "dosi raccomandate" (quattro a settimana) per ottenere l’oro nel laboratorio alchemico dello psicoanalista, l’astinenza da memoria e desiderio era apparsa un rimedio qualitativo, che sembrava promettere maggiore consistenza alla mia sete identitaria e professionale. E quando ero stato sorpreso dal lamento di quei pazienti (nemmeno pochi, per la verità) che mi chiedevano di conservare la memoria in vece loro, e di provare desideri a loro interdetti, lo scoprire la pista tracciata da un Collega più anziano lungo un percorso di scoperta e di scelta fra opzioni differenti era stata una consolazione, e per questo ero andato a ricercarla in una poesia che tornava sovente alla mia memoria senza lasciarsi afferrare, almeno per quell’oscuro e "blasfemo" passaggio che "sdoganava" memoria e desiderio raccontandone la capacità dolorosa e rigeneratrice e la loro salvifica liberazione.

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