INTRODUZIONE

Le ricerche che si sono occupate di trovare collegamenti tra la psichiatria e la psicoanalisi si possono sommariamente dividere in due grandi filoni.
Al primo filone, più strettamente clinico, appartengono gli studi che hanno tentato di approfondire in senso psicoanalitico i meccanismi psicotici; Rosenfeld, Segal, Bion, Resnik, Searles, Racamier e, più recentemente, Storolow e Lichtenberg sono gli interpreti più significativi dell'approccio psicoanalitico individuale alla terapia dei pazienti gravi.
Al secondo filone, più teorico-organizzativo, fanno capo lavori che studiano i contesti istituzionali, siano essi ospedalieri o territoriali, e la loro influenza sulle relazioni e le comunicazioni fra gruppi di pazienti psicotici, équipe curante ed ambiente di cura. Ricordo in tal senso i lavori di Jaques, Menzies, Woodbury, Fornari, Racamier, De Martis, Petrella, Zapparoli e Correale.
"Il primo filone può essere collegato a un restringimento del campo di osservazione e di intervento, nel tentativo di far evolvere almeno un certo numero di pazienti, e il secondo al progetto di formulare ipotesi via via più aggiornate per modificare e rendere appropriata in senso terapeutico l'organizzazione di una data istituzione osservata." (Boccanegra, 1997)
Negli ultimi tempi, grazie anche alla sempre maggiore presenza di psicoanalisti operanti all'interno di istituzioni psichiatriche, i due filoni di ricerca sono andati avvicinandosi, come si può ossevare nel numero monografico della rivista "Psiche", dedicato alle patologie gravi, e nel volume "Quale psicoanalisi per le psicosi?".
In ogni caso, però, bisogna prendere atto che, quando si ha a che fare con pazienti da lungo tempo istituzionalizzati, tutti i lavori sulle psicosi sopracitati possono avere soltanto un valore orientativo, in quanto i nessi tra i disturbi attuali e quelli originari sono molto lassi, fino a scomparire del tutto in alcuni casi, mentre si fa strada quella che mirabilmente Goffmann (1961) ha descritto come sindrome da istituzionalizzazione.
Le categorie di approccio diagnostico, ma anche le modalità di approccio relazionale sono specifiche e si differenziano dall'approccio diagnostico e terapeutico alle forme floride e attive, alle patologie gravi non appassite e appiattite dalla lunga istituzionalizzazione, così come specifica è la disposizione emotiva che lo psicoanalista viene ad assumere.
Questo lavoro riguarderà l'ospedale psichiatrico, anzi, per essere più precisi, l'ex ospedale psichiatrico, prendendo spunto dallo storico numero monografico della rivista di psicoanalisi del 1971, dedicato all'argomento: che senso ha operare all'interno di un'istituzione in via di estinzione, in che modo i procedimenti della deistituzionalizzazione possono essere meglio affrontati grazie alle conoscenze psicoanalitiche, quale ruolo può giocare la presenza di uno psicoanalista, per di più con funzioni direzionali, nell'affontamento delle specifiche dinamiche istituzionali.
Secondo Racamier (1961), lo psicoanalista può strutturare il proprio ruolo in modo da collocarsi all'interno o all'esterno del contesto istituzionale. Il ruolo interno si identifica sostanzialmente con il tentativo di instaurare un clima terapeutico ispirato alla cultura psicoanalitica, coinvolgendo tutte le persone presenti nell'istituzione "ai fini di trasformare e ai limiti di annullare il contesto istituzionale". (Gatti, 1971, pag. 43)
Il ruolo esterno comprende tutti i tentativi terapeutici, pur effettuati nell'ambito di un'istituzione, con singoli pazienti o con gruppi di psicoterapia, senza alcuna pretesa di interferire attivamente col contesto istituzionale e, quindi, connotati da una presunta purezza tecnica.
Molti analisti hanno sostenuto che il maneggiamento della realtà esterna deve essere lasciato allo psichiatra, mentre lo psicoanalista deve riservarsi lo studio dell'attività fantasmatica interiore, ma Gatti si chiede se il disinteresse per le altre 23 ore del paziente ospitalizzato non divenga "coagire sadico per una involontaria collusione dell'analista con i responsabili dell'istituzione" (1971, pag. 45) e conclude: "Qualsiasi analista che, per una malintesa fedeltà alla neutralità classica nei riguardi della realtà esterna dei propri pazienti, rifiuti di interferire attivamente nel contesto istituzionale, rischia di essere espulso, o di rimanere, nella posizione di un comodo paravento difensivo, con le mani sporche e vuote." (1971, pag. 66)
Prima di entrare nel merito della situazione che reputo primariamente necessaria e cioè il pieno coinvolgimento istituzionale dell'analista, voglio ricordare una terza situazione, che storicamente ha avuto un posto importante nel tentativo di avvicinamento della psicoanalisi alla psichiatria: la supervisione istituzionale tenuta dallo psicoanalista nei luoghi dell'assistenza psichiatrica. Tale funzione, nata con l'intento di fornire strumenti conoscitivi più approfonditi agli operatori ed inizialmente vissuta più come l'esito di un'istanza etica di pochi, spesso derivata a sua volta da presupposti politico-sociali, si è venuta costituendo nel tempo come "un'area di pensabilità, ove il gruppo può riacquistare alcune capacità che nel corso dell'attività quotidiana tendono a venire obliterate, come la capacità associativa e sognante, l'accettazione emotiva del contributo dell'altro, la valorizzazione di dettagli e microsequenze, il recupero dell'aspetto affettivo della dimensione operativa." (Correale, 1994, pag.285) 
Leonardi (1971a) in un lavoro pionieristico osserva che la situazione in cui si trova l'analista invitato a lavorare nell'ospedale psichiatrico è omologabile, sul piano profondo, ad una richiesta d'analisi espressa dalla psichiatria istituzionale in veste di paziente. La concettualizzazione per cui la psicoanalisi istituzionale coincide con la psicoanalisi della psicosi viene da lui valutata come una difesa che usa il fatto oggettivo che negli ospedali psichiatrici prevalgono largamente gli psicotici, al fine di scotomizzare la natura psicotica dell'istituzione intenzionata in modo alienante. "La vera paziente, l'istituzione che richiede l'analista, delira proiettando la sua malattia in una parte del suo corpo (i degenti) che sola deve essere curata." (pag. 1)
Leonardi, analizzando i movimenti controtransferali dell'analista, afferma che i motivi per cui viene accettato un compito tanto difficile sono da ricercare nel fatto che la psichiatria rappresenta un investimento privilegiato dell'analista. "L'animazione seduttiva della domanda -dice- tramite un elemento proiettivo, causa un primo modello difensivo, la fobia." (1971a, pag. 1)
In questo registro vanno lette certe ripulse irrazionali a svolgere attività istituzionale da parte di alcuni analisti, che, razionalizzando, sentono l'ortodossia tecnica messa in pericolo dall'ibridazione interdisciplinare. L'analista accetta la sfida perchè "consegue la possibilità di riparare l'istituzione malata e di alimentare la ricerca psicoanalitica evitando il rischio di professionalizzare l'analisi, isterilendola." (Leonardi, 1971a, pag. 3)
In quegli anni l'intervento dell'analista esterno, quale conduttore di gruppi di operatori, che spesso veniva sollecitato e preconizzato come modalità elettiva di progresso istituzionale, veniva concretamente annullato attraverso la messa in atto di difese narcisistiche istituzionali (teorizzazione del modello pedagogico opposto all'approccio analitico, burocratizzazione sostenuta dall'uso della realtà quale negazione dei fantasmi, assemblearismo banale ed elusivo). In un lavoro successivo Leonardi aggiunse alle precedenti difese istituzionali la fruizione della cultura psicoanalitica nell'ambito della relazione d'oggetto tossicomane, per cui "l'espressione degli impulsi e del bisogno, fondamento dell'elaborazione del rapporto oggettuale, viene in questo modo inibita totalmente e rimpiazzata dal rapporto con un oggetto parziale idealizzato posto nell'analista istituzionale" (Leonardi, 1971b, pag. 111). Quando l'analista rispondeva rifugiandosi nella relazione individuale con i pazienti, realizzava una vicenda speculare a quella messa in atto dal gruppo istituzionale. Lo psicoanalista, una volta riemerso dal suo proprio delirio megalomane, diveniva il vettore rappresentativo del fango istituzionale e, attraverso l'interpretazione e attraverso il considerare l'espressività assembleare alla stregua di associazioni libere dell'istituzione, reimmetteva nel circuito della realtà psichica problematiche prima negate e poi isolate nei suoi organi istituzionali." ( Leonardi, 1971a, pag.5)
In tal modo si opponeva all'invidia istituzionale, mettendone in crisi l'apparente monolitica identità. "Si tratta della rottura della relazione fusionale con la madre onnipotente, dove l'analista si configura come fallo paterno intrusivo e invidioso ma, simultaneamente, come strumento di emancipazione dalla madre tirannica." (Leonardi, 1971a, pag. 5)
La funzione svolta è quella di un analista deputato a deflazionare il campo dagli aspetti di falso entusiasmo e di seduzione maniacaliforme che il rapporto con l'istituzione immediatamente instaura. (Gaburri, 1994) 
Tra le esperienze all'interno di manicomi svolte da èquipes psichiatriche, psicoanaliticamente orientate, sicuramente degna di menzione per l'elevato valore culturale e formativo è quella che fu condotta dalla Clinica Psichiatrica dell'Università di Pavia diretta da Dario De Martis e descritta nel libro collettivo "Il Paese degli Specchi". (1980)
Il passaggio dalla non cura manicomiale alla presa in carico di un reparto dell'ospedale psichiatrico di Voghera da parte dell'équipe della Clinica Universitaria, determinò una serie di movimenti contrastanti nei pazienti e nei curanti. I pazienti sembravano vivere ogni tentativo di interessamento personale in un registro quasi persecutorio, come un ennesimo subdolo tentativo di indagine sul loro grado di buon adattamento alle regole scritte e non scritte dell'istituzione. Inizialmente ai curanti si mostravano come una pura presenza indifferenziata, nella quale ogni articolazione portatrice di senso appariva impossibile, testimonianza opaca di un disagio e di una sofferenza dai quali appariva ormai arduo ricostruire storia e significato. Successivamente i curanti cominciarono a scoprire che quanto prima appariva morto ed insignificante, ridiventava comunicativo ed in un modo così alto e convincente da incidere nei consolidati orientamenti nei confronti della cronicità.
"Esiste in queste "anime morte" -scrivono gli autori- un patrimonio di umanità così ricco, denso di significati, inquietanti interrogativi, messaggi radicali indirizzati alle zone nodali dell'esperienza umana, da rappresentare una fonte di arricchimento e di meditazione preziosa." (De Martis e coll., 1980, pag. 14)
Alla negazione della storicità intesa come divenire si aggiungeva la forzata coabitazione in uno spazio invertebrato, tale da impedire il riconoscimento e da facilitare l'indifferenziazione. L' atemporalità e l'abbandono alla base della mancanza di stoticità sono connotazioni di un vuoto che può essersi in parte strutturato in isomorfismo alle dinamiche che le follia propone.
"Ristoricizzare – che ha come termine opposto la destorificazione, intesa come processo personale e sociale ad un tempo – rappresentava una necessità in primo luogo per gli operatori. Diversamente essi si sarebbero trovati di fronte a situazioni non comprensibili e a tal punto frammentate e ridotte a pura insensatezza, da generare esperienze inquietanti di estraneazione, perplessità e impotenza." (De Martis e coll., 1980, pag. 193)
Al processo di ristoricizzazione si opponevano difese basate sulla rimozione, sulla perdita di interesse per il caso senza prospettive, considerato "spacciato" sul piano del reinserimento, mentre si usava un mistificatorio linguaggio pseudodescrittivo, che aveva il significato di mantenersi a distanza di sicurezza dalla sostanza emotiva di un rapporto potenzialmente pericoloso, perchè avrebbe potuto mettere in questione i confini esistenziali e le certezze scientifiche dell'interlocutore.
Un certo entusiasmo inventivo e riabilitativo di marca megalomanica ben presto si logorava di fronte alla difficoltà del compito, lasciando il posto ad atteggiamenti delusi e di comprensibile rigetto.
"Tra questi due estremi si poteva individuare uno spazio di elaborazione delle implicazioni megalomaniche e redentoristiche di questa posizione, ancora basata sulla prescrizione di un'area terapeutica astratta e volontaristicamente conquistata, costruita in analogia con l'astrazione del corpo della medicina da un lato, dall'altro sulla base di una ricerca di un setting dialogico simile a quello di una seduta psicoterapeutica. Posizioni che si rivelano efficaci solo in quanto basate su una libertà potenziale effettiva, sull'esistenza di prospettive di vita concrete: se queste non vengono realmente offerte o non sono prospettabili di fatto, per le più diverse ragioni, ogni sforzo per superare la barriera del non significato – che si sono costruite con gli anni attorno al degente- sembra destinato a fallire." (De Martis e coll., 1980, pag. 194) 
La complessa disposizione emotiva e professionale del gruppo curante "potè evidenziare che certe condotte cristallizzate di stile autistico e regressivo non avevano nulla di immobile e definitivo: nessuna area del comportamento poteva essere riferita a processi puramente legati a malattia, e neppure a costellazioni esclusivamente interne al soggetto; di queste non era possibile più dare una formulazione riferita a una dimensione esclusivamente mentale, da definire in sè, neppure come modalità fissata di comportamento, che forse un tempo aveva avuto una rilevanza interpersonale, ma che era ormai da ritenersi trasformata in forme permanenti di reazione, modalità interiorizzate di accostamento agli oggetti e alle situazioni, divenute immutabili, e così via. Si trattava di concepire le condotte del ricoverato come fenomeni personali, connessi a momenti attuali, e come risposte vive e attive a configurazioni ambientali presenti, materiali, simboliche e interpersonali." (De Martis, 1980, pag. 195) 
E' proprio partendo dall'esperienza di Voghera che è possibile definire quale ruolo, quale spazio ha uno psicoanalista all'interno di quello che ormai viene definito ex ospedale psichiatrico alle soglie del duemila.
Uno dei motivi per cui la legge 180, che aveva previsto la chiusura degli ospedali psichiatrici, non ha funzionato, tanto che ancora oggi, a vent'anni di distanza, si parla di necessità di superare i residui manicomiali, è consistito nel fatto che le opzioni ideologiche di carattere rivoluzionario che avevano consentito la promulgazione di quella legge, si erano con il tempo trasformate in slogans consunti e "sottoscritti anche da ambienti e persone fino a poco tempo prima ancorati ad uno spietato cinismo repressivo, a stereotipi perbenistici e a una totale indifferenza nei confronti dei degenti." (De Martis e coll., 1980, pag. 13)
Inoltre, "troppi operatori hanno salvato la propria coscienza con dichiarazioni propiziatorie di buona fede sociale e politica senza essersi non solo interrogati sul significato del proprio lavoro, ma soprattutto senza avere autenticamente esperito un confronto diretto, emotivo, con la sofferenza psichica e con la violenza sociale." (De Martis e coll., 1980, pag. 13) 
Ciò ha determinato che le energie degli operatori si rivolgessero alle realtà extra-manicomiali, trascurando la sorte di migliaia di persone ancora stazionanti in manicomio. Costoro, definiti residuali, vi sarebbero restati "a consumazione", dimenticati ancora una volta. 
I "residui manicomiali" sono stati alimentati dalla mancanza di seri e continuativi investimenti economici nel campo dell'assistenza psichiatrica, dalla carenza delle strutture intermedie sul territorio, dal crescente scollamento fra chi lavorava al di fuori delle mura asilari e chi operava all'interno, con conseguente rimozione dell ex manicomio e dei suoi gravi problemi da parte degli uni e chiusura a riccio nel ghetto dell'impotenza operativa da parte degli altri. L'esistenza dell'ex manicomio ha permesso a molti psichiatri di operare, avendo una sorta di valvola di sicurezza mentale, di rete protettiva per quei casi che sembravano resistenti alle terapie e alle riabilitazioni: questa condizione di persistenza dell'asilo ha ostacolato la ricerca di soluzioni creative, originali, probabilmente più ansiogene e a rischio, sicuramente più valide sul piano scientifico ed etico del ricorso alla manicomializzazione. 
Il sacrosanto spazio dato dalla legge al tentativo di prevenzione del disagio psichico e alla cura dei momenti più acuti della sofferenza mentale, ha oggettivamente relegato in secondo piano gli aspetti di maggior durata del disturbo psichico, frettolosamente e genericamente definiti "cronici".
Si è venuta a creare una realtà formale che avrebbe dovuto assicurare la cura e la riabilitazione di coloro che erano ancora ricoverati in ospedale psichiatrico e la continuità terapeutica con gli operatori territoriali e una sostanziale che di fatto ha riproposto per i degenti un'esperienza manicomiale classica, scremata degli aspetti più barbari e violenti, ma ancora impregnata di un elevato tasso di illegalità e indegnità.
Le condizioni igieniche sono andate sempre più degradandosi, le strutture ambientali e murarie sono diventate sempre più fatiscenti, il personale, soprattutto quello infermieristico, si è sempre più ridotto di numero. La mancanza di investimenti economici e di progetti politici ha portato come conseguenza l'abbandono di ipotesi di lavoro terapeutico-riabilitativo e il ripresentarsi di atteggiamenti emotivi che di volta in volta sono stati lo scoramento e la disillusione, il cinismo e il disfattismo, la sensazione di inutilità e di vivere un'esperienza lavorativa dimenticata, rimossa.
"L'istituzione, morta e sepolta dalla legge, è risorta come novella araba fenice, ostruendo…lo sviluppo di quella relazione medico-paziente indispensabile per raggiungere l'essenza del dolore psichico, permettendo quella crescita mentale che le cicatrici psicotiche hanno ostacolato e che gli psicofarmaci non sono in grado di favorire." (Gaburri, 1994, pag. 347), Quel manicomio che per legge doveva sparire, nei fatti non è scomparso e, però, si è fatto come se non esistesse; sia i pazienti che coloro che operavano all'interno dei manicomi sono stati istituzionalmente rimossi.
In un contesto istituzionale così disinvestito, se non abbandonato, è illecito, oltre che onnipotente, pensare alla relazione con il paziente psicotico così come può configurarsi nella stanza d'analisi o, più semplicemente, in un centro di salute mentale o in una comunità terapeutica; bisogna invece pensare al confronto con una patologia residuale che può trovare un felice riscontro nella suddivisione dei degenti proposta da De Martis e coll. (1980), che conserva intatta la sua validità anche per i ricoverati dell'ex ospedale psichiatrico; essa distingueva:
a) Soggetti tradizionalmente definiti schizofrenici. Si tratta di ricoverati, sofferenti di severi disturbi psicotici, che hanno avuto un diverso destino esprimibile attraverso due situazioni adattative antitetiche.
In alcuni casi un sintomo o una costellazione di sintomi psicotici si sono cristallizzati in forma esasperata, caricaturale, marionettistica. La pressione istituzionale ha costituito un costante rinforzo al mantenimento di un atteggiamento dereale. Dietro a questa maschera autistica l'Io del paziente appare potenzialmente disponibile ad un reinvestimento della realtà: Ma tale disponibilità viene vissuta in termini estremamente ambivalenti, per cui la possibilità di un dialogo sembra riattivare in forma drammatizzata i conflitti basici da cui è sorta l'esperienza psicotica: in queste situazioni può apparire come meno rischioso un coinvolgimento in un clima relazionale meno ravvicinato.
In altre situazioni è invece possibile rendersi conto che, al di sotto del conformismo e dell'impersonalità dello statuto di ricoverato si è realizzato spontaneamente un processo di raffreddamento delle tensioni. Parlando in termini economici, i meccanismi scissionali sembrano aver operato in modo egosintonico, consentendo al paziente la disponibilità ad un certo contatto con la realtà, mantenendosi i meccanismi proiettivi incistati, per così dire, in sacche deliranti.
b) Soggetti tradizionalmente definiti caratteropatici. Alcuni ricoverati sono riusciti ad organizzare, magari con modalità regressive, una disperata lotta in difesa della propria individualità, non dispersa e confusa nello spazio istituzionale, ora con atteggiamenti di protesta aperta, che poteva sfociare in agiti aggressivi, ora attraverso meccanismi di adattamento secondario, che potevano condurre alla passiva sottomissione istituzionale con l'assunzione di un ruolo pseudoinfermieristico, oppure a condotte alienate e a un linguaggio desimbolizzato, espressione di una tragica quanto impotente non consensualità.
c) Soggetti tradizionalmente definiti insufficienti mentali. Si tratta di ricoverati che avevano rivelato disturbi precoci nella capacità di socializzazione ad opera prevalente di carenze affettive precoci, o per l'interazione fra deficit costituzionali e mancato apporto strutturante della famiglia e dell'ambiente. I frutti dell'istituzionalizzazione germogliano sulle carenze della personalità, costituendo un intreccio inscindibile. In alcuni pazienti è percepibile la traccia di una psicosi infantile, che aggravava il deficit intellettuale interferendo in modo massiccio nelle stesse capacità di simbolizzazione e di concettualizzazione. Le potenzialità riabilitative in molti casi rappresentano una conferma sperimentale di quelle teorie che hanno messo in luce il carattere ideologicamente stigmatizzante e violento sotteso al concetto tradizionale di oligofrenia.
d) Soggetti tradizionalmente definiti dementi senili. Si tratta di persone in età involutiva o decisamente senile, che avevano presentato, magari in un lontano passato, disturbi della memoria, o delle prestazioni, o, comunque una riduzione delle loro capacità e che erano approdati per una serie di vicende sostanzialmente di ordine sociale nell'ultima spiaggia istituzionale.
Quasi tutti i ricoverati presentano generalmente una facciata insignificante e si mostrano come comparse silenziose, quiete, vagamente enigmatiche, resi indistinguibili dalla massificante confusione istituzionale che, come la notte hegeliana, rende tutte le vacche bigie. 
Ne discende che la principale funzione che uno psicoanalista deve svolgere è quella rianimativa. Il termine può apparire improprio, se rapportato all'idea di attività a cui rimanda e che è in contrasto con l'attesa e l'ascolto, elementi classici del setting e del lavoro analitico, ma rende bene l'idea della necessità di creare un clima vitale al cui interno possano circolare fantasie, speranze, progetti.
La rianimazione istituzionale si sostanzia in tentativi antientropici per contrastare la tendenza alla stasi, all'immobilità e all'indifferenziazione, proponendo ai degenti figure quali il movimento, il ritmo, lo spazio e il tempo, che l'esperienza manicomiale ha inesorabilmente coartato fino all'esaurimento.
Dare loro un nome, ricostruire o costruire ex novo insieme una storia possibile, aiutarli a scandire i ritmi di una quotidianità non mortifera a cui sia possibile attribuire un senso, sono operazioni complesse che abbisognano di profonde conoscenze psicoanalitiche e del lavoro di gruppo, per non rischiare di scadere nel comportamentismo e nel pedagogismo. La funzione rianimativa è, inoltre, centrale nei rapporti all'interno dell'équipe di lavoro. In un contesto istituzionale in cui c'è una forte tendenza al collasso del senso, con il rischio di compiere continuamente operazioni meccaniche, ripetitive, noiose, prive di respiro terapeutico, bisogna rimboccarsi le maniche e proporre al gruppo percorsi possibili in cui anche per atti apparentemente insensati e privi di prospettive vi sia un significato, un'ipotesi comprensiva, un abbozzo interpretativo. E' assolutamente necessario riflettere sugli spazi della quotidianità, dove si costruiscono quei rapporti che possono collocarsi in uno spazio intermedio fra relazione comune e relazione specializzata, fra spontaneità dell'incontro umano e intenzionalità dell'assetto terapeutico. Sarebbe, tra l'altro utile una revisione delle modalità descrittive di questo tipo di relazioni, a cui sta stretto sia il linguaggio usato nei protocolli clinici in psicoanalisi, sia il linguaggio narrativo tipico delle relazioni comuni, pur essendo centrale tanto il riferimento al linguaggio psicoanalitico quanto a quello narrativo tout court. Certamente in situazioni così relazionalmente svantaggiate non credo si corra il rischio di un eccessivo attivismo, in ogni caso è un rischio che bisogna correre per opporsi alla morte comunicativa.
La funzione rianimativa può essere pienamente assolta se lo psicoanalista si pone come garante della simbolicità di tutte le operazioni riabilitative e come garante della narrabilità, della costruzione cioè di storie narrabili in diversi contesti.

LA GARANZIA DI SINBOLICITA'

Negli ultimi anni sono notevolmente aumentate le esperienze riabilitative, attraverso forme di apprendimento semplice o complesso da parte dei pazienti, attraverso l'estrinsecarsi di qualità artistiche e creative, attraverso il manifestarsi di abilità manuali ed artigiane, attraverso la partecipazione ad attività ricreative e ludiche, attraverso veri e propri inserimenti in attività lavorative di tipo produttivo.
Il vissuto prevalente di molti operatori è quello di mantenere aperte le potenzialità adattative dei pazienti, attraverso un sostegno continuato, senza che sia quasi mai veramente possibile immaginare per i pazienti esperienze completamente autonome. Il non concedere uno statuto di autonomia al paziente ha a che vedere con istanze di dipendenza da parte dell'operatore, che vede riconfermato il suo ruolo soltanto se il paziente continua ad essere da lui dipendente, come certe mamme che non permettono ai figli di crescere. Sapersi fermare ai risultati realisticamente possibili, evitando l'investimento narcisistico, purtroppo frequente nelle relazioni d'aiuto, è una disposizione che può essere più proficuamente acquisita dal gruppo di lavoro, se esso è coordinato da uno psicoanalista, che può evidenziare gli aspetti fusionali e confusivi della relazione che mettono a repentaglio le già scarsissime possibilità di separazione, così come potrebbero essere configurabili nella mente del paziente e nel contesto sociale di appartenenza dopo lunghissimi periodi di istituzionalizzazione.
Questo vissuto di insostuibilità, che ha realistiche radici nella complessità del compito affidato agli operatori, rischia di diventare un freno alle possibilità riabilitative, se non si approfondiscono gli aspetti simbolici del fare e del fare insieme e non si elaborano alcune fantasie redentoristiche alla base di comportamenti cronicamente protesici. Se è vero, infatti, che con gli psicotici è importante fare delle cose insieme, è anche vero che queste cose devono restare delle attività che conservano un valore simbolico. La loro funzione è di aiutare il paziente a rimettere in moto dentro di lui un processo creativo e non a rispondere a un vuoto che bisognerebbe riempire o un difetto che bisognerebbe riparare (Hochmann, 1982). La riabilitazione, pertanto, dovrebbe agire non tanto perchè si interviene su un difetto dei pazienti, quanto perchè essi vengono reinseriti in un circuito di interesse e di desiderio e ciò a onta delle istanze distruttive, che quasi sempre hanno caratterizzato il loro sviluppo, ostacolandolo o rendendolo altamente disarmonico (Petrella, 1993).
Lo scadere dell'attività nell'attivismo, oppure far si che la maniacalità prenda il posto dell'entusiasmo costituiscono pericolosi atteggiamenti difensivi per proteggersi dal panico derivante dal sentimento di invasione, di prosciugamento o, di contro, dal sentimento di inutilità e di impotenza, che così frequentemente caratterizzano l'incontro con lo psicotico. La pazienza e la gradualità sono le condizioni basali perchè "stati temporanei di lutto" (Jacques, 1970), legati a sensazioni di incapacità, limitatezza, tendenza a commettere frequentemente errori, possano via via essere vissuti e, quindi, tollerati, senza sfociare in una pseudonormalità, fatta di affaccendamento senza riflessione, che predispone al rischio di cadute catastrofiche difficilmente elaborabili, oppure nell'abbandono definitivo dell'esperienza riabilitativa, avvertita come eccessivamente frustrante (Schinaia, 1997). In una logica pedagogico-comportamentista, il paziente viene considerato come una persona cui offrire occasioni che gli sono mancate nel corso della vita e a cui insegnare come svolgere funzioni -di tipo professionale, artigianale o artistico- di cui nel processo di cronicizzazione ha perduto la conoscenza o la padronanza. Un approccio di questo tipo rischia di non tenere conto di due fattori fondamentali. Innanzitutto è necessario considerare che l'insistenza solo sul lato considerato sano del paziente, che è pure valida di per sè, può accentuare la scissione, costruendo quindi nel paziente una specie di falso sè, adattato alle richieste del contesto, ma separato dal suo nucleo interno drammatico e sofferente. In secondo luogo poichè il dramma di questo tipo di paziente è dato dalla debolezza delle forze coesive del sè, è necessariò che qualsiasi iniziativa terapeutica tenga conto di questo aspetto fondamentale e non tanto delle prestazioni in quanto tali. (Correale, 1991)
Sono spesso incontri discreti gli unici permessi con i pazienti psicotici, e gli unici a rivestire una funzione eutrofica, incontri mediati dal fare insieme, o incontri appena abbozzati, che possano rispettare i profondi bisogni di non coinvolgimento, o che possano attivare un interesse per l'altro senza muovere richieste grandiose e fusionali, che poi verrebbero sempre deluse inevitabilmente e traumaticamente. Si tatta di qualcosa di analogo alla "misura attenuata", così necessaria nella psicoterapia dei pazienti gravi (Arrigoni Scortecci, 1997) per cogliere il mondo interno del paziente, senza tuttavia perdersi in esso. L'antidoto per evitare che l'isolamento e l'abbandono possano surrettiziamente ripresentarsi anche quando sembravano debellati è una sorta di vigilanza empatica sulle relazioni che tutti i componenti lo staff intrattengono con i pazienti in tutti i luoghi d'incontro. (Corradi, 1998).

LA GARANZIA DI NARRABILITA'

Se nel libro "Il paese degli specchi" si sosteneva la necessità di ristoricizzare, sottintendendo l'aspetto ricostruttivo della donazione di senso a vicende esistenziali che parevano fuori da qualunque contesto spaziale e temporale, io credo che rispetto a vent'anni fa il problema centrale sia quello di costruire storie narrabili, racconti, in cui il paziente e il suo curante possano riconoscersi. Se il ricostruire rimanda all'ideale dell'Io, un po' come il guarire, il narrare rimanda alla relazione d'oggetto, un po' come il curare.
La narrabilità di un'esistenza attraverso il lavoro di scambio nel gruppo terapeutico, la costruzione di una trama possibile e via via condivisibile dal paziente sono le condizioni perchè il termine ristoricizzazione abbia un valore non solo archeologico, ma di inserimento in uno spazio-tempo esterno di un proprio spazio-tempo interno; poichè ogni narrazione è anche una conversazione, all'interno della quale è sempre presente un interlocutore, vengono a costruirsi le fondamenta per la determinazione di un campo intersoggettivo . Anche nella storia dell' Uomo dei lupi, Freud trasforma una sua associazione fatta nell'hic et nunc della relazione in un ricordo del paziente e così una supposizione diventa parte del di lui passato. Solo in questo modo la ricostruzione dell'episodio riesce a recuperare i temi centrali della storia dell'Uomo dei lupi, ovvero la scena primaria e la minaccia di castrazione. Ogni ricostruzione che è una verità narrativa (Spence, 1982) può avere una funzione curativa. 
Si dovrebbe pensare che ogni stesura di un racconto, comportando uno sforzo di organizzazione narrativa che plasma il passato del paziente, come creazione del presente nel momento della raccolta dei dati anamnestici, finisce con il diventare essa stessa il passato. Si viene a creare una verità narrativa (quella del racconto anamnestico) che finisce per confondersi con la verità storica (quella legata alla vita del paziente ) (Spence, 1982), e diviene unica testimonianza della sua esistenza.
La storia di un paziente da tanti anni ricoverato in un ex manicomio, così come emerge dalla raccolta dei dati anamnestici si costituisce come un testo che, per le sue peculiarità di linguaggio stereotipato e centrato su un' esposizione medicalistica, appare destituito delle connotazioni di tempo e di identità e, pertanto, non possiede quelle caratteristiche di "tessuto" (Barthes, 1973), all'interno del quale dovrebbero esserci generatività e creatività.
Anche all'interno di quel linguaggio arido esistono tuttavia tracce di comunicazione, sorta di errori che lasciano trapelare segni di umanità, abbozzi di attenzione; l'atto dello scrivere l'anamnesi non è pertanto un evento neutrale, ma si costituisce come una più o meno volontaria traduzione del testo del mondo del paziente. L'uso errato di un participio, un neologismo con vaghe assonanze dialettali, l'omissione di una parola che rende il testo contemporaneamente incomprensibile e leggibile con diverse interpretazioni come il messaggio della Pizia, un Mario che diventa Maria, un lapsus calami o, più in generale, un allentamento o una cesura o un intoppo o uno scarto d'accelerazione nel ritmo sintattico, possono illuminarci su brandelli di una storia non trascritta, su impressioni del compilante che non si materializzano nella parola scritta, ma che aspettano di essere svelate da una lettura non preconcetta e liberamente impuntuale. (Schinaia e coll., 1994)
La storia effettiva a cui si può arrivare da storie non raccontate e represse può assumere le connotazioni di un'esperienza vicariante, là dove c'è assenza di storia; non si tratta di un'operazione che va a costituire ex novo l'identità del paziente, ma di un tentativo di restituirgli la possibilità di riappropriarsi di quanto potrebbe essere suo.
Esiste una relazione fra narrazione, attività cognitive, impegnate in quello che è stato definito il flusso di coscienza, e la memoria, la cui attivazione potrebbe essere utilizzata nel lavoro di riabilitazione dei pazienti cronici. Poter alimentare operazioni di pensabilità di una rappresentazione che prima era inaccessibile alla coscienza, farle evolvere attraverso micro-operazioni autobiografiche o para-autobiografiche vuol dire creare le basi per operazioni di narrabilità, esistendo un rapporto dialettico fra rappresentazione, elaborazione mentale e narrazione. (Meterangelis, 1998)
E' ipotizzabile la costituzione di un campo dinamico strutturato da una relazione bipersonale che ha luogo in un tempo attuale: è il tempo della rinarrazione della comune esperienza paziente-terapeuta nella quale il personaggio-paziente può acquisire senso (semantizzarsi per Lotman, 1970), se vengono valorizzati gli elementi anamnestici a cui finora sono state sottratte le implicazioni semantiche. In questo lavoro il terapeuta è assimilabile a un lettore che, nella decifrazione del testo, mette in atto processi di memorizzazione e costruzione: l'atto di rimembrare suggerisce etimologicamente il rimettere insieme "membra e lembi dispersi" (Chasseguet-Smirgel, 1986) come principio di un lavoro ricostruttivo rivolto al mondo interno frantumato dello psicotico, al quale il contesto narrativo si offre come un "primario contenitore" (Gaburri, 1987), in opposizione alla "contenzione" dell'istituzione, che ha fissato la frantumazione in una dimensione atemporale.
L'impulso a riparare un mondo a pezzi riporta alle osservazioni di Hanna Segal (1991): "…la percezione che il suo mondo è a pezzi…porta alla necessità per l'artista di ricreare qualcosa che è sentito essere un mondo completamente umano". Il lavoro del terapeuta con il paziente e quello dell'artista con la propria opera sembrano accomunati dall'aspetto della riparazione, che consiste nel "lasciare andare l'oggetto." (Segal, 1991)
Per tessere una narrazione è di continuo necessario sopprimere un insieme di storie possibili, per dar modo a quelle prevalenti e più significative di prender corpo e sviluppo. Ferro (1996) per storie prevalenti e più significative intende quelle che derivando dal transfert e dagli elementi beta del campo, consentono e attivano il massimo di trasformazione narrativa. In fondo è la concatenazione di successivi vertici narrativi che consente il definirsi di un racconto.
La garanzia di narrabilità di storie possibili, di miti, la cui trama possa contenere il paziente, all'interno dell'èquipe terapeutica è la condizione per operazioni di significazione trasformativa, che modificando la visione del paziente, modificano anche i vissuti degli operatori e permettono quello che Ferro (1996) chiama "il ricordo di esperienze nuove".

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