A vent'anni dall'approvazione della legge 180, chiudono per sempre, e senza ulteriori ripensamenti, le strutture che furono manicomi. Si direbbe, a voler guardare la cosa dal punto di vista simbolico, che il sogno di Franco Basaglia trova così il suo coronamento definitivo, ma é probabile che l'ottimismo indotto da una troppo facile correlazione simbolica non sia del tutto giustificato, né che sarebbe gradito al suo ispiratore.
Due domande fra tutte quelle che ci si potrebbe porre in questo momento per alcuni versi storico: ce n'era veramente bisogno? A leggere le dichiarazioni dei politici, sembrerebbe di sì, nel senso che senza la chiusura degli ex manicomi (diventati nel frattempo, anche se non dappertutto, strutture molto diverse da quelle che erano prima della 180), la riforma non potrebbe dirsi veramente conclusa.
Vero é che la situazione nell'assistenza psichiatrica é, nel nostro paese, sufficientemente difforme da una realtà locale all'altra (persino, come accade in Liguria, all'interno di una stessa regione) da rendere improrogabile in certe situazioni ciò che può essere considerato non prioritario in altre; tuttavia qualcuno, con ragione, fa notare che c'é ben altro da fare per concludere la riforma: incremento delle strutture intermedie ancora largamente insufficienti, potenziamento dei centri territoriali, riempimento dei vuoti di organico dei servizi.
Qualcun altro (lo ha fatto recentemente, e con la consueta decisione, Antonio Slavich) segnala il pericolo della possibile rinascita di manicomi all'interno delle strutture private, timore che non sembra infondato.
Non si può non tener conto delle molte situazioni in cui il mantenimento delle strutture espone a richio di incuria grave i degenti, tuttavia é anche possibile osservare, in aggiunta, che nel clima di urgenza venuto a determinarsi con il diktat del governo alle regioni, il rischio di danneggiare i pazienti, in una logica di deportazione indiscriminata, é alto. Proverò a spiegarmi con un esempio.
Ho lavorato per otto anni come assistente presso l'ex ospedale psichiatrico di Quarto, ed ho un ricordo tuttora molto vivo, nonostante siano trascorsi circa dodici anni dalla fine di quell'esperienza, di un mondo che portava i segni indelebili di un passato di disperazione e di abbrutimento.
Di quegli anni ricordo soprattutto Maria B., una donna che, dopo quarant'anni di ricovero, aveva instaurato, con gli ambienti nei quali trascorreva l'esistenza, un attaccamento simile a quello di una pianta conficcata nel terreno.
Con lei, l'obbiettivo terapeutico più ambizioso era quello di portarla a pensare se stessa come essere umano capace di spostarsi, di abbandonare il suo letto per raggiungere un luogo qualsiasi, senza essere sopraffatta da terribili angosce di morte, dal riacutizzarsi delle “voci” che la tormentavano, nonostante l'uso massiccio e ininterrotto di psicofarmaci.
Per anni si continuò a proporre a Maria il trasferimento dalla stanza di infermeria, una normale corsia di ospedale, ad una stanza adiacente, arredata con cura e priva di connotazioni “sanitarie”: pochi letti e un piccolo salottino per leggere, chiacchierare, lavorare a maglia; ma ogni tentativo era continuamente ostacolato dal riproporsi di malattie che rendevano necessario il ritorno in infermeria.
Il processo di trasformazione dell'ospedale implicava la creazione di luoghi molto simili a normali appartamenti per ospiti parzialmente autosufficienti. Noi sapevamo bene che Maria temeva che accettare di uscire definitivamente dalla sua vecchia corsia avrebbe potuto significare l'inizio di una vita più autonoma che lei rifiutava con determinazione assoluta.
L'unica volta che si riuscì a convincerla a trascorrere due settimane di vacanza assieme ad altri degenti e alle sue infermiere, fu riportata d'urgenza a Quarto, in preda ad una violentissima manifestazione allergica che le aveva gonfiato il volto fino a renderla quasi irriconoscibile. Fu ricoverata in Dermatologia, e dopo pochi giorni, guarì, dietro assicurazione che non sarebbe più uscita da Quarto.
Anni dopo, la divisione in cui era ospitata dovette chiudere. Il lavoro di preparazione al trasferimento dei degenti, che sarebbero andati ad abitare in una “Comunità Protetta” appositamente realizzata entro il perimetro dell'ex-Ospedale Psichiatrico di Quarto, durò parecchi mesi, e alla fine, anche Maria si persuase ad andare.
Il vecchio reparto cessava per sempre di esistere, per essere trasformato in un nuovo e più funzionale Centro Sociale per i degenti.
A poche settimane dal trasferimento, dopo una brevissima malattia preceduta da un'improvvisa perdita dell'appetito, Maria morì: mai morte fu, nella mia esperienza, più “psicosomatica” di quella.
Questa storia mi torna in mente oggi, quando sento parlare di chiusura “urgente” dei manicomi, e mi chiedo quante Marie rischino di sentirsi insopportabilmente lacerate nel dover abbandonare luoghi al di fuori dei quali non sanno vivere.
La storia di Maria insegna che per gli schizofrenici residuali non necessariamente il “meglio” é preferibile al “poco”; ma sarà poi veramente “meglio” quello che attende i degenti degli ex manicomi, o non sarà soltanto “meno dispendioso”?
Il rischio che oggi si ripropongano nuove realtà non terapeutiche, segregative e spersonalizzanti non é da sottovalutare, poiché, di fronte alle difficoltà economiche, qualcuno potrebbe essere tentato di proporre, soprattutto per chi ha meno, soluzioni poco dispendiose e più sbrigative di quanto non richieda una corretta impostazione di programmi terapeutici ed assistenziali.
Per impedire che i manicomi rinascano, occorre invece rafforzare le strutture territoriali, e soprattutto crearne di nuove laddove ancora non esistono. Ed è altrettanto urgente riconoscere finalmente il ruolo che spetta alla tutela della salute mentale dei bambini e degli adolescenti, poiché senza di essa non esisterà mai vera prevenzione delle malattie psichiche: anche di quelle degli adulti.
Affermare che la malattia mentale ha le sue radici nell'infanzia é pensiero certamente ovvio, scontato, del quale soltanto raramente ci si ricorda.