Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, negli imperi coloniali europei, lo studio e la cura dei disturbi mentali degli «indigeni», dei «nativi», quello che chiamiamo «psichiatria coloniale», ebbero una rilevanza marginale in organizzazioni sanitarie impegnate principalmente nel contrasto alle malattie tropicali.
Gli psichiatri italiani che lavorarono in colonia e comunque fuori dall’Europa, si contano sulla punta delle dita di una mano e la psichiatria italiana «metropolitana» ignorò di fatto la questione. I contributi e gli interventi italiani in tema di psichiatria coloniale furono scarsi sia qualitativamente che quantitativamente rispetto a quelli elaborati da colleghi francesi, britannici, tedeschi, olandesi.
Propongo le considerazioni che Giorgio Ruata, medico psichiatra, pubblicò nel 1907, ai margini della sua esperienza di lavoro dal 1894 al 1903 all’Ospicio Nacional de Alienados di Rio de Janeiro.
Guido Ruata lavorò poi nel manicomio provinciale di Cuneo e in altre sedi; fu attivo nell’organizzazione della Società italiana di psichiatria negli anni del Fascismo.
Egli discusse nel suo articolo delle patologie psichiatriche degli internati negli asili del Brasile, in particolare delle malattie mentali della razza negra per affere che i negri sono meno evoluti dei bianchi, i loro atti psichici sono meno rapidi, il loro cervello è meno pesante di quello dei bianchi, mentre il cervello dei negri nord americani è più pesante di quello dei negri sudamericani a seguito e per merito degli incroci “razziali”. Stigmate della inferiorità dei neri è l’incompleta evoluzione dei solchi frontali. Pertanto
il cervello di un negro adulto è uguale a quello di un bambino europeo, quindi poco raziocinio e sentimento etico, forte sensualità, passionalità, volubilità, atto a imitare più che a creare.
A peggiorare questa inferiorità biologica si sarebbero aggiunte le conseguenze dell’abolizione della schiavitù (il 13 maggio 1888 la regina Isabella aveva decretato la fine della schiavitù in Brasile), che avrebbe favorito un’ulteriore degenerazione della razza negra per effetto del degrado dei costumi (consumo di alcool, sessualità sfrenata) con aumento di alcoolismo e sifilide.
I negri comunque, per un limite biologico ereditario, non sarebbero passibili di positiva evoluzione psichica. Le forme delle malattie mentali da cui sono affetti trovano la ragione nell’infantilismo del loro cervello. Lo dimostra il fatto che la paranoia cresce fra i bianchi coll’aumentare della civilizzazione ed è più presente nei mulatti, a differenza della frenosi maniaco depressiva più frequente fra i neri in quanto la più «elementare» delle malattie mentali. Nei popoli selvaggi si assisterebbe «all’infanzia dell’alienazione mentale».
Ma Ruata non si limita qui, alla “razza negra”, perché anche in Italia
i nostri rozzi contadini, presentano una ridotta e monotona organizzazione dei loro deliri, consentanea appunto, con la inferiorità della loro razza.
Ruata conclude le sue considerazioni proponendo il seguente “piccante” e singolare rimedio:
Se noi vogliamo tentare di elevare il negro a più alto livello civile, potremmo farlo in modo sicuro soltanto quando ne rinforzassimo il cervello con opportuni incroci con la razza bianca e col dargli la educazione morale e sana della civiltà moderna.
Quanto alle dotazioni anatomiche e al patrimonio mentale di genere, Ruata notava che non vi è differenza fra il peso del cervello delle donne bianche e di quelle nere.
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