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La filosofia può diventare terapia?

20 Lug 13

A cura di ciofi

In un momento politico e sociale nel quale i corporativismi professionali stanno disperatamente giocandosi le loro ultime carte (vedi recente questione referendaria tra gli psicologi), consapevole del mio ardire provocatorio, voglio oggi proporre, in modo lieve e divulgativo, una riflessione sul tema inviatami qualche tempo fa dall'amica Maria Luisa Valenti filosofa e tra poco collega.

Filosofia e terapia. Mia personale opinione è che ben più che alla medicina sia proprio alla filosofia che la psicoterapia debba i suoi fondamenti.  Conseguendone che pare davvero incomprensibile il fatto che per essere psicoterapeuti in questo nostro paese vadano bene le lauree di base in medicina o psicologia ma non sia utile quella in filosofia.

Ma non voglio dilungarmi in questioni complesse di politica professionale e lascio dunque la parola a Maria Luisa.

"Proprio oggi, una persona mi ha posto un quesito che, seppur dettato da una seria sofferenza interiore, non può non fare riflettere.

Siccome la persona ha acconsentito a rendere pubblica la sua domanda, ne riporto per intero, con tutte le doverose modifiche che tutelino rigorosamente l’anonimato della scrivente.

Volevo sapere se lei si occupa di consulenza filosofica. Perchè dopo 12 anni di psicoterapia ho cambiato tipo di aiuto. Mi sono rivolta ad una consulente filosofica, ma sono fortemente in crisi….mi piaceva sapere se lei fa questa professione e se crede in questo tipo di aiuto per affrontare i disagi dell’anima. La mia anima è stata fortemente messa a dura prova dalla vita …e non trovo la strada per tornare a vivere e non sopravvivere!

Se ha tempo puoi dare un’occhiata alla pagina Chiedi aiuto alla filosofia? Ho interagito con una professionista che dice di occuparsi di consulenza filosofica in alternativa alla psicoterapia….io sto riflettendo su cosa fare. La percepisco come una persona professionalmente preparata ma io abito a Milano. Questa consulente mi prenderebbe in carico effettuando le sedute telefonicamente……ho tanti dubbi….Cosa ne pensa? Mi dia solo un suo parere, non avra’ nessuna responsabilità nelle mie scelte.

La figura del “Consulente filosofico” è una nuova “presenza” professionale che oggi accresce la già ben nutrita galleria delle offerte terapeutiche che si propongono di alleviare o “curare” l’umana sofferenza. Senza entrare in merito alla configurazione legale del problema, che riguarda la legittimità o meno di poter “invadere” un territorio tradizionalmente riservato agli psicologi, psicoterapeuti e medici-psichiatri – territorio peraltro regolarmente tutelato da specifici albi professionali -, è giusto chiedersi se la Filosofia possa assumersi il compito specifico di “curare” i disagi delle persone, e, se del caso, “quali” tipologie di disagi.

Se si escludano le tradizionali “categorie” cliniche di sofferenze psichiche, che richiedono interventi di più specialistica competenza, sembra che la consulenza filosofica non possa che rivolgersi se non a quell’area delle problematiche esistenziali, che potremmo racchiudere sotto la comune denominazione di “male di vivere”.

Un “male” assai diffuso in particolare nella nostra epoca, dove la “cultura della precarietà”, dilagante in tutti i campi della vita, rende insicuro l’esistere, mettendone a repentaglio il senso.

Fin dal secolo XIX e poi, soprattutto, nel secolo XX, dopo le due guerre mondiali, vi furono correnti filosofiche che già mettevano in risalto il senso di precarietà della vita umana. La principale di queste filosofie fu l’Esistenzialismo (Kierkegaard, Heidegger, Sartre, Marcel, Abbagnano, per citare i nomi più prestigiosi).

L’Esistenzialismo, nel polivalente panorama degli indirizzi filosofici, è stata indubbiamente la filosofia che maggiormente si è addentrata nell’analisi della condizione di tragica e solitaria sofferenza in cui si trova l’uomo nel suo essere-nel-mondo.

restaurant_160x600.gifPer questa sua peculiare caratteristica, l’Esistenzialismo ha prodotto spesso sofisticate ed approfondite analisi della psiche umana, al punto di attirare l’attenzione degli psicologi e degli psichiatri, che sovente si sono serviti dei contributi di questa filosofia, trasferendoli in ambito psicoterapeutico. Si pensi, ad esempio, a Ludwig Binswanger, il grande psichiatra svizzero, che tentò, dagli anni ‘ 30 agli anni ‘ 60, una interessantissima sintesi fra la psichiatria e il pensiero di Heidegger, con esiti rivoluzionari sul piano della cura della malattia mentale ; così come hanno fatto anche altri illustri psichiatri e psicologi, che dall’Esitenzialismo hanno tratto ispirazione per “curare” la sofferenza umana, come Victor Frankl e gli psicologi e psichiatri statunitensi, che fondarono la “Psicologia esistenziale”, e la “Psicologia umanistica” (May, Allport, Murphy e altri).

L’incontro storico fra Esistenzialismo, Psicologia, e Psichiatria testimonia, certamente, come la Filosofia non sia poi così lontana dal territorio delle scienze della psiche umana ; tuttavia il problema che rimane aperto è se si possa fare un uso “clinico” di essa, senza stravolgere la più intima ed essenzaile natura della Filosofia stessa

Lettura suggerita
La saggezza ritrovata. La filosofia come terapia

Il pensiero filosofico, nella sua più intima essenza, è un tipo di riflessione che ha sempre mirato a fornire risposte di carattere “generale” ed “universalistico” ai quesiti sul senso della vita e della realtà in genere, che fin dalle epoche più antiche hanno tormentato la mente umana. Tali risposte hanno sempre avuto una portata di carattere sovraindividuale, nel senso che mai hanno posto attenzione particolare alla condizione specifica della singola persona. In filosofia, quando si parla di “condizione umana”, ad esempio, si allude alla “Umanità” in generale, non al singolo individuo, storicamente, geograficamente, culturalmente determinato, con la sua personale biografia e con l’assetto del tutto unico ed irripetibile della sua presenza nel mondo. Questo versante del tutto particolare è stato sempre sostanzialmente assente dal pensiero filosofico. Anche lo stesso Esistenzialismo parla della “esistenza umana” in generale e non delle vicende specifiche del singolo “esistente”. Gli psicologi e psichiatri che si sono “ispirati” all’Esistenzialismo, ne hanno utilizzato il linguaggio, come fonte preziosa e suggestiva di arricchimento delle categorie cliniche in uso nelle scienze “mediche”, ma si sono staccati dalla Filosofia vera e propria quando doveva essere affrontata la dimensione “clinica” della sofferenza del singolo.

Sicuramente il linguaggio filosofico ha portato una ventata di novità nel campo della ricerca sulla sofferenza esistenziale, educando ad una nuova modalità di ascolto e di interpretazione dei disagi psichici, soprattutto per quanto concerne la loro cornice umanissima ; ma lo “scarto” fra la “vocazione” squisitamente universalistica della riflessione filosofica e l’orizzonte “clinico”, cioè individuale, della psicoterapia, rimane e rimarrà pur sempre una sostanziale differenza qualitativa nell’approccio alle problematiche umane.

Tutto questo nulla toglie al fatto che poi, su di un piano pratico, molte persone possano anche “trovare conforto” alle loro individuali sofferenze, leggendo, dialogando, e ripensando il “romanzo” della propria vita in termini filosofici, con l’aiuto di un “consulente-filosofo”, piuttosto che affidarsi ad uno specifico percorso psicoterapeutico. Se questo “sollievo” interiore viene felicemente raggiunto mediante la Filosofia, ben venga : come un tempo si diceva : “tutte le strade conducono a Roma”. Chi si occupa autenticamente del benessere delle persone e non della tutela arrogante del proprio territorio di competenza, cioè chi si occupa non esclusivamente della “malattia”, ma del “malato”, non potrà che essere soddisfatto."

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2 Commenti

  1. santi.lagana

    Francesco caro,
    commento con

    Francesco caro,
    commento con piacere quanto scrive l’amico Rolando, che conosco e stimo e quanto scrive Maria Luisa Valenti.

    La questione posta, a mio avviso, sta su due versanti.

    Il primo è di natura legislativa.

    L’Articolo 3 della Legge 56/89 sancisce l’esclusiva della formazione in psicoterapia solo ai medici e agli psicologi. La legge, dunque, non istituisce una nuova professione (psicoterapeuta), ma una specializzazione delle professioni di medico e psicologo.

    Sappiamo, che tutte le organizzazioni di psicoterapia europee, italiane comprese, hanno sottoscritto nel 1990 la “Dichiarazione di Strasburgo sulla Psicoterapia” dove è chiaro che la formazione di base per formarsi in psicoterapia sono le Scienze Umane e Sociali. Ecco perché, Bernd Bocian, autore per le Edizioni “Franco Angeli” della versione italiana del libro “Fritz Perls a Berlino 1893 – 1933: Espressionismo – Psicoanalisi – Ebraismo”, in una lettera inviata qualche tempo fa, mi scrive: “Io stesso sono laureato in socio-pedagogia e, come è possibile (giustamente) in Germania, sono formato e lavoro anche come psicoterapeuta”.

    Ora, la domanda nasce spontanea: i Filosofi e i Pedagogisti tedeschi sono più bravi dei Filosofi e dei Pedagogisti italiani? Esiste, dunque, una distorsione nell’Articolo 3 della Legge 56/89?

    Le leggi dello Stato vanno rispettate, ma credo si possa dire che quell’Articolo 3 è proprio una “Sanitizzazione” dei percorsi di “Cura”, dove si invita a curare e non a riconsegnare la “Cura”.

    La seconda è di natura culturale.

    Ripensare la “Cura” come competenza umana implicitamente pedagogica. Fa bene Maria Luisa Valenti a citare Binswanger, che a pag. 164 del suo “Per un’antropologia fenomenologica” (Feltrinelli 1970) scrive: la terapia stessa “nella sua forma e funzione proprie” è “comunicazione suscitante ed educativa”. In questa prospettiva la cura prima di essere terapia, è relazione, dunque comprendere l’altro “come si dà” (Ibidem) e non limitarsi a spiegarlo, come un qualsiasi fenomeno della natura. Ogni osservazione, quindi, che trascuri la relazione Corpo Mondo è deficitaria. Tutto ciò ci induce a pensare che sia, quindi, impossibile e fuorviante tentare di comprendere e osservare una persona a prescindere dal campo di cui essa è parte. E’ possibile, allora, cogliere un’affinità tra le Scienze umane come la Filosofia, la Pedagogia e la Psichiatria Fenomenologica? Credo di sì perché tali saperi sono teorie di un’agire formativo sull’uomo e fondati su una teoria dell’uomo. Su questo versante, Rita Fadda in “La cura, la forma, il rischio. Percorsi di psichiatria e pedagogia critica”, ci dice che per la Psichiatria Fenomenologica, l’uomo sia da “curare” più in senso pedagogico che medico, come un prendersi cura del soggetto in via di costituzione e sempre su questo versante in “Teoria e Pratica della Terapia della Gestalt“ mi ritrovo a rileggere che la terapia non è altro che “uno sviluppo della dialettica socratica” (F. Perls et al., 1997, 59) e come l’incontro avviene in un setting maieutico, educativo dunque, dove al confine di contatto è possibile coevolvere. Del resto, in Affettività e cura. Intervista a Eugenio Borgna a cura di Paola Molinatto, “Animazione Sociale”, 1998, 3, p 4, Borgna parla di “unità epistemologica” riferendosi alle persone coinvolte nella cura, cura che non può iniziare senza una “comunanza di destino”. Cura dell’altro e cura di sé sono strettamente implicate. Non si dà l’una senza l’altra. Di fronte a ciò, cosa significa mettere all’ordine del giorno l’”aver cura” degli altri? Significa, presupporre gli altri nel loro “poter-essere”, senza sottrarre loro la Cura.

    M. Heidegger in “Essere e Tempo” riporta una fiaba sulla Cura che è attribuita dalla tradizione a Igino, erudito, liberto di Augusto, bibliotecario e maestro di scuola.

    “La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad essa una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. II quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”.

    Su questo versante emerge, dunque, la domanda: “Qual è il rapporto tra Ermeneutica e Clinica?”

    H. G. Gadamer in “Dove si nasconde la salute” chiarisce questo rapporto. Infatti, nel libro, Gadamer torna puntualmente sull’“Ermeneutica”.

    Scrive: “[…] arte di potersi reciprocamente scambiare notizie e – nella – […] facoltà di ascoltare gli altri, […] il carattere universale di ogni ermeneutica che comprende e sorregge il nostro pensiero e la nostra ragione”. L’Ermeneutica, dunque, non è da relegare al solo compito di ausilio per le differenti scienze, poiché “[…] arriva a toccare le profondità della filosofia” che segue sempre il dialogo, la dialettica che danza tra domanda e risposta.
    Di fronte a ciò, qual è il rapporto tra “teoria” e “prassi”?

    Ho avuto la fortuna di conoscere Hans Georg Gadamer e ricordo ancora due cose che ci disse. La prima riguardava la phrònesis (φρόνησις) e commentando Aristotele ci disse: “La phrònesis è un sapere coinvolto e interessato che cresce e si struttura in un’intima familiarità con l’azione”. La seconda riguardava la “Salute”. Ci disse: “Se incontriamo un amico e gli chiediamo: “Come stai?” L’amico può rispondere: “Sto male” e allora noi siamo, quasi, autorizzati a dire: “Cosa ti fa male?” Quindi la malattia si palesa, mentre è la Salute che si nasconde e voi dovreste essere cercatori di salute e non di malattie”. Certo, Gadamer queste cose le ha scritte, ma sentirgliele dire, ascoltarlo, fu molto bello.

    In ultimo, mi permetto di citare una delle più belle cose scritte da Platone (Carmide pag. 157): “θεραπεύεσθαι δὲ τὴν ψυχὴν ἔφη, ὦ μακάριε, ἐπῳδαῖς τισιν, τὰς δ’ ἐπῳδὰς ταύτας τοὺς λόγους εἶναι τοὺς καλούς”.
    “L’anima, o caro, si nutre di certi incantesimi e questi incantesimi sono le parole belle”.

    E allora, non la Psicologia e le scienze affini o lo Psicologo e le professioni affini, ma come i “Saperi si pongono intorno all’uomo” o se si vuole come i “Saperi si pongono intorno al dolore dell’uomo”.

    Sì, l’Articolo 3 delle Legge 56/89 andrebbe proprio modificato.
    Un abbraccio.
    Santi.

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    • giformen

      Senza saper dare una
      Senza saper dare una risposta, nel mio percorso individuale mi specializzai in psicologia all’inizio degli anni 80, allora a Milano non vi era la facolta’ ma la scuola di specializzazione. Vi si accedeva con diverse lauree, in medicina, in lettere e filosofia, in ingegneria: faccio questi esempi per significare che, all’interno del corso di specialita’, si integravano e si confrontavano quotidianamente saperi diversi quasi che la psicologia fosse una sorta di sintesi, un sapere “elevato”. Musatti, docente emerito, era laureato in matematica. Tra i colleghi del mio corso, ognuno fece la scelta professionale piu’ disparata. Obbiettivo non era la terapia, ma un percorso di formazione sull’uomo che per qualcuno e’ evoluto anche in quello ma non necessariamente. Chi poi vedeva come sua strada la terapia iniziava un lungo percorso didattico.Giustamente i tempi cambiano, la formazione non solo in psicologia e’ sempre piu’ tecnica. Ma ho l’impressione che si corra il rischio di focalizzarsi su una conoscenza sempre piu’ riduttiva, piu’ incline a categorizzare che ad esplorare l’unicita’ di ogni individuo. Cosciente che la mia e’ una posizione pregiudiziale.

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