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I nostri stili di vita sono immutabili?

25 Lug 13

A cura di luigidelia

Non penso sia un problema parlare di temi quali il rapporto tra economia, politica e benessere psicologico partendo da un approccio psicoterapeutico, nell’accezione più inclusiva possibile di questo costrutto. Uno psicoterapeuta deve infatti possedere allo stesso tempo sia delle buone ipotesi scientifiche di lavoro, sia un praticissimo buon senso se vuole occuparsi efficacemente delle vite altrui.

E proprio a partire dallo sguardo dello psicologo e psicoterapeuta che mi capita sovente di riflettere sull’inestricabilità tra sistemi economici e attuali stili di vita. Ma nel tentativo di gettare il cuore oltre l’ostacolo mi capita anche di inciampare sul nodo gordiano che prima o poi incontrano tutti coloro che si occupano di queste tematiche, ossia mi riferisco all’impossibilità di immaginare, con accettabile realismo, un mondo differente da quello attuale governato dal sistema operativo turbocapitalistico nel quale viviamo da diversi decenni.

Certo, se voglio cambiare software al mio pc, la cosa risulterà piuttosto semplice: vado dal tecnico che mi formatta il pc, disinstalla il vecchio software e ne installa uno nuovo, al limite rendo il vecchio pc e passo alla concorrenza che usa un altro sistema operativo.

Se invece voglio cambiare il mio stile di vita (o aiutare qualcuno a farlo per necessità) posso imparare magari con molta fatica a riconfigurare quasi tutto delle mie abitudini: cambiare orari di veglia/sonno, abitudini alimentari, lavoro o rapporto col lavoro, rapporto col corpo, con i pensieri, con la gestione del tempo, con l’ambiente, con gli oggetti, con le persone, con i riferimenti affettivi, posso addirittura cambiare nazione, etc, ma quello che sembra che non si possa proprio fare è cambiare le regole economiche che sovraordinano tutte le mie abitudini e dalle quali in buona parte dipendono.

Il riferimento neanche tanto implicito di questa considerazione è ad un ampio spettro di fenomeni politico-economici del tutto propri del sistema turbocapitalistico vissuti ormai come eventi della natura ineluttabili e non come scelte umane, vediamone alcuni a mo’ di esempio:

  • pensiamo alle ricadute del conservatorismo nelle politiche energetiche che fanno di fatto prevalere il petrolio su alternative già tecnologicamente mature ma mantenute sullo sfondo;
  • pensiamo alle logiche che governano l’obsolescenza programmata di tutte le merci e che imbrigliano come in un nodo scorsoio lavoro, economia e consumi;
  • pensiamo all’instricabile rapporto esistente tra abitudini al consumo in ciascuno e prosperità di un paese;
  • pensiamo alle ricadute relative all’intreccio tra filosofie del marketing e della propaganda mediatica e filosofie del marketing politico;
  • pensiamo all’intreccio sempre più pervasivo tra le logiche delle economie mafiose e economie tout court.
Sfidare o solo rimettere in discussione questi ed altri capisaldi della nostra vita quotidiana appare oggi sempre più come atto utopistico al limite del blasfemo, che nel migliore dei casi ci vale un giudizio di tenero sognatore.

Ma proviamo ad approfondire il discorso facendoci aiutare da altri contributi.

In L’invincibilità del capitalismo Eugenio Orso, un analista politico anticapitalista argomenta della capacità del sistema neoliberistico di risorgere dalle proprie ceneri e di nutrirsi delle crisi che provoca. Egli elenca cinque capisaldi dell’invalicabilità dell’attuale capitalismo:

  • “[1] rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive (riuniti in uno perché lo sviluppo delle forze dipende strettamente dai rapporti di produzione in essere),
  • [2] l’ideologia di legittimazione sistemica (l’economia liberista e mercatista non è scienza, ma ideologia e come tale ha la funzione di legittimare il sistema),
  • [3] manipolazione antropologica e culturale dell’uomo (delle classi dominate, in particolare) attuata su vasta scala (utilizzando, a tale scopo, sia la precarietà lavorativa sia la potenza dei media),
  • [4] creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, che contiene in sé la “classica”, marxiana estorsione del plusvalore dal lavoro nella fabbrica,
  • [5] crisi come assetto strutturale neocapitalistico, e perciò destinata a mutare di forma e di aspetto, ad aggredire paesi e mercati nuovi, ma non a scomparire nei tempi futuri.”
Invece in Punti di leva: dove intervenire in un sistema Donella H. Meadows, una scienziata ambientale esperta di sistemi, troviamo un approccio più distaccato e razionale nel quale si descrivono in ordine di importanza le leve di un cambiamento di un sistema complesso. Secondo l’approccio “cibernetico” della Meadows sono (in ordine inverso d’importanza):
  • 12) Costanti, parametri, numeri (come i sussidi, le tasse, le norme)
  • 11) Le dimensioni dei buffer e altri stock stabilizzatori, rispetto ai loro flussi
  • 10) La struttura del capitale e dei flussi materiali (come reti di trasporto, le fasce d’età della popolazione)
  • 9) I ritardi per quanto riguarda la velocità di cambiamento del sistema.
  • 8) Il potere dei circuiti di feedback negativi rispetto agli effetti che provano a contrastare
  • 7) Il guadagno dei circuiti di feedback positivi
  • 6) La struttura dei flussi di informazione (chi ha e chi non ha accesso a qualunque tipo di informazione)
  • 5) Le regole del sistema (come incentivi, punizioni, vincoli)
  • 4) Il potere di aggiungere, cambiare, evolvere o auto-organizzare la struttura del sistema
  • 3) Gli obiettivi del sistema
  • 2) L’atteggiamento mentale o lo schema ideale – i suoi obiettivi, la struttura, le regole, i ritardi, i modelli  con cui il sistema si presenta
  • 1) Il potere di andare al di là dei modelli.
Naturalmente riporto questi indici schematici giusto per incuriosire il lettore che invito ad approfondire e a leggere per intero questi importanti contributi.
Il confronto singolare tra questi due contributi culturali così differenti (anche in relazione al differente ottimismo che trasmettono) non mi fa sentire perfettamente a mio agio, mi muovo goffamente tra Karl Marx e M.I.T., lo ammetto, ma mi limito ad utilizzare questa dissonanza culturale solo per visualizzare il senso di vertigine che procura il cambio di paradigma teorico e l’ipotesi realistica di attuabilità di un cambiamento radicale di un qualunque sistema (potrebbe essere un individuo o la politica economica globale).
Se penso a possibili applicazioni pratiche di quanto sto dicendo ed ispirandomi ai contributi citati (specie quello di Meadows), mi soffermerei per prima cosa su un paio di spunti di discussione.

1 – Il primo riguarda il seguente postulato: non c’è possibilità di modificare strutturalmente uno stile di vita senza incidere profondamente sul paradigma e sulla natura dello scambio economico tra le varie parti di un sistema.

Si pensi ad esempio all’ampio utilizzo che oggi già avviene del baratto o di sperimentazioni di scambi non inflattivi anche su larga scala. E proviamo a immaginare l’applicazione di questi principi in contesti che ci riguardano da vicino (come ad esempio la formazione professionale). Come si strutturerebbe, ad esempio, una formazione professionale non più economicistica, ma fondata su criteri di stretto comunitarismo professionale basato su un’economia relazionale? Non si pensi certo a comuni anarchiche o cose del genere, ma a procedure e metodi rigorosi del tutto analoghi a quelli attuali, ma con altri principi di scambio economici e organizzativi. Chi ci lavorerebbe, come si strutturerebbero le relazioni, quale qualità formativa si produrrebbe, quale innovatività si realizzerebbe applicando criteri totalmente spiazzanti? Sarei proprio curioso di osservare un esperimento del genere.

Si pensi inoltre alla rivoluzione che ha rappresentato il cambio di paradigma del microcredito di M. Yunus soprattutto in realtà molto povere (si veda ad esempio il numero monografico di Gruppoanalisi ed economia). Ma si guardi anche con attenzione a questi due innovatori italiani che operano nella finanza sostenibile in maniera egregia, operando anch’essi cambi di paradigmi importanti (si veda anche questa illuminante conferenza – primo segmento e a seguire gli altri).

2 – Il secondo spunto di riflessione riguarda questo altro postulato: non c’è possibilità di un cambiamento strutturale dello stile di vita utilizzando esclusivamente criteri individualistici e soggettivi.
Stiamo parlando di cambiamenti sistemici e quindi unitamente interni/esterni e unitamente individuali/gruppali. Non è cioè concepibile non coinvolgere gli altri-prossimi e i propri ambienti nei cambiamenti che si auspicano. Allo stesso modo occorrerebbe sfatare il mitologema psicologistico, con il quale bene o male siamo tutti cresciuti e formati, secondo il quale il vettore del cambiamento è sempre interno-verso-esterno. Atto interiore ed atto politico finiscono per assoggettarsi ad un unico movimento circolare e retroattivo.

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