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Il paziente (cliente) semiprofessionista, ovvero la sindrome “del paziente girovago”

27 Lug 13

A cura di ciofi

Sfioro oggi, con ironia, un tema non usualmente discusso nelle pagine divulgative ed informative inerenti la psicologia e la psicoterapia. tema che potremmo definire "del paziente girovago".

Lo spunto è un quesito che mi pervenne quando dirigevo (dal 2001 al 2008) un servizio di "chiedi all'esperto" su un portale di psicologia.

Di seguito riporto sia il quesito che la risposta che ritengo possano essere utili per stimolare riflessioni non tanto sul versante clinico quanto su quello più squisitamente culturale dell'immagine che le nostre professioni talvolta riflettono presso la loro utenza.

Quesito

Mi rendo conto che la mia domanda potrà suonare un po' generica e strana, ma ci provo comunque. Ho una storia abbastanza contorta ahimè (tutto avrei voluto, tranne che questo) di rapporti terapeutici, una prima esperienza nel 1994, durata due anni e mezzo, assolutamente inutile, ma durata così tanto perché mi dicevo che le mie erano resistenze, e quindi in qualche modo dovevo tenerle sotto controllo: una persona che mi aveva preso all'inizio, più che altro perché ero alla prima esperienza, tutto era assolutamente nuovo, ma ben presto mi sono resa conto che andavamo a zonzo, che era inutile, ciò non di meno, ho resistito per due anni e mezzo, prima di interrompere.

Una seconda iniziata nel 2004 (lungo intervallo per metabolizzare la delusione), con una persona che mi ha preso subito moltissimo, mi è sembrato di passare dalle stalle alla stelle, con buoni risultati sulle prime, che poi se n'è andato per la tangente, c'è stato un primo acting in su cui ho ritenuto, su sua insistenza, di dover transigere, ma anche perché ero molto legata a questa persona, mi pesava passare ad un terzo, è considerato generalmente bravo, alcuni risultati li avevo avuti, tutti possiamo sbagliare. non sarà un'altra resistenza la mia: interrompere perché sta funzionando (anche se c'era quel .piccolo. incidente di percorso); un secondo acting in dopo il quale ho ritenuto non vi fosse più molto da interpretare come "mia" resistenza", e quindi ho interrotto anche con lui.

Nelle more tra il primo e il secondo "errore terapeutico", chiamiamolo così, sono andata in verifica, ho ascoltato altre tre persone, nessuna delle quali mi aveva preso particolarmente, e l'ho addebitato al legame molto forte che avevo ancora in atto con il mio analista. In realtà ripensandoci a mente più serena (spero), non mi hanno preso e basta, tant'è che quando ho deciso di cambiare non ho pensato di scegliere nessuno di loro.

Contemporaneamente, posto che la mia analisi stava avendo effetti devastanti sul mio rapporto di coppia, si è pensato ad una terapia di coppia, la prima persona sentita, fuori della mia città, mi è sembrata brava (apro una parentesi: se si eccettua la prima esperienza, in cui la persona che mi aveva seguito non aveva e non ha credenziali sul mercato della mia città, anzi, chi lo conosce non lo considera un'aquila reale, in tutti gli altri casi mi sono rivolta a persone più o meno celebrate e nominate nel campo), ma ci ha rinviato ad una terapeuta della mia città, che non mi ha ispirato più di tanto, ma ciò non di meno abbiamo provato per tre mesi, per concludere il percorso consensualmente, la sua conclusione è stata state bene come state, ogni intervento potrebbe essere peggiorativo (imho = non sono in grado di farlo senza far danni), confermandomi nella prima impressione che non mi quadrava più di tanto.

Per il mio percorso individuale mi è stato consigliato dal più noto della mia città (che, 1 non mi aveva preso più di tanto, 2 era straordinariamente caro per le mie possibilità economiche senza possibilità di transazione alcuna) un terapeuta, a sua detta l'unico che conosceva (e data la sua posizione per così dire di vertice nella mia città ho accolto le sue parole come Vangelo) che avesse gli strumenti per gestirmi, dati i miei precedenti e soprattutto il fatto che l'acting in supponeva una mia collusione.

Ho fatto con lui una decina di incontri, mi sembra una persona preparata, ma non riesce a prendermi, ad emozionarmi minimamente, le cose che vengono fuori nel setting mi scivolano addosso, mentre io ho sempre avuto un approccio molto viscerale a queste esperienze: mi sono detta che è una fase, che probabilmente stavo scontando la delusione per quello che era successo con il mio precedente analista, un investimento fortissimo che si era ridotto in macerie, e che quindi in qualche modo era normale la mia reazione, che magari proprio il legame molto forte che io avevo avvertito con il mio precedente analista era un possibile vaticinio di quello che sarebbe poi accaduto, una collusione inconscia fra me e lui, quindi era bene in certo senso "guardarmi" dal fatto di essere presa o non presa, perché magari essere presa poteva essere controproducente.

Contemporaneamente ho avuto da lui l'indicazione di una terapeuta di coppia, abbiamo fatto due incontri, ma da subito ho avvertito una sorta di empatia, emozioni, qualcosa che è molto più vicino al mio modo vivere queste esperienze: ripenso alle cose dette, stomaco chiuso quando esco dall'incontro, tensione, una sorta di comunicazione altra, basta una parola per intenderci.

Komen 773x257Io non dubito che entrambe queste persone siano preparate e adeguate, però sicuramente il fatto che io viva l'incontro con la terapeuta di coppia come emotivamente più forte (mi prende di più.) è prova che il mio distacco con il mio attuale analista non è parte di una fase, ma espressione di qualcosa di autenticamente mio rispetto a lui: se dovessi descrivere il transfert verso il mio attuale analista, dopo dieci incontri, parlerei di assoluta indifferenza, mentre alla terapeuta di coppia mi sento in qualche modo già legata dopo soli due incontri, mi sembra di comunicare, di intendermi con lei.

Io non vorrei perdere altro tempo, so che il mio analista è una persona preparata, ma so anche che il fatto di essere bravi non significa necessariamente che poi funziona con tutti: quanto "il funzionare" è connesso all'essere presi dalla persona del terapeuta, mi chiedo? Dubito delle mie sensazioni perché temo che essere presi possa ancora una volta essere presagio di collusioni (che ovviamente possono accadere sia con un uomo che con una donna), ma mi rimane la sensazione che c'è un abisso in termini di emozioni tra quelle che provo quando incontro il mio attuale analista e quelle provate, sia pure dopo solo due incontri, con la terapeuta di coppia. E comunque in genere quando ho avvertito una sorta di distacco, quando non sono stata presa, la sensazione non era infondata.

Non so se sono riuscita a rappresentare con un minimo di chiarezza il mio attuale conflitto, sicuramente ne parlerò col mio analista, ma se c'è qualcuno che può offrirmi spunti di riflessione gliene sarei grata. Grazie

Risposta

Ciao quarantenne inquieta, ci sono molti modi di offrire spunti per serie riflessioni e uno di questi è l'utilizzo dell'ironia. Bonariamente ricorrendo a questa chiave ti dirò che certamente rappresenti una preziosa risorsa per la nostra comunità professionale. Per chiarirmi un poco le idee circa l'intricata situazione che ci rappresenti mi sono fatto, utilizzando esclusivamente le tue parole, un piccolo schema riassuntivo che di seguito ti riporto:

Terapeuta n. 1: andavamo a zonzo… era inutile

Terapeuta n. 2: poi se n'è andato per la tangente

Interludio: sono andata in verifica ma non mi hanno preso e basta

Terapeuta (di coppia) n. 3: non mi ha ispirato

Terapeuta n. 4: mi sembra una persona preparata, ma non riesce a prendermi, ad emozionarmi minimamente

Terapeuta (di coppia) n. 5: basta una parola per intenderci… dopo soli due incontri

leisure_160x600.gifChe ne dici? non fa un poco sorridere anche te? Certamente della storia che racconti ciò che più mi colpisce è la tua idea del rapporto psicoterapeutico. L'analista ti deve prendere (usi tantissimo questo termine chiarendo certo che non va interpretato nè in termini letterali nè in termini biblici, ma nel senso che ti deve coinvolgere emotivamente e, aggiungerei, farti sentire viva, non annoiarti). Si tratta certo di una fantasia legittima relativa al rapporto terapeutico. La potremmo definire la fantasia "dell'amico a pagamento". Fantasia che ammette possibili varianti (fratello a pagamento… genitore a pagamento…). In tutti questi casi il cliente (o paziente, o utente, tu come ti definisci?) immagina che il professionista che ha davanti stabilisca un rapporto affettivo intenso e privilegiato, entri in risonanza profonda con desideri ed emozioni e attraverso la gestione di ciò che si sviluppa aiuti il cliente stesso nel suo percorso evolutivo. Entro certi limiti va anche detto che tutto ciò corrisponde effettivamente a un modello terapeutico la gestione del quale è affidata alla competenza del professionista.

Letture suggerite
Sul transfert
L'Io E I Meccanismi Di Difesa
Il contesto del soggetto. Transfert, resistenza, difesa. Una visione unificata

Ma ciò che qui mi preme è suggerirti che non si tratta dell'unico modo possibile di decifrare la relazione terapeutica. Il terapeuta può essere visto dal suo cliente come "insegnante" (possiede un sapere che può tornare utile), come "tecnico" (esperto nella riparazione di meccanismi psicologici che si sono "rotti" o "guastati"), come "allenatore" (conoscitore di tecniche capaci di esaltare le potenzialità degli individui), come "consulente" (un esperto del settore che può dare utili consigli) e probabilmente in molti altri modi ancora. Certo non vi è dubbio che in ogni caso la dimensione emozionale avrà il suo ruolo ma è altrettanto vero che aspettative iniziali diverse originano relazioni di tipo diverso.

Visto che sei un'esperta non ti consiglierò di parlarne con il tuo analista. Come tu stessa dici sai che è la cosa più ovvia da fare e lo farai.

Spero infine che ti sia utile riflettere su un dato: da quanto dici ad oggi una relazione terapeutica importante (e dunque utile poichè immagino che andrai in terapia per cercare di risolvere tuoi problemi e non con l'unico intento di sondare le capacità professionali degli analisti) non la hai ancora stabilita con nessuno (neppure con la terapeuta n. 5 in quanto due incontri sono troppo pochi per potersi esprimere…). 

Buona fortuna.

Risponde

Rolando Ciofi, Psicologo

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Autore

1 commento

  1. luigidelia

    Caro Rolando, davvero molto
    Caro Rolando, davvero molto istruttivo il caso della girovaga che sottoponi, per fortuna non è così frequente (almeno nella mia esperienza). Più che girovaga direi “consumatrice” di terapeuti.
    Si potrebbe affermare, da quel poco o tanto che la lettera dice, che la signora abbia avuto un bisogno di un aiuto da un lavoro psicologico e che per una serie di sfortunate ragioni non è riuscita a trovare.
    Ma forse altrettanto legittimamente si potrebbe affermare che la signora abbia risposto inerzialmente (magari partendo da una qualche urgenza personale) ad una offerta terapeutica eccessiva e abbia subito con una certa passività le situazioni incontrate.
    Se si dovesse applicare la stessa stringente logica consumistica e verificare la “soddisfazione del cliente”, forse dovremmo concludere da quanto si evince che l’investimento che la signora ha fatto nell’arco di oltre 10 anni (se non ho inteso male) sulla sua salute psicologica non abbia restituito molti risultati, visto che questa lettera è un evidente atto d’accusa al sistema dell’offerta in quanto tale. Pone questioni alla signora (che infatti scrive quella lenzuolata di riflessioni), ma pone questioni anche a tutti noi.
    Partendo da queste considerazioni il periodo che ella definisce “interludio” mi pare quindi quello più significativo visto che ben tre colleghi consecutivi hanno ritenuto che la signora non avesse urgenza di una terapia… Strano.
    Ma anche qui… certo, non sappiamo il motivo che porta questa sventurata a varcare la prima volta la soglia dello studio di un collega (che a quanto pare la incastra con la storiella delle resistenze e facendo leva sui sensi di colpa), magari una banale situazione di infelicità coniugale condita da sintomatologie ansiose o somatoformi dove alcune diffuse pratiche “analitiche” girano a vuoto (e magari un intervento più focale avrebbe interrotto il girovagare all’inizio). Oppure magari la signora ha semplicemente trovato nella “comunità dei terapeuti” ospitalità e cittadinanza vicariando un bisogno di socialità inespresso, salvo poi accorgersi con delusione che tale ospitalità è tutt’altro che conviviale e gratuita.

    Forse queste due ipotesi hanno un punto d’incontro e i confini sono molto più sfumati di quanto immaginiamo? Chissà…

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