GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
Agosto 2013 II - Cariche e leggerezza, crisi e perdono, arti, giochi e letteratura, personaggi veri e immaginati
La «leggerezza» di Elsa Maxwell. Era grassa e sciatta. Il padre le disse: impara a ridere di te stessa Capì la lezione e conquistò i potenti da Churchill a Mussolini
di Francesco Perfetti, iltempo.it, 7 agosto 2013
Bella non lo era proprio, Elsa Maxwell, animatrice di serate mondane e giornalista passata alla storia come la «regina del gossip» o la «pettegola d’America». Anzi. Era sgraziata nei modi e sciatta nel vestire, anche se negli ultimi tempi era diventata la «più elegante del mondo». E, come se non bastasse, era grassa. Prima di morire, il padre, uno scozzese atipico che non si preoccupava del denaro e che viveva facendo il corrispondente per un giornale dedicato alle arti dello spettacolo, le disse: «Non sarà facile per te quando me ne sarò andato. Sei brutta e grassoccia e via via che passerà il tempo diventerai sempre più brutta e grassoccia». Non potendole lasciare denaro, le dette qualche suggerimento: non tener conto del giudizio altrui, mantenersi libera dalle cose materiali, godersi la vita così come viene, prendere con leggerezza le cose serie, saper ridere di se stessa. Di questi consigli la Maxwell, allora poco più che ventenne, fece tesoro. Ed ebbe un successo incredibile. Una carriera, la sua, da grande arrampicatrice sociale, versatile e intelligente, ricercata in tutti i templi della mondanità internazionale e divenuta, infine, la più viperina penna di tutti i tempi del gossip giornalistico. George Bernard Shaw, che quanto a causticità letteraria non era da meno, la definì, con un pizzico di ironia al vetriolo, «l’ottava meraviglia del mondo».
Nata in una cittadina dello Iowa nel 1883, la Maxwell non fece studi regolari e imparò a leggere e scrivere a casa. Aveva, però, un talento innato per la musica e una esuberanza naturale che si traduceva in una curiosità inappagabile e in una inesauribile gioia di vivere. Senza una lira in tasca, ma carica di ottimismo e fidando nella buona sorte, cominciò a vagabondare per tutto il mondo e a tessere relazioni. All’inizio sbarcò il lunario facendo la pianista in un piccolo cinema, poi si mise a strimpellare e a scrivere canzonette, alcune delle quali conobbero un successo clamoroso. Alla vigilia della prima guerra mondiale, a Londra, compose la prima canzone di guerra inglese, The British Volunteer. Era una pianista, com’ella stessa riconosceva, «maledettamente brava», perché la musica, che non aveva mai studiato, l’aveva nel sangue. E la musica, le canzonette, il ballo furono i grimaldelli che le consentirono di accalappiare il favore dei ricchi e la simpatia del bel mondo. Insieme alla sua personalità estroversa e alla sua eccezionale capacità di organizzare feste all’insegna della gioia di vivere: «suonavo, cantavo e inventavo giochi semplicemente perché mi divertivo un mondo minuto per minuto».
Nelle sue frizzanti e gistose memorie, pubblicate con il titolo «Ho sposato il mondo» (Elliot, Roma, pp. 378), caleidoscopio incredibile di personalità e di situazioni, le feste da lei organizzate fanno da scenario a una rappresentazione corale della quale era regista e interprete al tempo stesso. La Maxwell amava gli scherzi ed era capace di truccarsi, per animare le feste, in modo da somigliare a qualsiasi uomo politico anziano del tempo, da Herbert Hoover a Ben Franklin, da Éduard Herriot ad Aristide Briand. Una volta, a Parigi, all’epoca della conferenza di pace del 1919, si recò in macchina a un ballo in maschera travestita da Lloyd George, capo della delegazione inglese, in compagnia del principe Murat, a sua volta mascherato da Clemenceau, delegato francese alla conferenza. I travestimenti erano così perfetti che i passanti che percorrevano gli Champs-Elysées, credendo davvero che si trattasse dei due diplomatici, provocarono un gigantesco ingorgo applaudendoli. La Maxwell cercò di spiegare al gendarme che si sbracciava per disperdere la ressa l’equivoco, ma si sentì rispondere: «Dovete essere Lloyd George e Clemenceau. Inchinatevi alla folla e toglietevi il cappello. Ci sarebbe una sommossa se scoprissero che siete due impostori. E io non farò nulla per proteggervi dai maltrattamenti che meritate».
Il palcoscenico dove la Maxwell recitò la grande commedia della sua esistenza inimitabile si spostò praticamente in tutto il mondo. Da New York a Londra, dalla Hollywood del nascente star-system alla Parigi dei ruggenti anni venti, dalla Costa Azzurra a Venezia. Proprio per Venezia, la Maxwell studiò alla metà degli anni Venti un piano di rilancio che spinse Mussolini a conferirle una decorazione poi da lei restituita, anni dopo, in segno di protesta per il carattere dittatoriale del regime. Il successo ottenuto a Venezia fu rinnovato, subito dopo, a Montecarlo, che dopo la prima guerra mondiale, aveva perduto la capacità di attrazione per i turisti in cerca di emozioni e divertimento.
Le conoscenze della Maxwell non si contano. Le sue amicizie, mondane e non, durature o meno, furono innumerevoli. Alcune si rivelarono inossidabili, come quella per il compositore Cole Porter o per l’eclettico commediografo, musicista e attore Noël Coward, del quale è da poco uscita in Italia la traduzione del delizioso e graffiante romanzo, «Il viaggio della regina» (Elliot, pp. 320), satira sottile ed esilarante dell’aristocrazia britannica e del gran mondo frequentato, amato e per certi versi anche dileggiato dalla Maxwell. Tra le «prede» della Maxwell ci furono persone appartenenti a tutte le categorie del bel mondo: miliardari, politici, attori, scrittori, scienziati, artisti. Ebbe frequentazioni con Churchill e De Gaulle, con Einstein e Gianni Agnelli, con Clark Gable e Tyron Power, con Greta Garbo e Salvador Dalì, con i Wanderbilt e i Rotschild. Riuscì, persino, a combinare matrimoni presentando Rita Hayworth all’Aga Khan o Maria Callas ad Onassis. Che fosse un tipo fuori del comune lo conferma la battuta che, nel 1931, a Vienna, le rivolse, dopo una lunga chiacchierata, Sigmund Freud, il papà della psicoanalisi: «Lei è una donna sana e non soffrirà mai di nevrosi». In effetti, a leggere le sue memorie, Elsa Maxwell non conobbe mai momenti di crisi o di sconforto. Fu l’incarnazione dell’ottimismo, della gioia di vivere, della ricerca del divertimento. Con un pizzico, qualche volta, di malignità.
http://www.iltempo.it/cultura-spettacoli/2013/08/07/la-leggerezza-di-elsa-maxwell-1.1162460
Primo presidente italiano Società Internazionale Psicoanalisi. Stefano Bolognini a capo istituzione fondata da Freud nel 1910
di Redazione, ansa.it, 9 agosto 2013
Per la prima volta un italiano, lo psicoanalista Stefano Bolognini, sarà a capo della storica Società Psicoanalitica Internazionale, l’IPA, fondata a Norimberga nel marzo del 1910 per volontà di Sigmund Freud. La cerimonia per la nomina ufficiale del nuovo Presidente si è tenuta lo scorso 4 agosto in occasione del congresso mondiale biennale, a Praga, dal titolo ‘Facing the pain’. A distanza di oltre cento anni dalla sua origine, l’Ipa conta dodicimila iscritti, più duemila allievi in formazione, in tutto il mondo: dal Nord America all’Europa, dall’India al Giappone al Sudamerica. Medico e psichiatra, Stefano Bolognini è stato presidente della SPI, la Societa Psicoanalitica Italiana, dal 2009 fino al 2013 e membro del comitato editoriale dell’ International Journal of Psychoanalysis fino al 2012.
”Questo mio nuovo incarico – afferma Bolognini – conferma il grande riconoscimento a livello internazionale verso la comunità analitica italiana. Anche nell’ambito dell’ortodossia freudiana gli psicoanalisti italiani hanno dimostrato un contributo di creatività e innovazione non comuni. In un momento storico di così importanti e rapidi cambiamenti epocali la psicoanalisi si vede rafforzata dalla nascita di importanti poli strutturali in tutto il mondo, come le nuove frontiere della Cina e della Corea. Sorprendentemente si trovano oggi analisti anche in luoghi come il Sudafrica o il Libano e l’Egitto, proprio alle soglie del mondo arabo. Anche la Russia è in rapida evoluzione da questo punto di vista e un rafforzamento generale si può ravvisare in Europa, specialmente in Italia e in tutti i paesi della Scandinavia ”.
L’arte del perdono. Quanto pesa all’uomo superare il tradimento
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 10 agosto 2013
Il giudizio di Freud sull’amore era disincantato. Quando si crede di amare un altro in realtà si ama sempre se stessi, si ama la nostra immagine ideale che vediamo riflessa nell’amato o nell’amata. L’innamoramento potenzia il nostro Io, lo accresce; amare è innanzitutto amarsi, trovare nell’altro uno specchio che enfatizza i nostri tratti idealizzati. Per questo Freud diffidava dell’amore cristiano per il prossimo; nell’amore umano non vi sarebbe alcun altruismo, ma solo l’esigenza di affermare narcisisticamente il nostro Io attraverso l’altro. Di qui, per esempio, la sua lettura del fenomeno della gelosia maschile che non sarebbe affatto nutrito dalla paura di perdere l’oggetto amato, ma dalla proiezione sull’oggetto della sua gelosia delle forti spinte al tradimento che invece gli appartengono inconsciamente (o consciamente).
Ci sono però amori che fanno vacillare la saggezza del cinismo freudiano. Sono amori dove in primo piano non troviamo l’altro ridotto a specchio narcisistico dell’Io, ma l’incontro con una esteriorità, con l’eteros che viene amato per quello che è — nel suo reale differente — e non per la sua funzione di supporto del mio io ideale. Sono quegli amori che rispettano la distanza, che si nutrono dell’incontro con la differenza, che sanno vivere l’esposizione rischiosa nei confronti dell’altro con generosità e coraggio. Sono amori rari — Camus, ci lascia poche possibilità quando dice che di amori così ne esistevano due o tre in un secolo e uno era il suo… — , ma esistono e, spesso, come dimostra l’esperienza dell’analisi, non sono i primi amori di una vita, ma amori che si raggiungono solo attraverso altre esperienze meno felici e talvolta traumatiche.
Questo non significa che questi amori siano al riparo dalla rottura, dalla fine o dal rischio del tradimento. Anche perché diversamente dagli amori narcisistici che vivono nel rispecchiamento simbiotico che annulla la differenza e che trasformano il legame in cemento armato, questi amori si sostengono sulla solitudine reciproca degli amanti, sulla scelta di stare insieme più che sul bisogno coatto di esorcizzare la paura della solitudine. Sono amori che hanno segnato una vita, generato passione capace di durare nel tempo, figli, famiglia, responsabilità, condiviso memorie, esperienze, entusiasmi, progetti, dolori, gioie. Si tratta di legami che non si sono esauriti nell’estasi fuggevole dell’innamoramento narcisistico, ma che sono stati in grado di mantenere un intenso e unico legame erotico nel tempo, di dare dignità alla promessa che unisce tutti gli amanti: «Sarà per sempre!».
Ora, cosa accade in questi legami quando uno dei due tradisce, viene meno alla promessa, vive un’altra esperienza affettiva nel segreto e nello spergiuro? Cosa accade se il traditore chiede poi perdono? Chiede di essere ancora amato, vuole che tutto sia come prima? È, insomma, possibile l’esperienza del perdono quando la promessa è stata infranta dal tradimento? Ci dobbiamo limitare ad evocare la sentenza freudiana — ogni amore è un sogno narcisistico, non esiste promessa, non esiste amore “per sempre” — ? Dobbiamo forse sputare sull’amore? Riconoscere semplicemente chela spinta egoistica dell’essere umano prima o poi lo corrode? Oppure l’esperienza del tradimento, può diventare — come talvolta diventa — un’occasione per provare a fare un passo al di fuori dalle sabbie mobili del narcisismo? L’orgoglio narcisistico tenderebbe a rendere impossibile il perdono, ma proprio per questo nulla come l’esperienza del perdono — quando davvero avviene — mostra il limite della visione freudiana dell’amore come accecamento narcisistico. Non è forse nel perdono che incontriamo, intatta e spigolosa, tutta la differenza — l’eteros— dell’altro? Non è forse “perdonare l’imperdonabile” — come si esprimeva Derrida — il gesto più radicale dell’amore?
Per questo perdonare per un uomo può risultare assai più difficile che peruna donna. Perché per un uomo riconoscere la libertà dell’altro — che è anche libertà dell’errore e del tradimento — va in una direzione contraria rispetto alla passione fallica dell’avere che solitamente anima la sua vita: la libertà dell’altro mette in crisi il fantasma di appropriazione, manifesta il limite del potere fallico e, dunque, costringe a confrontarsi con laferita aperta della propria castrazione. E per un uomo prendere contatto con la propria castrazione è assai più difficile, più arduo, più traumatico. Per questo, solitamente, l’orgoglio fallico maschile si oppone all’atto del perdono facendo barriera al riconoscimento della propria vulnerabilità. Al perdono subentra piuttosto la rivendicazione rabbiosa di giustizia, quando non la violenza cieca, o, più semplicemente, il rifiuto stizzito dell’altro. Eppure esiste una gioia misteriosa del perdono che alleggerisce gli amanti che la raggiungono dal peso dello spirito di vendetta. Questa gioia comporta il riconoscimento dell’altro comeeteros, come vita differente, vita lontana da ogni illusione simbiotico-narcisistica, comporta l’amore per un altro reale, non ideale, non lo specchio che illumina ilnostro Ego, ma una esistenza singolare che può essere talvolta anche deludente, umana troppo umana, ma che non per questo amiamo meno.
Nell’esperienza che l’analisi raccoglie troviamo frequentemente che in questi amori il dolore più grande abita chi ha tradito la promessa, chi ha esposto al rischio di distruzione una vita insieme. Una mia paziente, per esempio, raccontava straziata una breve avventura con un uomo che aveva “agito” solo per riavere l’attenzione del proprio amato marito troppo impegnato ad inseguire la sua affermazione professionale. Rocambolescamente questa relazione clandestina era stata scoperta dal marito che aveva poi deciso di perdonarla riconoscendo innanzitutto che in questo “agito” era implicata anche una sua responsabilità, ovvero quella di aver fatto sentire la propria compagna in una posizione marginale nella sua vita. Ebbene questa donna continuava a non perdonarsi per quello che aveva fatto nonostante il perdono del marito. Non solo per le menzogne e il tradimento della fiducia. In gioco, in realtà, era il suo rapporto intimo con il proprio desiderio. Come se l’accesso al perdono dovesse avvenire in primo luogo per se stessa, per avere tradito se stessa, per non essere stata all’altezza del suo desiderio più autentico come talvolta capita a noi umani. Prima di essere degna di perdono dell’altro doveva perdonare se stessa per aver tradito non tanto il marito, ma il suo desiderio più profondo, l’amore di una vita.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/08/10/arte-del-perdono.html?ref=search
A volte ritornano
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 10 agosto 2013
Giudicandola con il senno di poi si può ora dire che la funzione di Silvio Berlusconi come uomo politico è stata da sempre quella dello “spettro” o, come dicono i francesi, del “revenant”: un’entità immateriale, di per sé insussistente (e secondo un’antica leggenda invisibile allo specchio), qualcosa che dovrebbe essere morto e sepolto ma che torna ossessivamente come percezione illusoria (simile a un’immagine allucinatoria) per il fatto che una componente rimossa del nostro desiderio si ostina a volerlo fare esistere. Di questo meccanismo (largamente inconscio) Berlusconi è egli stesso una vittima. In un paese prigioniero delle proprie contraddizioni storiche e culturali (ma anche di interessi internazionali non proprio limpidi), diventato (a partire dal caso Moro) progressivamente incapace di progettare il proprio futuro, uno spregiudicato uomo d’affari privo di scrupoli si è trasformato nel tempo in un fantasma collettivo: la rappresentazione indiretta più efficace e persistente del desiderio rimosso (ma sempre sul viale del ritorno) di vivere senza alcun rispetto per le regole della comune convivenza, in modo del tutto refrattario alle esigenze altrui. Sotto la pressione di questo ritorno del rimosso (di cui Berlusconi sarebbe legalmente responsabile più o meno quanto un’epidemia di peste per i danni che ha provocato) la normale divisione dei cittadini sul piano politico è stata dirottata nella contrapposizione senza via di sbocco tra sentimenti di attrazione e di repulsione. Un bambino che fa pipì sul tappeto del salotto di casa o dà un bel scappellotto al fratellino adorabile che gli ha rubato l’attenzione dei genitori può essere irritante ma al suo comportamento difficilmente si può negare il fascino che emana da un’immediatezza di sentimenti e di emozioni senza limiti, da una pura voglia di vivere senza freni. Se la stessa cosa la facesse un adulto la nostra reazione sarebbe molto diversa. Si diventa adulti scoprendo che la soddisfazione del proprio desiderio acquista molto in termini di ricchezza d’espressione e di profondità se si impara a socializzare la propria esperienza, a coniugare l’affermazione della propria libertà con il rispetto della libertà di tutti. Il cambiamento di prospettiva si accompagna dalla rimozione di quella parte dei nostri impulsi che è irriducibile alle restrizioni che richiede il buon vivere. La rimozione non elimina la parte autoreferenziale, egoistica di noi: la sottomette all’antinomia della costituzione della nostra soggettività, all’articolazione di due opzioni antitetiche sulla vita – l’amore di sé e l’amore dell’altro – che converte la loro apparente incompatibilità nella condizione necessaria della nostra esistenza. In fondo nulla di molto diverso dal l’articolazione tra l’accelerazione e il freno che rende l’uso delle automobili possibile e soddisfacente. Se nel bambino l’egoismo sfrenato è sinonimo di vitalità, nell’adulto è il segno di una regressione che esprime disadattamento profondo alla vita e incapacità di godersene. Ciò che Berlusconi rappresenta è la paura di vivere che affligge una nazione che non manca né di risorse né di creatività.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20130810/manip2pg/14/manip2pz/344334/
L’amico immaginario
di Massimo Ammaniti, repubblica.it, 13 agosto 2013
Nel libro L’amico immaginario di Matthew Dicks (Giunti Editore, pagg. 384, euro 12) il protagonista è Budo, un compagno immaginario che vive in simbiosi ormai da cinque anni con Max, un bambino autistico di nove anni isolato dagli altri. Max si rifugia in questa compagnia segreta perché la sua vita è difficile, ogni scelta gli crea difficoltà anche quella apparentemente più semplice, come per esempio scegliere fra due colori. E a differenza di quello che succede a tutti i bambini che rinunciano ben presto al compagno immaginario, è Budo a rimanere solo perché il suo amico in carne e ossa viene portato via da scuola dalla sua insegnante di sostegno senza che Budo ne sia a conoscenza.
In campo psicologico e psicoanalitico ci si è interrogati molto sul valore del compagno immaginario, o anche del gemello immaginario di cui ha parlato lo psicoanalista inglese Wilfred Bion.
Quandoi bambini inizianoa distinguere le fantasie dalla realtà sono in grado di costruire delle storie fantastiche in cui si possono immergere, tuttavia consapevoli che si tratti di una finzione che si può facilmente dissolvere. È in questo periodo che può nascere un compagno immaginario a cui ci si può rivolgere nei momenti di solitudine o di difficoltà, perché è sempre pronto ad ascoltarci, a darci ragione, a condividere gli aspetti più segreti, a differenza dei genitori ma anche degli amici. È un’estensione di sé, un alter ego complice, a volte onnipotente, che può fugare ogni problema trovando soluzioni magiche.
In una ricerca effettuata dall’Institute of Education di Londra si è messo in luce come nella maggior parte dei casi, intorno ai dieci anni, il compagno immaginario scompaia da un giorno all’altro come la nebbia della notte che si dirada al mattino col sole. L’immaginazione che aveva dominato la vita psichica fino a quel momento viene imbrigliata, perché ci sono nuovi interessi e nuove pulsioni che orientano la vita dei preadolescenti. L’amico immaginario può essere una figura umana, oppure un animale o anche una creatura extraterrestre come E.T. nel famoso film di Spielberg, in cui il regista fa rivivere i ricordi della sua infanzia quando anche lui si era creato un amico immaginario, appunto un alieno che lo doveva consolare della sofferenza per il divorzio dei suoi genitori. Ma queste presenze immaginarie possono anche contagiare ed essere condivise da gruppi di bambini come nel romanzo di Stephen King It, nel quale i ragazzini di una piccola città americana vivono l’incubo del mostro che assume sembianze diverse.
Ma questa capacità fantastica personificata dal compagno immaginario, che con l’adolescenza trova poi altre strade, può continuare a vivere nella mente degli scrittori e degli artisti, in cui il mondo dell’immaginazione convive con quello della realtà? Questa è la tesi sostenuta da Marjorie Taylor, una psicologa dell’Università dell’Oregon, in un interessante articolo di qualche tempo fa. Secondo Taylor, permarrebbe nella mente degli scrittori l’illusione di agenti indipendenti, ossia personaggi inventati che hanno quasi una vita propria, con pensieri, sentimenti e linguaggi propri. Una conferma di questo verrebbe da André Gide secondo cui «il narratore banale costruisce a tavolino i suoi personaggi, li controlla e li fa parlare, mentre il vero narratore li ascolta e li guarda mentre agiscono e vivono… e ascoltandoli capisce chi sono». Sono molti gli scrittori che hanno costruito le storie dei loro personaggi riconoscendo di essere ispirati e indirizzati da loro addirittura nella trama, come si può trovare negli scritti o nelle interviste di scrittori come Henry James e Fedor Dostoevskij, ma anche di registi come Quentin Tarantino. E a questo proposito, Marcel Proust, rivolgendosi a un lettore che si lamentava del carattere caricaturale di Swann, rispose che era stato Swann a costruire la sua figura in quel modo e non le proprie intenzioni di autore.
Non può non venire in mente, parlando di agenti illusori indipendenti, il famoso libro di Joseph Conrad Il compagno segreto, in cui si intreccia la complicità fra il capitano della nave e un clandestino salito di nascosto a bordo, con cui condivide momenti di grande intimità lontano dagli occhi di tutti fino a che quest’ultimo si dilegua nella notte in modo misterioso.
Non è Taylor la prima a ipotizzare un legame fra le finzioni dei bambini e le costruzioni narrative degli scrittori e degli artisti. Anche Freud nel 1908, in un suo scritto in cui cercava esplorare le origini dei processi creativi, mise in relazione il gioco di finzione dei bambini con le fiction narrative degli scrittori. E secondo Taylor questo legame non sarebbe solo un’ipotesi, perché la sua ricerca, basata su interviste a un gruppo di scrittori americani, avrebbe confermato che nella loro infanzia avevano avuto dei compagni immaginari, in misura addirittura doppia rispetto alla popolazione in generale.
Dopo secoli di razionalismo asfissiante, Freud ha rivelato il significato e il vero ruolo psicopatologico dei mostri sognati. Una mostra al Buonconsiglio di Trento illustra le sorgenti non razionali del postmoderno
di Gianfranco Morra, italiaoggi.it, 14 agosto 2013
Trento non si ferma. Da pochi giorni ha inaugurato uno spettacolare avveniristico fantasioso Museo delle Scienze (12.600 mq.). Un’opera di Renzo Piano, aperta e luminosa: legno, acciaio e cristallo, inseriti amorevolmente nelle montagne e nei boschi che li circondano, custodiscono i tre regni della natura dal giurassico ad oggi, non senza utopie sul domani. Ed ecco, da venerdì scorso, una mostra di rara originalità: «Sangue di drago, squame di serpente» (Castello del Buonconsiglio, sino al 6 gennaio; con una interessante appendice dei mostri dipinti da Piero di Cosimo, a Riva del Garda). Fatta insieme col Museo nazionale di Zurigo, ricrea con singolari opere d’arte e di artigianato uno degli archetipi più universalmente umani, testimoniato da tutte le civiltà: i mostri, primi fra tutti draghi e serpenti, che ci assediano e da cui dobbiamo liberarci. Gli oggetti esposti sono davvero tanti e, ancor più, collegati da un filo antropologico che attribuisce alla raccolta singolare unità: vasi greci, sculture classiche e rinascimentali, pitture, arazzi e codici, gioielli e medaglie. Per non dire degli affreschi, numerosissimi, delle pareti del Castello, dove i «mostri» abbondano.
Questo filo ha un nome: perennità dell’immaginario collettivo nelle diverse civiltà. Tutte hanno sottolineato quella ferinità, che unisce l’uomo al mondo della natura. E come l’uomo è ambivalente, sospeso tra il bene e il male, la morte e la sopravvivenza, così anche gli animali sono malvagi e insieme benefici. Esistono anche esseri viventi che sono insieme uomini e animali, come i centauri e le sirene, le sfingi e il Minotauro. Anche Giove spesso realizzava le sue conquiste con rapidi metamorfosi zoologiche (toro, aquila, serpente, quaglia, cigno). Certo, l’homo sapiens è fiero della sua diversità, con la sua ragione deve dominare gli animali e difendersene, ma anche farsene dei collaboratori e dei protettori. In Egitto, il serpente, nelle statue, era posto sulla fronte di Iside e del Faraone; in Grecia la dea Minerva mostra un serpente dietro lo scudo; in Cina ancora Mao Tse Tung si richiamava alla «perla» (potere assoluto), che il dragone, simbolo dell’imperatore, custodisce nella gola.
Col cristianesimo, nel solco ebraico, fra uomo e animale prevale la differenza. L’arcangelo Michele, san Giorgio e Sigfrido uccidono il drago, che è bestialità e peccato. Santa Margherita lo vince ammansendolo. Nelle molte tentazioni di Sant’Antonio i mostri abbondano. Il serpente è raffigurato sia nella Dea-madre di Creta che nella Madonna cristiana. Ma la prima vi convive panicamente, la seconda lo schiaccia sotto il piede. Infido il serpente, ma anche benefico: il suo veleno può uccidere o guarire (verrà messo nel simbolo dei terapeuti). Cristo stesso suggerisce ai suoi discepoli di essere «furbi come il serpente».
Di questa singolare mostra e del suo messaggio, che ci riconduce ad una universale simpatia tra l’uomo e il mondo animale, dobbiamo essere grati alla psicanalisi. Dopo secoli di razionalismo asfissiante Freud ha svelato il significato psicopatologico dei mostri sognati, anche se in una prospettiva pesantemente naturalistica. Toccherà soprattutto a Jung (non a caso da Zurigo) di rivelare il ruolo insostituibile dell’inconscio collettivo, di cui gli animali fantastici sono archetipi, rappresentano quel fondo oscuro da cui dobbiamo liberarci ed emergere per vedere la luce: la Persona deve sconfiggere l’Ombra. Non sono miti o leggende, sono la realtà dell’anima. Giona, nel ventre della balena, libera il proprio Io dalle tendenze regressive. Proprio come Pinocchio nel corpo del Pescecane ritrova il suo Babbino.
La mostra del Buonconsiglio, artistica e storica, non potrebbe essere più attuale. I valori dell’età moderna, nati dalla ragione matematica di Galileo e Cartesio, tradottisi nella grandiosa rivoluzione scientifica e tecnologica, appartengono soprattutto al passato. Il postmoderno rivendica quelle sorgenti non razionali e partecipative, che l’età premoderna ordinava ma non sopprimeva. Fenomeni come l’ecologia e l’animalismo, la partecipazione orgiastica e la discoteca, il rock e il nudismo, l’amore di gruppo e la droga, il veganismo e le tecniche orientali di autodominio sono certo ambigui e anche pericolosi. Ma testimoniano la nostalgia di quel rapporto empatico col mondo vegetale e animale, che la ragione strumentale della scienza moderna ha largamente troncato, con esiti preoccupanti per la psiche. Un rapporto che la mostra di Trento ripropone con rigore scientifico e artistica inventiva.
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1838485&codiciTestate=1
Vuoi fare marketing? Devi leggere Proust, Asimov e Jung
Due romanzieri e uno psichiatra: sono i tre autori più importanti per chi vuole fare marketing
di Wahyd Vannoni, linkiesta.it, 14 agosto 2013
Dopo aver lavorato per più di 15 anni nella comunicazione e nel marketing comincio a farmi un’idea di chi è meramente adeguato e chi invece padroneggia davvero la materia. In parte ci vuole esperienza e in parte si deve volere allargare i propri orizzonti, cercare in altre aree disciplinari concetti utili da adattare al marketing.
Ecco dunque quali sono a mia opinione i tre libri più importanti per chi vuol fare marketing.
Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust
Abbiamo tutti in mente la pubblicità di uno yogurt o di una pasta che racconta un pezzo di vita felice, potenzialmente anche nostalgico. Spesso, il messaggio implicito di queste pubblicità è “se volete tornare a quel tempo, comprate questo prodotto”.
Per il marketing, “La recherche” è essenziale perché mostra al lettore come frammenti di memoria che erano dati per persi nell’anticamera del oblio possono riaffiorare in superfice, magnificando quel preciso momento e ridandogli vita.
Con il ricordo di quel momento, rinasce anche tutto un mondo; quel mondo fatto dell’odore della colla delle figurine panini, della gomma densa, iperdolce e fluorescente delle big bubble, delle rincorse in bicicletta a mimare le battaglie spaziali tra Actarus e le forze del impero di Vega alla sensazione di umido sulla dita che procura il latte caldo quando si espande sul biscottino inzuppato per merenda. A proposito di quest’ultimo esempio vi consiglio di leggere, o rileggere, l’episodio de la madeleine descritto da Proust.
Proust ha una penna impareggiabile per queste reminiscenze; non a caso è stato pubblicato un libro dal titolo “Proust was a neuroscientist”.
Chi lavora nel marketing, vende felicità (spero in futuro di potermi dilungare di più su questo argomento). Nessuno compra un prodotto o un servizio con la conscia intenzione di rendersi infelice. Proust dimostra l’intimità e l’immensità delle relazioni tra la mente e il mondo passato, ed è un maestro nel parlarne in modo da creare mondi e universi nei quali ci si può immergere. A parità di prezzo, Il consumatore che sta per comprare una macchina, deve credere in quel mondo creato da quella casa automobilistica piuttosto che da un’altra.
L’uomo e i suoi simboli di Carl Jung
Fu Jung a coniare il concetto di archetipo come lo si intende oggi. Gli archetipi, nella mia interpretazione, sono concetti universali che possono essere riconosciuti da tutte le persone in qualsiasi epoca. Per esempio, quando pensiamo alla saggezza, ci viene in mente un simbolo o un personaggio che la rappresenta. Questo personaggio si può trovare nei nostri sogni, ci guida attraverso labirinti e ci aiuta ad evitare i pericoli.
Nel marketing questo concetto si ritrova nell’endorsement ovvero quando uno sportivo o una celebrità presta il proprio nome a un prodotto. “Se va bene per lei, allora va bene anche per me”; ci autoconvinciamo con questo piccolo dialogo interno e questo elimina il rischio che percepiamo nei confronti di un nuovo prodotto. Ma per creare un endorsement mirato, si deve avere una conoscenza intima dei vari archetipi e di come sono stati rappresentati in varie culture, capire come e perché questi archetipi funzionano e su quali individui hanno maggior potere di suggestione.
Jung teorizza anche il concetto di “persona”, ossia la differenza tra come ci mostriamo al pubblico e come siamo veramente. (C’è anche chi dice che l’uomo ha tre personalità, quella che fa finta di essere, quella che pensa di essere, e quella che è veramente). Essere a conoscenza di questo concetto aiuta nelle inchieste e nelle indagini su comportamenti e preferenze di consumo.
Per esempio, pochi ammettono che comprano un prodotto di lusso per “farsi vedere”, per vanità. Invece, diranno che lo comprano perché è di qualità, per la potenza del motore, per la linea e per il taglio. In una inchiesta, si deve dunque dare l’opportunità al consumatore di esprimere la sua persona pubblica, una volta liberatosi da questa maschera, sarà più facile che sveli il suo vero volto.
I personaggi di Sacha Baron Cohen (Ali G, Borat, Bruno) mettono in luce i meccanismi con i quali si evidenziano i pregiudizi; non chiedendo direttamente “lei è razzista?” ma invece facendo capire all’interlocutore che può esprimere il suo reale pensiero.
La mia conclusione non è che Jung ha sempre ragione né che le sue interpretazioni funzionano sempre. Tuttavia questa epoca moderna ha i suoi simboli, la sua scala di valori e noi che ci viviamo abbiamo il desiderio di dare significato alle nostre vite. Dal momento il marketing è anche un sistema di valori, con simboli e significati, la lettura di questo libro offre indizi su come questi sistemi possono essere creati e come possono influenzare l’uomo, affinando l’intuito di chi vuole oltrepassare il livello di semplice adeguatezza.
Ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov
Il marketing si dispiega su vari livelli, dal micro al macro, dalla psicologia alla sociologia, e tenta di influenzare talvolta una persona singola (tramite SEO), talvolta i gruppi (tramite le pubbliche relazioni) e altre volte le masse ad esempio attraverso una pubblicità mandata in onda durante una finale di coppa del mondo. (Tanto per fare un po’ di cinismo, il SEO è il raggio laser, mentre la pubblicità in televisione è l’artiglieria).
Asimov formula concetti ancora oggi di gran lunga in avanti rispetto ai nostri tempi. Una sua idea è che la matematica arriverà al punto di poter prevedere il comportamento delle masse. Con questa matematica, che lui chiama psico-storia, l’eroe Hari Seldon prevede l’implosione dell’impero galattico che lascerà il posto a 10.000 anni di caos.
In modo simile (ma in scala ridotta) degli esperimenti di alcuni supermercati riescono a prevedere quando una donna partorirà (perché nel secondo trimestre di gravidanza compra certi supplementi di vitamine) e dunque possono anticipare quando mandargli un depliant di prodotti per i neonati. Anche i servizi segreti sperano di anticipare la prossima rivoluzione analizzando i contenuti dei social media.
La principale sfida di un creatore di una campagna marketing è quella di trovare l’equilibrio ottimale tra le qualità tangibili e quelle intangibili del prodotto. Per esempio, si sceglie un computer per le sue qualità misurabili (velocità del micro processore o dimensioni dello schermo) o anche perché ha un design pulito e minimalistico con una mela mozzicata come logo?
Ecco dunque la mia lista. Comprende un francese, uno svizzero e un russo emigrato negli Stati Uniti. Sono cosciente del fatto che manca la presenza di un italiana o italiano; non avendo mai studiato in Italia o in italiano, le mie letture sono vergognosamente limitate e quindi non potrei dare suggerimenti di rilievo. Invito i lettori a consigliarmi i tre libri che loro considerano i più utili per il marketing qui sotto nei commenti.
Twitter: @mediacodex
http://www.linkiesta.it/libri-marketing#ixzz2bvCbTjJN
Articolo segnalato da Barbara Collevecchio (@colvieux), che ringrazio. L. R.
Il mostro dietro il grande scacchista, condannato in una cella di 64 caselle
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 15 agosto 2013
Fu Bobby Fischer a sostenere che gli scacchi sono una guerra. Non ci voleva una fantasia spregiudicata. Ma dirlo nel contesto di uno scontro con il sovietico Boris Spassky, era un modo per dichiararla. E Fischer di solito non faceva prigionieri. Della guerra, si sa, gli scacchi ricordano gli schieramenti e le gerarchie: strategie di attacco e di difesa. C’è la carne da macello, i pedoni; e ci sono i nobili e la Regina che si raccolgono in difesa del Re. Fischer era un predatore, con qualche risvolto mistico. Prima di lui l’America aveva avuto solo un altro grande, immenso giocatore: Paul Morphy.
Devastante e devastato, nella mente.
Ernest Jones, allievo e biografo di Freud, colse i tratti inconfondibili della paranoia. Individuò il sentiero di una malattia sul quale Morphy camminò con sospetto e dolore. E che in parte Paolo Maurensig ripercorre nel suo nuovo romanzo L’arcangelo degli scacchi (Mondadori).
Maurensig esordì con La variante di Lüneburg, anche quella una storia di scacchi, molto mitteleuropea. Poi lasciò trascorrere un lungo tempo prima di tornare a raccontare storie scacchistiche. «Più di vent’anni, sono passati», mi dice. «Ho ripreso con un racconto lungo, L’ultima traversa, cheè la storia di Daniel Harrwitz la cui tomba è nel cimitero ebraico di Bolzano e quella di Paul Morphy». Maurensig è un signore tranquillo. Ha un aspetto solido, ordinato, diretto. Se fosse un pezzo della scacchiera sarebbe la torre. Vive, in una bella casa, con la moglie in un paesino non distante da Udine. Proviamo a ripercorrere insieme una partita che fu esemplare per Murphy. La giocò in Europa contro Louis Paulsen: «Morphy gestiva i neri.
Per conservare, dopo una serie di mosse, un’apparente parità sacrificarono i quattro cavalli. A quel punto Paulsen minacciò con la torre l’alfiere di Morphy. La situazione si fece incerta.
Seguirono alcune mosse comprensibili ma complicate. Paulsen provò uno scambio di donne che alleggerisse la pressione verso il centro. Se Morphy avesse accettato, la partita si sarebbe rimessa sul piano della parità. Ma qui scattò il colpo di genio dell’americano che sacrificò la propria donna contro l’alfiere. Fu una mossa azzardata che avrebbe potuto condurlo dritto alla sconfitta. Il tedesco era incerto. Fiutò il pericolo. Ci pensò due ore prima di decidersi e alla fine mangiò la Regina.
Il resto divenne una sequenza di mosse forzate. L’illusione di un vantaggio si risolse con una caccia al Re da parte di Morphy. Fu una delle partite più belle delle 500 che giocò in Europa».
Mentre sulla scacchiera Maurensing ricostruisce le mosse, penso che al posto di Morphy non avrei mai avuto il coraggio di sacrificare la regina.
Avrebbe agito in me l’istinto di conservazione contro un gesto apparentemente suicida. Ma uno scacchista di talento è come un mistico che annulla il peso della materia e le sue conseguenze. Quando giunge il momento fa ciò che deve senza sapere esattamente perché: «Quello che distingue un grande scacchista da un buon giocatore, che ha imparato sui libri, è uno speciale intuito. Egli non sa fino in fondo perché esegue una certa mossa, ma nel farla va dritto alla vittoria. Cheè poi l’annullamento dell’avversario».
Ho sempre pensato che negli scacchi non si annettono i nemici: si distruggono. Un Re alla fine muore, o patta. Ma nel “pattare” non c’è la riconoscenza della forza dell’altro, ma solo la propria impotenza a non essere riuscito a dare il colpo di grazia. Mi chiedo se per giocare a scacchi bisogna essere dei mostri. «Lo si è in molti modi. La crudeltà, l’efferatezza, il cinismo, l’ira possono toccare vette inaudite. Ma lo scacchista deve essere anche un mostro di intelligenza e di astuzia: un calco dell’infinito, della sua potenza, della sua immaginazione».
L’intelligenza di Morphy toccava il sublime. Era in grado di giocare alla cieca una decina di partite. «Non era questo l’aspetto più rilevante. Ci sono stati giocatori, dalla mente prodigiosa, come Alexander Alechin, che hanno gestito contemporaneamente 40 partite. Avevano la scacchiera non fuori ma dentro di loro. Ma dopotutto quelle simultanee erano solo delle esibizioni». Non sono gli scacchi anche una teatralizzazione del mondo? Maurensing sostiene che la prima cosa che un profano apprezza del gioco è la sua epica nascosta e il tono favolistico: c’era una volta un Re e una Regina, i cavalieri e i castelli. Ma è un contado strano. Senza popolo, senza veri rituali sociali: «La favola si trasforma rapidamente nello scontro acceso tra due intelligenze sovrane che duellano all’ultimo sangue. Kasparov disse che gli scacchi erano lo sport più violento che lui conosceva. Una violenza, mi verrebbe da aggiungere, che si rivolge anche verso se stessi».
Cosa sarebbe in fondo questo gioco senza l’idea del sacrificio? Privo di quella disposizione a perdere pezzi in vista di uno scopo superiore? Maurensing sostiene che gli scacchi sono una delle prove più alte dell’abilità del dolore e della mutilazione: «Quelle statuine di legno o di avorio in realtà siamo noi. Perdere un pezzo è come sacrificare una parte di sé. Ciò rende gli scacchi una forma insolita di tortura che tormenta la nostra umana debolezza». Penso sia vero. Aggressività, conflitto, cattiveria devono fare i conti con le paure che ci portiamo dentro. Fischer provò a sconfiggerle moltiplicando l’immagine del nemico, aggredendolo con le sue manie, le sue ossessioni: «Era psichicamente un instabile, condizione che non gli giovò sempre negli incontri. Ma il fatto stesso che da solo combatté contro la grande tradizione sovietica e la sconfisse ne fanno un giocatore straordinario».
Cos’è lo straordinario, in questo caso, se non un richiamo all’assoluto? A quel bisogno di potenza infinita che nella sequenza di mosse precipita nella morte e trasfigurazione dell’avversario? «Ogni grande scacchista vorrebbe giocare con Dio o con la morte, come intuì Bergman nel Settimo sigillo. Wilhelm Steinitz affermò che avrebbe dato un pedone di vantaggio a Dio e lo avrebbe battuto. Akiba Rubinstein abbandonò il Talmud per gli scacchi. E giocava in maniera eccelsa.
Chi c’era dietro: la mano di Dio o del folle? Ogni storia è un’impossibile. Ed è il motivo per cui la letteratura si è così spesso occupata di scacchi».
Morphy, Fischer, Rubinstein e tanti altri furono avvolti dal vento della follia. Quell’energia incontrollabile e misteriosa tuonava dentro loro come una musica imperiosa. E quando le note smisero di suonare i loro corpi si arresero come marionette. Maurensig coglie nel momento dell’abbandono l’enigma più grande: «È come se la purezza del gioco fosse sporcata dai riflessi della vita. Perché Fischer, all’apice del successo, mollò tutto? Perché Morphy a 21 anni chiuse definitivamente con gli scacchi? La paura di perdere, il confronto delirante con la figura paterna, aver sfiorato quell’assoluto che avevano sfidato? Ogni spiegazione non scioglie il mistero del grande scacchista. Egli è un genio: sofferente o felice, ingenuo o malizioso, cattivo o generoso. In ogni caso condannato alla prigione di quelle 64 caselle». Questo eroe dell’ostinazione impossibile sembra vivere nell’esilio dal mondo. Fuori da ogni salvezza. I credenti ne idolatrano le gesta. Ma ne temono l’imprevedibilità. Noi ammiriamo in lui il modo obliquo di prendere la vita. Come quei cani randagi che sulla strada non andranno mai dritti.
Tutto quello che fa è folle, ma logico; azzardato ma preciso. Non è un caso che la sua ultima parola sia “matto”.
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