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PENSIERI DELL’ULTIMO GIORNO DI VACANZA

2 Set 13

A cura di kharban@virgilio.it

Rimango sempre stupito quando Matilde intercetta i miei momenti d’irritazione di fronte alle sue resistenze. A volte si tratta di stati d'animo subliminali di cui io prendo coscienza piuttosto lentamente. Si può dire che in più di un'occasione mi sono sentito analizzato, diagnosticato, e alla fine della mia autoriflessione non ho trovato traccia di proiezioni. Semplicemente, Matilde aveva ragione.
La consapevolezza che ne è seguita si accompagnava a un sentimento d'incertezza, non tanto per l'inversione di ruolo: è stato Ferenczi ad insegnarci che il paziente può avere ragione e noi torto, in un tempo in cui gli analisti avevano rimosso questa semplice ovvietà. Quello che mi ha lasciato incerto è stato il dubbio di aver perduto, sia pure transitoriamente, la barra del timone, ciò che rende il terapeuta terapeuta e il paziente paziente. O, se vogliamo dirla in modo meno crudo, di aver oltrepassato il confine invalicabile dell'asimmetria della relazione terapeutica, quella che ci fa sentire che il genitore non può mai smettere di essere tale, caricando sulle spalle del figlio il peso della propria inadeguatezza.
Queste riflessioni mi vengono alla mente stasera, ultimo giorno delle vacanze estive, alla vigilia della ripresa. Mi vengono in mente mentre sto leggendo un piccolo testo straordinario di Irvin Yalom nella traduzione francese perché la mia lettura in questa lingua è molto più spedita di quanto non lo sarebbe nella versione originale inglese: il libro non è mai stato tradotto in italiano, e nella versione scaricata sul mio tablet si intitola "La malediction du chat hongrois. Contes de psychotherapie", edito in Francia da Galaade. In inglese: "Momma and the meaning of life. Tales of psychotherapy" Harper Collins, New York).
Yalom, noto al pubblico italiano per tre romanzi di grande successo (La cura Schopenhauer, Le lacrime di Nietzsche, Il problema Spinoza), e per il denso "Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo" scritto in collaborazione con Molyn Leszcz e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, è uno psichiatra psicoterapeuta che mi toglie, non senza procurarmi sollievo, ogni illusione di originalità, poiché il suo stile di lavoro, che lui definisce "interattivo", è improntato alla più grande libertà immaginativa sia nelle parole che nelle azioni terapeutiche, nulla concedendo all'obbedienza a una tecnica che nei tempi remoti della mia formazione assimilai (per responsabilità certamente condivisa) come una perentoria questione di "tutto o nulla".
Sulle orme di un extra ecclesiam nulla salus che ha storicamente segnato, nel bene e nel male, il cammino dell'ortodossia psicoanalitica, l'apprendimento della tecnica era stato trasmesso o recepito come un "dover essere" da rispettarsi con estrema puntualità, pena lo scadimento della nobiltà del metallo analitico -causa l’attenuarsi di un rituale composto di lettino, numero e durata delle sedute, neutralità, silenzio, divieto di ogni autodisvelamento, astinenza da qualsiasi forma di improvvisazione o creatività- in un metallo molto più vile, anche se a parole accettato con benevola e paterna degnazione dai sacerdoti di quello che era a tutti gli effetti un sapere iniziatico.
Il mio percorso personale, dalla timorosa e frustrata obbedienza all'inflessibilità dell'insegnamento alla tardiva decisione di "fare con ciò che c'era in casa" senza aspettare un’ulteriore investitura che non sarebbe venuta, è stato doloroso e difficile, e a stento supportato dall'insegnamento di un maestro che, negli interstizi di un silenzio tombale e non sempre capace di contatto, seppe far filtrare in me l'idea che soltanto disobbedendo e sopportando la solitudine che sarebbe seguita alla trasgressione, avrei potuto trovare "un senso", magari lontano dagli approdi che mi ero proposto.
Fu solo attraverso una rabbiosa quanto ostinata ricerca di un punto di convergenza con un sapere che sentivo intimamente mio e il suo rifiutarmisi, che mi fu possibile "fare di testa mia" (anche grazie alla strada segnata da altri ben più geniali e tragici trasgressori), seguendo la traccia  dell’empatia,  senza perdere il valore di un atto terapeutico per nulla "minore" o degradato, come l'inflessibile insegnamento originario mi aveva fatto temere.
Durante tutto questo lungo percorso, Matilde è stata con me, sin dall'epoca delle scelte "ortodosse" quando la terapia non riusciva a decollare a causa del suo ostinato e interminabile silenzio e della mia totale incapacità di farvi fronte.
Nonostante questo fallimento, Matilde non ha mai smesso di aspettare che io potessi offrirle qualcosa di diverso che evidentemente covava sotto la cenere, e che lei, forse addirittura prima di me, aveva oscuramente intuito.
Oggi, Matilde è con me, in un percorso accidentato ma ricco e fiorito di parole, sue e mie, essendo stato definitivamente appurato che lettino, silenzio e astinenza sono, in quella situazione specifica costituita da noi due, strumenti inservibili.
Leggendo Yalom, oggi scopro di non essere affatto solo nel perseguire la "verità" (e non la "pietosa bugia rispettosa delle difese del paziente"!) attraverso mezzi inconsueti, non codificabili, e improntati all'interesse primario per la relazione, alla sincerità dell'ispirazione nel qui e ora, e alla radicata convinzione di partecipare della medesima natura difettuale del compagno di viaggio, fatta salva la consapevolezza della mia inalienabile responsabilità di genitore-terapeuta.
È stato proprio leggendo il capitolo "Una terapia del lutto in sette lezioni", nel libro che ho appena menzionato, che ho ripensato frequentemente a Matilde, proprio a causa della conflittualità che si instaura fra il terapeuta e una paziente apparentemente "impenetrabile", in un contesto nel quale il terapeuta non fa nulla per nascondere i propri momenti di rabbia.
Ho ripensato a Matilde, sempre così acuta nell'anticiparmi intercettando ogni mio più nascosto malumore nei suoi confronti, perché la so spinta da un'angoscia specifica: quella che la mia rabbia serva a punirla per avermi "costretto" a separarmi dal sapere materno, accompagnandola lungo sentieri impervi e sconosciuti, senza alcun manuale di tecnica che ci possa servire da bussola.
 
Forse Matilde si sente in colpa per questo, e forse anche in cattive mani, avendo in un tempo remotissimo introiettato lei stessa quella lezione inflessibile che aveva reso difficoltosi i miei primi passi. Dovrò convincerla, ora, che non ci aspetta un ritorno alla casa perduta dei miei antichi genitori scientifici, per poter conquistare uno spazio all'interno di un setting canonico che la possa definitivamente liberare. La nostra meta è un'altra, e non sarà un ripiego, né per me né per lei. Bentornata Matilde, bentornati tutti.

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