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Ottobre 2013 I – Giovani e Vangelo, civiltà, letteratura e tecnologia, Freud e… i funghi

11 Ott 13

A cura di luca.ribolini

FRANÇOISE DOLTO METTE IL VANGELO SUL LETTINO DI FREUD 
di Cesare Cavalleri, avvenire.it 2 ottobre 2013

Di Françoise Dolto (1908-1988), in dialogo con Gérard Sévérin, et al./ Edizioni ha pubblicato l’anno scorso  I Vangeli alla luce della psicoanalisi, e adesso manda in libreria La fede alla luce della psicoanalisi (pp. 136, euro 16), che è un’altra costola dell’originale francese, apparso unitariamente nelle 416 pagine delle Éditions Gallimard, nel 1996. Allieva e collaboratrice di Jacques Lacan, Dolto è la capofila della psicoanalisi infantile, con la particolarità di essere cattolica, impegnata (giustamente) a dimostrare la compatibilità di Freud (e soprattutto di Lacan) con il Vangelo. Nel nuovo libro, a dire il vero, c’è qualche riserva di compatibilità con l’ortodossia cattolica: per esempio, scrive di Gesù «concepito da Giuseppe e Maria», ma forse è un errore di traduzione, perché due pagine dopo parla di Maria «fecondata dallo spirito di Dio»; non è però un refuso tipografico l’affermazione secondo cui «le religioni [anche le religioni cristiane] pervertono il desiderio profondo dell’essere umano codificando una morale che non ha niente a che vedere con il Vangelo». Quest’ultimo, peraltro, è un punto nodale del pensiero di Dolto, che distingue una «morale oggettiva», utile per il vivere sociale, ma soffocante il desiderio, e un trascendente soggettivo totalmente libero che darebbe accesso al divino. E sorprende che quando Dolto commenta la moltiplicazione dei pani e il discorso di Gesù all’ultima cena, non sfiori neppure la portata sacramentale che ne è il nucleo oggettivo. Anziché insistere sulle perplessità, tuttavia, preferiamo segnalare il positivo di molte suggestioni della risposte di Dolto alle domande, non sempre all’altezza dell’argomento, di Gérard Sévérin. In tal senso, il titolo del libro,  La fede alla luce della psicoanalisi (nell’originale è «al rischio della psicoanalisi») potrebbe benissimo essere rovesciato: infatti, propriamente Dolto tratta «La psicoanalisi alla luce del Vangelo», avvalendosi delle risorse della rivelazione per allargare i confini della ragione per intendere i moti profondi della psiche e dei sentimenti umani, soprattutto dei bambini. E questa è una preziosa indicazione di metodo. Anche sulla distinzione tra “senso di colpa” e “peccato”, Dolto ha parecchio da dire, ma lo spazio della rubrica non consente di riferire adeguatamente. Ottimi argomenti sull’ateismo: «Dicono di non credere in Dio, perché hanno fede, speranza, amore, idee, sentimenti incardinati nel corpo e non possono incanalarli nella parola che li unisce, la parola “Dio”. Ma trovo che abbiano una fede straordinaria. Hanno fede nel loro ateismo, nella loro ragione logica. Ma il non credente, come viene chiamato, non è mai al riparo dalla tentazione di credere». Nel capitolo sul «risveglio spirituale del bambino», Dolto insiste sull’efficacia del battesimo degli infanti già in fase pre-edipica, e ha parole bellissime sugli angeli custodi, anche se dice che «bisogna insegnare al bambino a criticare l’idea del bene e del male. La nostra educazione ce l’ha insegnata, noi forse non dobbiamo negarla, ma che il bambino sappia che non è quella di Dio!» (e con ciò, tanti saluti alla legge naturale!). Positivo, in ogni caso, è lo slancio vitale del desiderio che Dolto legge anche nelle situazioni estreme: «Credo che un encefalo ferito, malato, anche se non permette più a una persona di pronunciare parola, sia ancora una prova di vita, di desiderio: pur colpito a morte in alcune sue funzioni, l’uomo vive, e questa vita, anche se parziale, si nutre di desiderio». Come si vede anche da questi spunti, la lezione di Françoise Dolto è non solo affascinante, ma arricchente, e merita studi e applicazioni appropriati, disponibili alla critica.
 
http://www.avvenire.it/Rubriche/Pagine/Leggere,%20rileggere/Fran%C3%A7oise%20Dolto%20mette%20il%20Vangelo%20sul%20lettino%20di%20Freud_20131002.aspx?Rubrica=Leggere,%20rileggere
 
 

EDUCARE ALLE EMOZIONI E AFFASCINARE COL CARISMA. COSÌ CONQUISTI I GIOVANI
di Redazione e Umberto Galimberti, ilgiornaledivicenza.it, 3 ottobre 2013
 
I giovani stanno male. Quelli che si suicidano perché derisi sul web e quelli che lanciano sassi la domenica allo stadio. Quelli che non studiano né lavorano, quelli che cercano annullamento nella droga. Sono privi di alfabeto emotivo e hanno reso l’inerzia uno stile di vita, perché si trovano a vivere in un “deserto dell’insensatezza”, un mondo ove il futuro appare più come minaccia che come promessa. Eppure, se conquistati, i giovani sono come cavalli di razza. Cosa serve? Educare alle emozioni e affascinare con il carisma. Parola di Umberto Galimberti, dal 1999 professore di filosofia della storia all’università Ca’ Foscari di Venezia, che sarà a Castelgomberto, oggi alle 20.45, a Palazzo Barbaran, per parlare di giovani “tra progresso della tecnologia e regresso dei valori”, ospite dell’associazione culturale Agorà, che organizza il festival “Castelgomberto d’ottobre”.
Professore perché sostiene che i giovani stanno male?
Perché vivono in un’età nichilista. Nietzsche, che per primo introdusse il concetto, definiva così il nichilismo: “Manca lo scopo, manca la risposta, perché tutti i valori si svalutano”. “Mi capirete tra 50 anni”, aggiunse. Ce ne abbiamo messi 130 ma aveva ragione. Il futuro non è più una promessa, una speranza, è diventato una minaccia, quantomeno qualcosa di imprevedibile e quando non si vede un futuro scatta la demotivazione. In questo mondo i ragazzi non sono “convocati”, nessuno li chiama per nome, sono vissuti come problema, non ci sono per loro prospettive né orizzonti. Sono vittime della generale mancanza di progetti e di senso che pervade la nostra cultura.
Lei però aggiunge che “non lo sanno” ne sono inconsapevoli.
Sì, perché sono diventati psico-apatici. Psicopatico è un’espressione che si usa quando si vuol offendere qualcuno, ma in realtà psico-apatico vuol dire che la mia psiche non regista il valore delle mie azioni. Questi ragazzi fanno poca differenza tra l’insultare un professore o prenderlo a calci, tra corteggiare una ragazza o stuprarla. Non hanno evidente percezione della differenza. Kant diceva che i concetti di bene e male potremmo anche non definirli, perché ciascuno li “sente” naturalmente da sé. I giovani hanno un deficit di questo sentire.
Questo malessere, lei sostiene, è una condizione culturale e non esistenziale. Riflesso del tramonto dell’Occidente, della morte non solo di Dio come diceva Nietzsche ma anche dei suoi eredi. Come ci siamo arrivati?
Il Cristianesimo aveva immesso nella cultura occidentale un ottimismo grandioso. I Greci concepivano il tempo come ciclo, ripetizione, il Cristianesimo sviluppa il concetto di un tempo lineare dove il passato è male, peccato, il presente redenzione, il futuro salvezza. Lo stesso fa la scienza che a mio avviso è profondamente cristiana: il passato è ignoranza il presente ricerca, il futuro progresso. Profondamente cristiano è Marx: il passato è ingiustizia sociale, il presente è rivoluzione, il futuro è giustizia sulla terra. Per Freud: il passato è trauma, il presente analisi, il futuro guarigione. Questo ottimismo immesso nella cultura Occidentale che ha pervaso tutti i saperi non funziona più perché Dio è morto. Nel Medioevo l’arte era arte sacra, la letteratura parlava di inferno e purgatorio, la donna era donna angelo. Se si toglieva il riferimento a Dio cadeva oggi cosa. Oggi se tolgo Dio capisco ancora questo mondo? Eccome. Non lo comprendo invece se tolgo la parola denaro o tecnica. Dio non fa più mondo. Se Dio è morto la promessa di un futuro positivo si dissolve.
Come si recuperano i giovani indifferenti? Lei se la prende spesso con il mondo della scuola, che, dice, “ha espulso” l’educazione emotiva , misura gli studenti solo in base al criterio di efficienza. Il ministro della pubblica istruzione si preoccupa dei computer nelle scuole. I computer i ragazzi li conoscono meglio dei professori!
Si educa attraverso la sintesi e la sintesi la fa un maestro non internet. La scuola non deve limitarsi a istruire, ma educare al sentimento, per esempio attraverso la letteratura, luogo dove si impara che cos’è l’amore, la tragedia, il dolore, la noia, la disperazione. Se io imparo a conoscere i sentimenti poi li so nominare, se non li conosco non so definirli. Ci si deve preoccupare di far amare la letteratura e la storia dell’arte non del computer. E i professori? Sono essenziali. Consideriamo che i lobi frontali del cervello, che dominano la razionalità, arrivano a maturazione a 20 anni. Prima quindi funziona il cervello antico, lo spazio delle emozioni. Nell’età della scuola perciò l’apprendimento passa attraverso l’emozione.
Come si recuperano gli indifferenti?
Bisogna entusiasmarli, affascinarli. Servono maestri e professori che abbiano carisma, sappiamo conquistare. Si impara per fascinazione e imitazione diceva Platone. Gli insegnanti dovrebbero superare un test di personalità non un concorso.
Come antidoto al nichilismo lei propone l’etica del viandante. Che cosa intende?
Distinguo il viaggiatore, che ha un punto di partenza e di arrivo, dal viandante che si mette in moto e decide di volta in volta cosa fare, se salire una montagna o attraversare un fiume. In una cultura dove non ci sono più principi né valori, bisogna sviluppare la categoria della decisione a seconda delle circostanze. Non ci sono principi regolatori della condotta collettiva, così siamo chiamati a fare come Ulisse, scegliere ogni volta, percorrendo la strada tra Scilla e Cariddi: Ulisse non possedeva la verità ma la saggezza e quella per forza poggia sulla cultura.

http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Cultura_e_Spettacoli/570733_educare_alle_emozioni_e_affascinare_col_carisma_cos_conquisti_i_giovani/?refresh_ce

DATEMI UN SIGARO E VI DARÒ UN VINO
di Luciano Ferraro, divini.corriere.it, 5 ottobre 2013 

Sigmund  Freud ne fumava fino a 20 al giorno. «I sigari — scriveva — mi sono serviti per cinquant’anni come protezione e come arma nella battaglia della vita». Erano l’unica «dipendenza voluta» di una vita rigorosa. Lavorava dalle 7 alle 21. Allo scoccare delle 13 il pranzo veniva servito in modo sempre uguale: «La moglie si siede dall’altro capo del tavolo, quindi fa la sua apparizione la cameriera con la zuppiera tra le mani» (lo racconta lo scrittore Daniel Akst, nell’«Elogio dell’autodisciplina», Mondadori). Per Freud gli effetti del fumo lento erano simili a quelli dell’alcol, in grado di dare «immediato piacere e indipendenza dal mondo esterno». Per accostare sigari e bevande oggi lo psichiatra viennese, se rinascesse come immagina Paolo Brinis nel «Giro del mondo in 80 sigari» (Casadeilibri), avrebbe a disposizione una scelta ai suoi tempi inimmaginabile. Le cigar room, un tempo club maschili impregnati da odori di tabacco, legno e cuoio, si sono moltiplicate. Come lo spazio di Massimo Gianolli, dell’azienda vinicola Collina dei ciliegi e partner dell’Antica Osteria del Ponte a Cassinetta di Lugagnano. I suoi “fumoir” si trovano in via Gioia a Milano, al ristorante, e ora anche in una zona riservata dello stadio di San Siro: l’abbinamento preferito è tra il sigaro Toscano e l’Amarone della Valpolicella. Il vino sempre più spesso sostituisce distillati e liquori al tavolo degli aficionados dei sigari. Esistono sommelier in grado di selezionare il matrimonio perfetto tra fumo e vini. Come Marco Tonelli, primo habanos sommelier italiano e finalista ai campionati del mondo della categoria a Cuba nel febbraio scorso.
«Lasciate perdere i distillati — consiglia Tonelli —. Meglio i vini, che rinfrescano il palato grazie alla temperatura di servizio. Ma anche grazie al grado di acidità che stimola la salivazione».
Quindi Champagne e Metodo classico italiani come Franciacorta e Trento doc. Oppure Prosecco. «A patto di sceglierne uno di qualità, con poco zucchero residuo. L’alternativa sono i vini dolci».  Ecco i vini preferiti da Tonelli: Prosecco Colfòndo di Bele Casel per il sigaro Toscano Soldati («il tabacco dolce campano si accompagna ai toni morbidi ma agrumati di questa bottiglia») e Malvasia dolce di Camillo Donati con l’Antico Toscano («il più potente, e forse più vero, tra i Toscani con il tocco floreale di un vino naturale»). Con i sigari cubani si può dare spazio alla fantasia. Ad esempio: «Con il Cohiba Behike 54 si beve l’Albana di Romagna passito Scacco Matto 2008, che spegne l’irruenza del finale con un bicchiere che declina gli agrumi, la frutta secca e lo zafferano». Un sigaro piccolo da aperitivo? Se si tratta di H. Upmann Half Corona «l’ideale è un Franciacorta Collezione Giovanni Cavalleri 2004 mentre è preferibile il Ferrari Riserva 2004 per il Davidoff Entreacto», chiamato così perché doveva durare il tempo tra un atto e l’altro a teatro. Il Recioto Sant’Ulderico 2008 Monte dall’Ora «si sposa con un sigaro del Nicaragua, l’Oliva serie V belicoso, potente e speziato, che ben si armonizza con le note di ciliegia».
A vino e sigari si è dedicato anche Fabrizio Franchi, «enofumogastronomo», autore del «Toscano nel bicchiere» (Giunti). Marco Starace, ischitano, consigliere nazionale dell’Associazione nazionale sommelier, è invece l’organizzatore, assieme a un gruppo di colleghi, di una sorta di master che sta girando l’Italia per insegnare a «creare il giusto abbinamento tra sigari e nobili bevande». «L’abbinamento principe sono le bollicine — spiega — italiane o francesi come lo Champagne Perrier-Jouet Grand Brut che proponiamo con un sigaro Davidoff Primeros Classic o un Puro D’Oro Momento. Con il Toscano Garibaldi va a nozze il Ferrari Riserva, con l’Extravecchio un passito come il Privilegio di Feudi San Gregorio».
Il corso inizia con una lezione sulla storia del tabacco degli indios e si conclude, attraverso degustazioni e fumate, con una serata sullo «Stortignaccolo», ovvero il sigaro amato da Giuseppe Garibaldi e Mario Soldati, a cui sono dedicati alcuni tipi di sigari. L’ultimo della collezione è stato presentato pochi giorni fa, è dedicato al musicista Pietro Mascagni.
«I sigari si affinano e cambiano con il tempo come i vini — spiega Starace — ed è divertente calibrare gli abbinamenti anche tenendo conto di questo. Lo scopo è quello di prendersi del tempo per se stessi. Può avvenire con un sigaro corto alla fine della mattina, magari bevendo in quel caso un Prosecco o anche un chinotto o un tè nero che ti facciano restare lucido. E magari poi concedersi,alla fine della giornata, un sigaro più importante con un vino di qualità».
Per staccarsi, come diceva Freud, dal resto del mondo. 

http://divini.corriere.it/2013/10/05/sigari-e-vini-come-scegliere-gli-abbinamenti/


LA STANCHEZZA DELL’OCCIDENTE

L’esaurimento è una reazione alle sirene dell’edonismo esasperato che produce anche la precarietà sociale ed economica. Il fenomeno nasce dal “principio di prestazione”, che costringe la vita a essere “produttiva” e l’individuo ad affermare se stesso
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 6 ottobre 2013
 
Recentemente il sociologo coreano Byung-Chul Han ha proposto l’immagine della stanchezza come chiave interpretativa della nostra epoca. Qualcosa si è esaurito, è scaduto, è divenuto privo di forza. In contrasto solo apparente con questa stanchezza di fondo il nostro tempo sembra sostenuto da una corrente eccitatoria permanente. Come intendere questa oscillazione bipolare tra frenesia e stanchezza? Tutti ci lamentiamo di come il tempo della nostra vita sia incostante accelerazione. Rocco Ronchi per definire questa tendenza ha evocato l’immagine della “mobilitazione generalizzata” con la quale Ernst Jünger aveva definito il tempo caotico della prima guerra mondiale. La nostra mobilitazione permanente non ha però come bussola la difesa del suolo, dell’identità, dei confini. Noi non abitiamo piuttosto il tempo della liquefazione di ogni identità, della contaminazione, della globalizzazione, della relativizzazione di tutti i confini?
Questo significa che l’attuale mobilitazione in cui tutti siamo coinvolti non ha un obbiettivo fuori dalla riproduzione di se medesima. Siamo tutti stanchi e al tempo stesso tutti mobilitati. Siamo bipolari, costretti a servire un principio di prestazione inflessibile e superegoico per poi riconoscerci esausti, sfiniti, senza più risorse. Questo paradosso lo indicava già Heidegger nella sua diagnosi del nichilismo occidentale: il nostro tempo è il tempo della riduzione del mondo a pura risorsa da sfruttare illimitatamente. In questo senso la nostra stanchezza rivela la verità dell’iperattivismo che non affligge solo le vite dei bambini occidentali ma, ben più radicalmente, la vita stessa dell’Occidente. La vita è esausta, spossata, afflitta da una stanchezza reattiva alle sirene dell’iperedonismo che, non dimentichiamolo, produce anche la precarietà sociale ed economica che è il vero volto dell’Occidente sotto la maschera della sua giostra maniacale. Marcuse aveva già messo in luce come il capitalismo avesse trasfigurato il principio freudiano di realtà nel principio di prestazione. Una nuova forma di alienazione si delineava: non solo quella relativa allo sfruttamento della forza lavoro – secondo lo schema marxista –, ma quella di una nuova forma di oppressione della vita costretta ad essere necessariamente produttiva, liberata dai vincoli oscurantisti della tradizione, ma asservita ad un nuovo padrone: la necessità della affermazione ad ogni costo della propria individualità. Ebbene, la stanchezza che ci affligge oggi non mostra forse il limite di questo mito antropologico? Non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?
Facciamo due soli esempi. Il primo è quello del disagio giovanile che non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita. Al centro non è più il disagio tra la giovinezza che avanza le sue esigenze di trasformazione del mondo e l’ordine granitico dell’esistente, ma il disagio di un vita spenta, stanca, lontana dal desiderio. I sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicoanalista (violenza, alcoolismo, tossicomanie, dipendenza dall’oggetto tecnologico, anoressia, bulimia, isolamento, ecc.) hanno questa radice in comune: non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso. La vita che dovrebbe sbocciare nel tempo della sua primavera tende a contrarsi, a chiudersi su se stessa, a ripiegarsi. Questo movimento regressivo contrasta solo apparentemente con l’esaltazione maniacale di cui si nutre la nostra Civiltà poiché, in realtà, è solo l’altra faccia di quella medaglia.
Il secondo esempio riguarda uno dei grandi simboli dell’Occidente; è la stanchezza di Benedetto XVI che, sfinito, lascia il suo posto mostrando il volto umano del rappresentante ideale e normativo di Dio in terra. Cosa vi possiamo leggere? Non solo un dramma interno alla Chiesa Cattolica e alla necessità di un suo profondo rinnovamento. Esso rivela una stanchezza profonda nella vita di tutte le istituzioni che non sembra più in grado di essere animata da passioni profonde. Il senso religioso della vita e quello laico della polis sembrano entrambi esauriti. Si pensi solo alla stanchezza che avvolge la politica come tale. In questo tornante non è in gioco l’esperienza della perdita di tutti i valori, lo spettro minaccioso del nulla, della morte di Dio come accadde alle soglie del Novecento. Oggi quel grande smarrimento ontologico lascia il posto al frastuono della vita spensierata, all’homo felix dedito alla ricerca compulsiva della “sensazione”, prigioniera della idolatria degli oggetti, integralmente esteticizzata. Al centro non v’è più il nulla che minaccia l’essere, ma un troppo pieno che ottunde, un eccesso di presenza, una mancanza della mancanza, come direbbe Lacan.
Eppure questa ultima grande crisi economica mostra tutti i segni della gravissima patologia che affligge l’Occidente. Siamo in un punto di snodo: dobbiamo provare a leggere la stanchezza attuale dell’Occidente non solo come l’effetto di una disillusione fondamentale delle false promesse di felicità del capitalismo, ma anche come una domanda di un altro mondo possibile. L’uomo dell’Occidente è un uomo stanco della vita o di questa vita? Dovremmo provare a leggere in questa nostra stanchezza non solo una caduta depressiva della vita, ma anche l’esigenza di un’altra vita. Essa contiene già in sé una domanda latente di pausa, di sconnessione dalla connessione perpetua a cui siamo “obbligati”, contiene già una esigenza positiva di silenzio.
 
http://giovannitaurasi.wordpress.com/2013/10/06/la-stanchezza-delloccidente-di-massimo-recalcati-da-la-repubblica-del-6-10-2013/
 
 
LA PAROLA ALLO PSICANALISTA GIUSEPPE MAIOLO: L’INNAMORAMENTO
«Non è l’amore vero e proprio, ma qualcosa che si avvicina. E molto»
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 6 ottobre 2013
 
Innamorarsi è sempre un’ebbrezza. Ogni volta che capita la passione esplode, o per lo meno si sviluppa un cumulo di emozioni intense. Non è l’amore ma qualcosa che si avvicina. Assomiglia all’estasi o al rapimento dei sensi e del pensiero, che di solito non lascia spazio ad altro. Lo sanno bene gli adolescenti con i loro fuochi che si infiammano d’un colpo anche se poi altrettanto velocemente si spengono. Per tutti comunque innamorarsi è come un profondo rapimento dell’anima e un estremo bisogno di fusione con l’altro.
Questa passione sembra annullare il confine tra i corpi in quanto chi la prova vive la magia di essere una cosa sola, unica e indivisa con il partner. Infatti nell’innamoramento non ci si può assentare, né essere lontani perchè se l’amato o l’amata manca prevale l’angoscia e il bisogno dell’altro, il desiderio della sua presenza e un misto di vuoto, paura e terrore della solitudine. Uno stato questo che richiama la simbiosi, cioè il bisogno di identificarsi con l’altro e appartenergli completamente. Una sorta di beatitudine. Un incanto. Forse richiama alla memoria la felicità piena e assoluta che proviene da un legame lontano, perfetto: la simbiosi madre-bambino.
Perché l’innamoramento annulla l’individualità e fa prevalere la devozione totale. Al limite del sacrificio. Domina il contatto corporeo, l’attrazione fisica, e in particolare quella sessuale. Allora i partner si cercano, irresistibilmente. La coppia si isola, si allontana dagli amici, dal mondo dei rapporti interpersonali, e sembra che ci sia più bisogno di niente e di nessuno al di fuori dell’amato.L’innamoramento una passione urgente e impetuosa, irruente e sconfinata. È una turbolenza che affascina e scuote. Alle volte sconvolge perché mette a dura prova la ragione. In qualche caso può accecare e nelle forme più potenti ti trasporta in alto, nella stratosfera del sentimento. Però se non ti travolge prelude ad un progetto amoroso importante che vale la pena vivere fino in fondo.
 
http://www.ladigetto.it/permalink/28399.html
 

L’UOMO DI OGGI E LA TECNOCRAZIA. PSICANALISTI E SCRITTORI A CONFRONTO
Il convegno «Il disagio della cultura nella nostra modernità» organizzato da Nodi Freudiani
di Sergio Harari, milano.corriere.it, 7 ottobre 2013
 
E’ aperto a tutti, e non solo agli esperti di psicoanalisi, il convegno «Il disagio della cultura nella nostra modernità», organizzato da Nodi Freudiani, movimento psicanalitico che da anni si occupa della ricerca teorica e della diffusione della cultura psicoanalitica, sabato 12 e domenica 13 ottobre 2013 a Palazzo Cusani (Milano, Via Brera 13/15). Il tema è il disagio culturale nell’era tecnocratica, ovvero quando una modernità dominata dal primato della tecnica tende a cancellare le individualità soggettive.
Il convegno, introdotto da Sergio Contardi, si articolerà in quattro moduli (Parola, Legge, Debito, Forma), ognuno di mezza giornata, sviluppati in tavole rotonde alle quali interverranno giornalisti, filosofi, scrittori, personaggi provenienti dal mondo dell’arte e della cultura; al termine dei moduli vi saranno le libere conferenze di Vittorio Sermonti, Natalino Irti, Salvatore Natoli, Haim Baharier.
Giorgio Landoni, per Nodi Freudiani, esplicita meglio alcune delle riflessioni che saranno sviluppate nelle due giornate: «Un modello tecnocratico permea anche il campo medico. Un modello medico così costituito può iniziare dalla spiegazione genetica di una qualsiasi malattia e può finire con il produrre un modello medico della normalità, inclusa la normalità sociale, e dettare un attacco terapeutico o preventivo alla devianza. Ma può non essere devianza la cultura? E quale pertinenza rispetto alla cultura può avere il medico in quanto tale?». L’ingresso al convegno è libero e gratuito fino a esaurimento dei posti; per iscriversi e per informazioni: nodifreudiani.mi@gmail.com.
 
http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_ottobre_04/uomo-oggi-tecnocrazia-psicanalisti-scrittori-confronto-503ac9ce-2d07-11e3-bdb2-af0e27e54db3.shtml
 
 
I FUNGHI DEL DOTTOR FREUD
di Francesca Rigotti, retedue.rsi.ch, 7 ottobre 2013
 
Quando il mondo esterno sembra impazzire più del solito, tra lo shutdown negli Stati Uniti di Obama e gli squallidi voltafaccia della politica italiana, quando gli dei maggiori ululano, imperversano e strepitano, può essere di conforto andare in pellegrinaggio presso gli dei minori, magari tra le divinità della natura talvolta ancora benigna, in compagnia di driadi e amadriadi, ninfe dei boschi, e guardare non al fenomeno unico che scuote e turba ma agli eventi naturali che si ripetono su base stagionale, costante e ripetitiva. La «notizia» di oggi, che non è proprio una novità perché si sa da tanto tempo, è che in questa stagione nei boschi crescono i funghi. Come si vede non si tratta di uno scoop che attrae spettatori o ascoltatori, eppure è così, andate a vedere. Alcuni di noi amano la montagna, praticano, se non l'alpinismo, un po' di escursionismo, e magari si dilettano anche nell'«andare a funghi», come si dice: a me piace, anche se con la vita che conduco non riesco certo a farlo spesso. Ho comunque scoperto di condividere questa passione con compari illustri: Norberto BobbioGustavo Zagrebelsky, ma soprattutto Sigmund Freud.
Per sfuggire alla calura di Vienna Freud trascorreva lunghi periodi di vacanze nelle montagne del Tirolo con la numerosa famiglia (sei figli, moglie e cognata); soggiornò in diverse località alpine nelle quali faceva passeggiate, contemplava il paesaggio, raccoglieva funghi. In una di queste località, Lavarone, vicino a Trento, Freud trascorse periodi abbastanza sereni, lavorando e rilassandosi ed effettuando escursioni attraverso i paesaggi alpini e i paesaggi dell'anima. Era ospitato all'Hotel Du Lac, in posizione solitaria sopra il Lago di Lavarone, da cui godeva una bellissima vista sulle acque e sulle cime circostanti. Alloggiata l'anno scorso nel medesimo albergo in occasione di un convegno sul Silenzio, mi ripetevo tra me e me che Freud aveva calpestato gli stessi gradini, aveva goduto dello stesso magnifico panorama, forse aveva persino raccolto funghi e ciclamini, la cui raccolta è oggi protetta e regolamentata, nei primi anni del '900 probabilmente no.
Freud era un maestro nel ricorrere al linguaggio metaforico per esprimere condizioni inesprimibili, come nella psicoanalisi dell'inconscio, dove Io, Es e Superio sono disposti come nei locali di una casa, col subconscio in cantina, il Superio in soffitta e l'ego a farla da padrone negli ampi locali del pianterreno. Intorno alla casa dell'anima i sogni spuntano come funghi dalle oscure profondità notturne, dapprima nascosti e confusi nel sottobosco e poi riconosciuti alla luce della coscienza; è allora che lo scoprire i sogni nella loro evidenza grazie alla associazione di idee e di pensieri, dopo esserne andati «a caccia» come faceva Freud con i funghi, suscita la gioia del riconoscimento e del ritrovamento. Vi saluta con questo pensiero la vostra Francesca Rigotti.

http://retedue.rsi.ch/home/networks/retedue/oggilastoria/2013/10/07/funghi-freud.html

 
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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