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La Psicoterapia come incontro tra comunità resilienti

25 Ott 13

A cura di Luigi D'Elia

La definizione di psicoterapia che coincide col titolo di questo contributo probabilmente cozza con molte altre rappresentazioni professionalmente interiorizzate, voglio però ugualmente provare a percorrere questa impervia strada nel tentativo di affrontare, nell’arco delle poche battute di questo contributo, un nuovo e più fattivo costrutto intorno, a seguire, a latere di quello di psicoterapia così come usualmente e operativamente utilizzato nei nostri presidi professionali, senza negare le definizioni tradizionali, ma provando ad allargare concettualmente il campo semantico.

L’affermazione la psicoterapia è un incontro tra comunità resilienti, contiene in sé ben quattro concetti:
1.       Psicoterapia
2.       Incontro
3.       Comunità
4.       Resilienza

Ognuno dei quali richiederebbe anni di discussione e studio. Naturalmente, data la brevità, darò qui molte, forse troppe, cose per acquisite. Mi scuseranno i lettori più esigenti, le sintesi rischiano la genericità, ma hanno il vantaggio di visualizzare in piccoli grafemi intuitivi realtà complesse in pochi centimetri quadrati.
Esplicito il mio background e dico subito che questa definizione si iscrive all’interno della tradizione di psicologia sociale di comunità, ma anche della psicologia positiva, della gruppoanalisi e dell’antropologia, e rappresenta una revisione del costrutto psicoterapia partendo dalle seguenti premesse.

A.      La psicoterapia è un corpus di saperi e tecniche che si svolge e si attualizza sempre in una modalità interattiva, relazionale e circolare, per la quale l’idea di ascolto e accoglienza rimanda alla più antica idea sacrale di ospitalità. Un incontro che avviene su uno sfondo sociale niente affatto neutro e dunque avviene sempre sul confine di territorialità culturali e psichiche di interface, un’area di incontro-confronto tra soggetti portatori di storia.

B.      Lo psicoterapeuta è sempre il “prodotto” di una catena di eventi storico-culturali che fanno di lui, attraverso le sue vicende personali e formative, il coagulo di una comunità di pratiche, assetti istituzionali interni e tradizioni che egli rappresenta e di cui è, a volte inconsapevolmente, portavoce. Quando psicoterapeuta e paziente si incontrano in uno studio sono sempre folle di gruppalità interiorizzate e storicamente depositate che s’incontrano e dialogano, sono mondi collettivi che si danno appuntamento e conversano in uno spazio ben più vasto (ci vogliono moltissimi posti a sedere) di quello dei pochi metri quadrati della stanza (non ne parliamo se terapeuti e pazienti sono più d’uno, occorrerebbe metaforicamente affittare un anfiteatro).

C.      Scopo di questo incontro è sempre il tentativo di mobilitare risorse e strategie personali nel paziente e nelle sue comunità, anche attraverso la mediazione del terapeuta, per consentirgli di accedere ad una qualità di vita migliore di quella in cui si ritrova nel momento in cui si rivolge al terapeuta. Detto in altri termini, scopo dell’incontro è aumentare la resilienza del paziente e dei suoi sistemi sociali nei quali è ambientato (per approfondire, leggete questo eccellente lavoro di Laura Preve sulla resilienza).

D.      La Resilienza nelle differenti definzioni (Bertetti, 2008 tratto da L. Preve opera citata):
 
In ambito Psicologico-Psicoterapeutico:
–          capacità di superare per qualità individuali, psichiche, comportamentali e di adattamento un grave stress a cui è associato un grave rischio di psicopatologia
–          capacità umana di affrontare le avversità della vita, superarle e uscirne rinforzato o addirittura trasformato.
 
In ambito psico-sociale:
–          flessibilità, adattamento positivo in risposta ad una situazione avversa, da intendersi sia come condizione di vita sfavorevole, sia come evento traumatico ed inatteso
–          capacità di una persona o di un grupppo di svilupparsi nonostante l’esperienza di avvenimenti destabilizzanti, condizioni di vita difficili e traumi
–          qualità che aiuta gli individui o le comunità a resistere e superare le avversità
 
In ambito sistemico:
–          capacità che si sviluppa all’interno di sistemi (familiare e sociale) capaci di sostenere e di resistere ai cambiamenti provocati dall’esterno, per sovrapporsi e superare crisi attraverso un cambiamento qualitativo mantenendo la coesione strutturale attraverso un processo di sviluppo
–          processo dinamico che si stabilisce nell’interazione tra fattosi di rischio e fattori di protezione
 
In ambito psico-educativo:
–          qualità potenziale e dinamica che può essere potenziata dalla qualità dell’interazione individuo-ambiente
–          abilità che può essere acquisita attraverso un processo di apprendimento all’interno di istituzioni formative.
 
Lo psicoterapeuta opera dunque, con le sue conoscenze e modalità teorico-tecniche, una pratica di resilienza utilizzando l’occasione dell’incontro e della situazione critica del paziente, facendosi portavoce di comunità resilienti e di cui egli trasmette in ogni forma, esplicita ma soprattutto implicita, gli strumenti culturali considerati di successo o comunque funzionali alla criticità del paziente.

Durante il lavoro psicoterapeutico avviene dunque l’incontro tra le due (o più) comunità di riferimento: quella del terapeuta con tutti coloro dai quali egli ha imparato ed ha fatto tesoro, con tutti i riferimenti culturali ancora più antichi (come avviene con gli antenati nelle società tradizionali) e con tutte le sue esperienze resilienti personali, e quella del paziente (o dei pazienti) e dei suoi network socio-relazionali (i suoi microsistemi e exosistemi, Bronfenbrenner, 1979). Due comunità storiche che incontrandosi provano ad inventare buone soluzioni per una vita sufficientemente buona a partire dalle difficoltà e dalle risorse esistenti e mobilitabili.

La domanda che si pone a questo punto è: la comunità dello psicoterapeuta ed egli stesso sono sempre adeguatamente resilienti tali da sostenere o attivare la resilienza della comunità del paziente? Non sempre. E questo diventa giocoforza il principale criterio sia per la selezione ragionata dei pazienti che in un certo senso causa diretta o indiretta del loro drop-out laddove non si sia sufficientemente valutato questo aspetto.

Certo, una domanda del genere presuppone che il terapeuta sappia di essere, per quanto unico, originale e particolarissimo nel proprio stile, portavoce della propria comunità e sappia altresì quale fattore efficace e efficiente per il proprio lavoro ciò rappresenti. È allo stesso modo importante che egli sappia con quali strategie resilienti egli operi con il sistema-paziente: strategie relazionali, narrative, di coping, di ricerca-azione, o di qualunque altro strumentario psicoterapeutico egli è in grado di utilizzare per mobilitare la resilienza del sistema-paziente.
 
 

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5 Commenti

  1. simonetta.putti

    La domanda che poni: ‘ la
    La domanda che poni: ‘ la comunità dello psicoterapeuta ed egli stesso sono sempre adeguatamente resilienti tali da sostenere o attivare la resilienza della comunità del paziente?’ e sicuramente cruciale e rimanda alla necessità di un training adeguato, che non si situi soltanto a livello culturale ed esperienziale, ma investa la formazione personale dello psicoterapeuta. Credo che occorrano molti anni di analisi personale, prima ancora che didattica, per fornire allo psicoterapeuta una ‘cassetta degli attrezzi’ adeguata.

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    • luigidelia

      Cara Simonetta, da sempre le
      Cara Simonetta, da sempre le associazioni psicoanalitiche delegano all’analisi personale più o meno implicitamente una serie di funzioni formative dirette o indirette rispetto alla formazione dell’analista o dello psicoterapeuta.
      Fermo restando il ruolo centrale che personalmente attribuisco all’analisi personale anche per quanto riguarda la formazione professionale, tenderei (anche da quanto argomento nell’articolo) a distinguere e specificare contesti e funzioni e a non sovrapporli.
      In altre parole, non c’è dubbio che nella comunità interna del terapeuta l’analista o psicoterapeuta (o gli analisti.psicoterapeuti) personale occupa in genere un posto preminente, ma non coincide con tutta la comunità. Anzi, penso proprio che questo collassamento concettuale sia tutto sommato un guaio dal punto di vista formativo in quanto una comunità interna che funziona, cioé che genera un terapeuta versatile, è in genere piuttosto popolata e varia.
      Se devo pensare alla mia esperienza personale, ad esempio, ho cominciato la mia analisi che ero giovane (22 anni) e l’ho finita alle soglie dei 30, e se dovessi affidare a quella esperienza i miei rimandi e la mia strumentazione come terapeuta direi che non mi basterebbe affatto, direi proprio che sarei fritto, ma non certo perché sia stata una cattiva esperienza, tutt’altro, ma perché l’ho svolta in una fase della vita dove a tutto pensavo fuorché alla professione.
      Molta acqua è poi passata sotto ponti per fortuna, tra esperienze lavorative più o meno estreme e pionieristiche, scuola di formazione, oltre 10 supervisori diversi (anche nell’estrazione) nell’arco di una quindicina di anni, uno in particolare per 7 anni di seguito, e una miriade di esperienze diverse, anche non cliniche, che hanno arricchito e continuano ad arricchire il mio bagaglio personale. Insomma la mia rete interna è fitta di cui non saprei fare una gerarchia di importanza e forse non ha senso farla.
      Quindi l’analisi è necessaria ma assolutamente insufficiente. Almeno rispetto al discorso che sto facendo in questo articolo.
      Ciao e grazie del tuo contributo.

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      • simonetta.putti

        Vedi, la stringatezza che in
        Vedi, la stringatezza che in genere ci imponiamo nei commenti a volte può generare fraintendimenti. Non intendevo dire che l’analisi personale costituisce il fattore unico nella preparazione umana dello psicoterapeuta, ma che ne è – come tu dici – un fattore essenziale, Non unico – ovviamente – nè sufficiente a tutto. Io stessa, se riguardo al passato, trovo la insuperata utilità dei periodi di tirocinio, divenuti poi di volontariato, presso l’Ospedale del Bambin Gesù, a Neuropsichiatria Infantile. Esperienza insostituibile e molto più formativa di tanti corsi teorici. Intendevo dire che non si può far senza – almeno a mio parere – di una adeguata analisi personale; mentre oggi a volte non si attraversa questa fase.
        Mi piacerebbe comunque che tu spiegassi meglio l”apporto specifico della Comunità, tema del tuo articolo. Grazie!

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        • luigidelia

          Quando parlo di “comunità” mi
          Quando parlo di “comunità” mi riferisco a un concetto piuttosto articolato che riguarda sia la mappa relazionale attuale (Franco Fasolo ci ha donato la Carta di Rete come strumento clinico di rilevazione mutuato dalla sociologia) , sia gli “introietti” (termine orribile, ma esemplificativo), i sedimenti storicizzati anche nelle generazioni precedenti, (infatti implica anche un transgenerazionale professionale dal versante del terapeuta) non solo delle persone, ma delle esperienze avute nei vari contesti relazionali e che hanno contrappuntato la biografia (personale e/o professionale dell’individuo).
          Non solo, oltre alle coordinate temporali della comunità occorre tenere presenti quelle spaziali: la comunità è, senza soluzione di continuità (sottolineo), sia interiorizzata che reale e realmente convocabile.
          Per questo i campi e i setting multipli, o multifamigliari (ad esempio), come anche i gruppi, purché condotti con un certo approccio complesso, funzionano bene…

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          • simonetta.putti

            Ok..!
            Ok..!

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