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di Luigi Starace

[Teatro] La confutabilità popperiana del Divino ne "La leggenda del grande inquisitore"

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21 dicembre, 2013 - 19:27
di Luigi Starace
Umberto Orsini a 78 anni sembra aver scoperto oltre all'elisir di lunga vita (il teatro fa bene alla salute) anche il segreto per la longevità teatrale. Come ultima fatica porta in scena un tema caro al Novecento, forse "il" tema del secolo scorso: cosa può definirsi "umano".  Cosa rende l'Uomo tale una volta che si toglie dalla sua equazione esistenzialista il divino? Sebbene il feeling con Dostoevskij risalga alla sua esperienza giovanile nello sceneggiato televisivo "Fratelli Karamazov" la vera istanza di Orsini è la disquisizione sulla laicità della vita. Con molta intelligenza la regia è stata affidata ad un giovane professionista in piena sincronia con i suoi tempi anagrafici: i primi dieci minuti di spettacolo potrebbero passare per il prologo di un videogame tipo Resident Evil oppure per quelli di un buon triller horror. Potenza delle suggestioni audio visive messe al servizio della parola. L'atmosfera rarefatta e di difficile decifratura, luminescente e ossessiva come solo un neon difettoso può, restituisce allo spettatore il disagio di un essere in una scatola:  ciò che sarebbe stato dieci anni fa un finale postmoderno ne La leggenda del grande inquisitore diventa l'introduzione, non a caso. 
 
In scena c'è l'uomo privato della sua extra incarnazione, l'uomo de-adamizzato. Il metodo logico di Karl Popper riferito alla trascendenza. L'uomo senza prospettive verticali nè orizzontali. Presente oscillante in uno spazio minimal senza necessità di un percorso.  La riflessione diventa nel corpo dello spettacolo greve, non per tutti e affatto lineare.  I due attori sono encomiabili nella performance, il testo soffre invece di una prolissità senza punti di ristoro per l'uditorio. Uno spettacolo per il giovedi pomeriggio più che da finale di serata. 
 
Il finale regala ai nostalgici del monologo un saggio della bravura di Orsini il quale simulando una TED conference (le conferenze tenute da personaggi famosi nel mondo dove vengono espresse idee degne di essere diffuse in un tempo massimo di 18 minuti e che trovano il naturale sbocco sul Web)  restituisce lo scritto di Dostoevskij "asciugato" come lo stesso attore l'ha definito, preparando il pubblico all'uscita dalla trance dello spettacolo (per chi l'ha seguito). 
 
Nel complesso la scrittura della piece teatrale apre punti di discussione senza naturalmente risolverli, scava  nelle coscienze di chi è abituato all'insight e tramite un vocabolario accuratamente selezionato riesce a costruire una bolla culturale di circa novanta minuti. A ben vedere lo spettacolo ha un climax invertito rispetto ai canoni soliti della drammaturgia: inzia con un finale e termina con un esposizione tematica statica. Non ci rimane che applaudire l'esperimento di scrittura e considerare che l'appellativo di "attore pensante" dato a Orsini da Carmelo Bene calzi come un guanto. 
 
 
La leggenda del grande inquisitore da Fratelli Karamazov di Fëdor Michajlovič Dostoevskij 
Regia: Pietro Babina
Cast: Umberto Orsini E Leonardo Capuano
drammaturgia Pietro Babina, Leonardo Capuano, Umberto Orsini
scene Federico Babina, Pietro Babina
costumi Gianluca Sbicca
musiche Alberto Fiori
video effects Miguel Derrico
sound design Alessandro Saviozzi
scenotecnico Filippo Lezzi
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