GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Dicembre 2013 IV - Sogni, conferenze e autoscatti; padri, figli e... Peppa Pig

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6 gennaio, 2014 - 08:30
di Luca Ribolini

ESSERE GENITORI E' UN (BEL) VANTAGGIO
di Redazione, Noi – Genitori e Figli, dicembre 2013

Oggi la condizione di genitore è associata a termini come “fatica”, “problema” se non addirittura “peso”. La prospettiva di Luigi Campagner nel suo Figli! O del vantaggio di essere genitori. Incontri e dialoghi di uno psicoanalista con padri e madri a loro volta figli (edizioni Lindau), ribalta proprio questa concezione e lo fa attingendo all’esperienza dell’autore che, da psicoanalista, ha incontrato padri e madri che, a loro volta, sono stati anche figli.  A partire da questa esperienza comune a tutti, Campagner ripercorre i tratti salienti del rapporto tra genitori e figli, che passa anche dalla cura della relazione tra marito e moglie, che, scrive l’autore, «rientra a pieno titolo nell’attenzione che i figli meritano». Anche continuare a «fare la corte» al proprio coniuge fa quindi parte del vantaggio dell’essere genitore. Un vantaggio «concreto e reale», annota la psicologa Sara Bestetti nella prefazione. Il vantaggio di essere genitore è, in definitiva, quello di «essere in rapporto con un figlio». Con colui che «se ascoltato» porta l’adulto a interrogarsi sulla propria vita.

PSICOPATOLOGIA DA CONFERENZA
di Marco Rossari, ilsole24ore.com, 22 dicembre 2013
 
Nel 1972, durante una conferenza all’università di Louvain (o Lovanio), in Belgio, il celebre psicoanalista Jacques Lacan venne interrotto all’improvviso da un giovane contestatore. Il ragazzo fece irruzione nell’aula, come un perturbante in carne e ossa, e iniziò a cospargere la scrivania del filosofo di acqua e farina. Mentre lo scapigliato abbozzava uno strambo discorso genericamente contestatario, infarcito di Guy Debord e «nella misura in cui» (più i secondi), Lacan non fece una piega e lo invitò anzi a continuare, proseguendo a fumare incuriosito e chiarendo plasticamente a tutti gli astanti il significato del termine francese “aplomb”. Alla lunga la ribalta annichilì il giovane nichilista il quale a un tratto, annaspando nel vuoto oratorio che s’era guadagnato, si vide costretto a un nuovo coup de théâtre e, passando alle maniere forti, cercò di rovesciare la farina in testa a Lacan. Solo allora, come recitano le didascalie, lo portarono via.
Il siparietto è comparso in Rete grazie ai sublimi pescatori di perle che curano il sito di Open Culture e racconta molto del rapporto tra palco e pubblico, tra oratore e spettatori, tra passivo-aggressivi e passivo-aggressivi. L’aneddotica riguardo i matti da presentazione è ricchissima anche per chi non ha mai parlato da uno scranno tanto illustre. Anzi, forse extra cathedra lo è anche di più. Più modesto il pulpito (e quello dell’editoria, dei minifestival, delle piccole librerie è certo a portata di mano), più grottesco sarà il disturbatore o troll o heckler o semplice schiantato che non sa come occupare il pomeriggio. È una scena familiare a chiunque abbia calcato un podio minore, un palco improvvisato. Uomini e donne che hanno scambiato il tuo angolino per l’angolino declamatorio di Hyde Park affollano le librerie, le biblioteche, le aule convegno, insomma i luoghi in cui dovrebbe essere conservato il senno, un po’ come gli zombi consumisti che deambulavano intorno alle inutili merci del super.
Nella mia breve esperienza c’è stato quello che spostava la conversazione da un romanzo giovanilista al suo interesse per le rune celtiche, quello che dopo un’ora di conversazione intorno alla biografia di Bruce Springsteen ha alzato la mano e chiesto di fare un discorso intorno a Mina e quello che girava per tutta Milano scattando una fotografia a ogni giovane scrivente, tanto compiaciuto da quell’attenzione insperata da non figurarsi la futura irruzione della Scientifica nella cameretta tappezzata di foto con luce intermittente che fa bzz e regia di David Fincher.
«Guarda: il premio Calvino», disse l’anatomopatologo. «Che fine orrenda». Una volta fui invitato a leggere in un baraccio e uno del pubblico, terminato quel braccio di ferro contro il rumore di fondo delle bicchierate che passa sotto il nome ingannevole di “reading”, chiese se poteva farmi sentire alcune sue canzoni: senza aspettare una risposta, montò su una sedia e si mise a sbraitare brani heavy-metal a tema pornografico, tutto a cappella. Strano a dirsi, gli Iron Maiden in salsa pecoreccia svuotarono il locale. Alla fine del concerto, sudato come Bruce Dickinson, il Poeta – mon semblable, mon frère tua sorella – venne da me e mi domandò se doveva preoccuparsi per alcuni ragazzi a un tavolino che l’avevano guardato ridendo: non gli avrebbero rubato il frutto dell’ingegno? Feci del mio meglio per rassicurarlo e, quando mi chiese il numero di telefono, rimasi così spiazzato da non riuscire a negarlo. «Sai, tra poeti…». Per correre ai ripari, chiesi il suo e lo segnai sotto “Non farlo” onde evitare l’improvvida risposta. Se io non ero Lacan, lui non aveva letto Debord.
Tutti episodi realmente accaduti che assomigliano all’arcinota carrellata di sciroccati tipica da film in cui al protagonista tocca fare un provino e lasciare irrompere la varietà del mondo e dell’immondo in una stanza. Eppure la cosa più singolare, vista la cornice prestigiosa, mi è accaduta lo scorso luglio a Venezia Jazz, quando sono stato invitato alla Fondazione Querini Stampalia per una lettura con accompagnamento musicale. Era una giornata di afa opprimente, che aveva trasformato tutti in scontatissimi Aschenbach con l’ascella pezzata al posto del cerone e le imprecazioni dei turisti invece di Mahler. Insomma, quel clima opprimente in grado di fare svalvolare anche chi matto non è, fatto sta che a metà lettura di un racconto che sbertucciava il fantasma di Jack Kerouac ho percepito del trambusto nel buio della sala e mi sono accorto che un mattocchio aveva fatto irruzione. Spingeva, voleva salire sul palco, gridava cose senza senso. Il bibliotecario si era fatto le ossa sugli incunaboli del Petrarca e non in una discoteca di Jesolo, quindi come buttafuori non valeva granché. Inoltre perché cacciarlo? Con un po’ di buona volontà sono riusciti a farlo sedere. Da lì, per tutto il reading, l’ho sentito scalpitare: un grido in cerca di una bocca, come si autodefinì Hubert Selby Jr. a Lou Reed in una vecchia intervista. A un tratto dall’oscurità, come se a scagliarla fosse stata proprio la mano fantasma di Kerouac, è apparsa in volo una copia dei Vagabondi del Dharma, approdata ai miei piedi con un tonfo. Tale era la vibrazione che quando ho finito il racconto, l’ho invitato a salire sul palco. Lui s’è messo al microfono. Aveva un ghigno feroce, i capelli lunghi e una postura vagamente alla Jim Morrison. Più tardi avrei scoperto che in curriculum aveva una sedia buttata in un canale durante una presentazione all’aperto (e si sa: dove si cominciano a buttare le sedie…), ma lì sembrava disgraziato e innocuo come tanti. Ha letto qualche sua poesia con una bella voce e mi è sembrato molto dignitoso, anche se alla fine, scemato l’applauso condiscendente del pubblico, nei suoi occhi ho letto il vuoto. «Tutto qui?», sembrava chiedere. La faccenda singolare è che a quel punto mi è venuto l’impulso irresistibile di lanciare un libro.

(Il video citato e l'intero intervento di Lacan sono disponibili qui sotto. L.R.)
 
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-12-22/psicopatologia-conferenza-161139.shtml?uuid=ABWg1cl#comments

PERCHÉ TUTTO “CONGIURA” CONTRO I PADRI?
di Michele Faldi, ilsussidiario.net, 22 dicembre 2013

 
Probabilmente è da quando, nella seconda metà dell’Ottocento, Ivan Turgenev scrisse Padri e figli che non si assiste a un periodo così particolarmente propizio per riflettere o raccontare intorno alle relazioni genitori-figli, sui problemi che ne nascono, sulle difficoltà che generano, sulle domande che sorgono e necessitano risposte. Lo scrittore russo voleva documentare, attraverso le storie incrociate di rapporti tra genitori e figli, come le nuove idee rivoluzionarie e nichiliste in arrivo dall’Europa “illuminata” si facevano largo nella società russa ed erano destinate a trionfare nella mentalità dei più. A causa di questo romanzo taluni l’hanno ritenuto un profeta e, forse, non si sono sbagliati; mai come in questi ultimi anni, infatti, si palesano sotto gli occhi di tutti gli esiti di questo pensiero che – come malattia mortale sotto le spoglie di gaia sicurezza – ha portato a rompere nessi, fili e trame dei rapporti tra i giovani e chi li ha generati.
Gli effetti si vedono negli adolescenti, nei figli, ma anche nelle madri e nei padri, nei genitori: non è solo un cambiamento di comportamenti, arriva a modificare le concezioni e, è storia di questi mesi, anche le normative e le legislazioni.
Per personale esperienza lo osservo in un ambiente – l’università – dove fino a qualche anno i genitori erano un “target” sconosciuto, arrivavano solo il giorno della laurea; oggi non solo riempiono le aule durante gli “open day”, ponendo domande al posto dei figli sul futuro dei figli, ma si stanno sostituendo a loro in quello che ai figli compete: affacciarsi alla realtà adulta in un processo continuo di apprendimento, che diventa anche professionale, ma che è soprattutto umano ed esistenziale.
Che uomini saranno quei figli che non sono trattati da figli adulti, ma da bambini incapaci? Con che statura umana, con che personalità affronteranno domani le difficoltà della vita se oggi hanno degli “avatar” che le affrontano al loro posto?
Tra i molti libri, dunque, che si sottopongono al vaglio dei lettori, non dovrà passare inosservato questo agile volume di Luigi Campagner (Figli! O Del vantaggio di essere genitori, Lindau, 2013). Per alcune buone ragioni.
Innanzitutto l’autore: oltre ad essere padre (e ciò non guasta quando si parla di genitorialità), è psicanalista, formatore e consulente di scuole e comunità di accoglienza; questo lo rende “autorevole” nella sua esperienza personale che viene a piene mani elargita lungo le pagine.
In secondo luogo lo stile, che deriva da quanto detto sopra: esperienze e scoperte fatte e comunicate con un’attenzione a non sostituirsi al lettore, ma tese a coinvolgerlo; non istruzioni per l’uso, ma – parola spesso usata dall’autore – una proposta di lavoro personale.
Da ultimo il contenuto (che non voglio completamente svelare): è affrontato il tema del rapporto con i figli con uno sguardo portato dal dark side, dalla parte nascosta, dalla parte che normalmente è esclusa, quella dei figli appunto, ma con l’implicazione esplicita di essere “a vantaggio” (bella e misconosciuta parola) dei “patres“, lemma che accomunava in latino − e ancor oggi in spagnolo come giustamente sottolinea l’autore − l’unità di madre e di padre, relazione vivente e sana per l’educazione dei figli.
Già, educazione. Di questo si tratta nel libro, ma senza saccenza, piuttosto con kierkegaardiani timore e tremore. Desiderio, pensiero, soddisfazione, sfida, giudizio diventano, così, a poco a poco gli strumenti che un genitore si trova tra le mani in sé o scoprendole nei figli; e l’educazione diventa avventura.
Tornano alla mente le parole del grande Péguy: “C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno. È il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri, non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. [….] Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti, l’accadere, la società, tutto il congegno automatico delle leggi economiche. […] Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. […] È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, di sapere in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale decadenza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui sono, di cui si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili [….] Quindi per  loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indifferente. Soffrono di  tutto. Soffrono dappertutto”. (C. Péguy, Véronique o Dialogo della storia e dell’anima carnale).
 
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/12/22/SCUOLA-Perche-tutto-congiura-contro-i-padri-/454289/

I SOGNI DEI BAMBINI GENERANO ARTE. L’artista Queenie Liao si ispira al mondo onirico dei bimbi per la serie di scatti dal titolo Wengenn in Wonderland
di Giorgia Garbuggio (Nexta), lastampa.it, 27 dicembre 2013

Secondo Freud i bambini sognano fin da piccolissimi: il padre della psicoanalisi infatti attribuisce all’attività onirica infantile un importante ruolo biologico e psicologico nel normale sviluppo del bambino stesso.
Ma cosa sognano esattamente i più piccoli? Nessuno finora l’ha scoperto, anche se la fotografa Queenie Liao ha deciso bene di dare una sua personalissima interpretazione, arrivando a realizzare vere e proprie fiabe visive.
Grazie all’aiuto (inconsapevole) del suo terzogenito, Wengenn, l’artista americana ha ideato una raccolta di oltre 100 fotografie creative che raffigurano l’esplorazione fiabesca di suo figlio nella magica terra dei sogni. Combinando così arte e fantasia con la fotografia, Queenie ha realizzato la collezione “Wengenn in Wonderland”, un album in cui stoffe, maglie, fili di lana, ma anche padelle, giocattoli, orsacchiotti, foulard e fazzoletti danno vita a paesaggi coloratissimi e divertenti.
Artista free-lance e madre di tre ragazzi, Liao si è ispirata alla creatività di Anne Geddes: “La fotografia è sempre stato il mio hobby – ha raccontato la fotografa – In un primo momento il mio interesse erano gli scenari naturali, ma dopo la nascita del mio primo figlio, nel 2002 , la mia attenzione si è spostata sul mio prezioso bambino. Dopo che Wengenn si addormentava, io lo mettevo al centro del tema che avevo creato e iniziavo a scattare le foto”.

http://www.lastampa.it/2013/12/27/cultura/arte/i-sogni-dei-bambini-generano-arte-fIKauAlxTi2faQctiKssLL/pagina.html

FLORIAN ILLIES RACCONTA L’INCREDIBILE ANNO 1913
di Giuseppe Talarico, opinione.it, 28 dicembre 2013

 
Lo studioso e storico dell’arte tedesco Florian Ilies è autore di un libro singolare, intitolato 1913, l’anno prima della tempesta (edizioni Marsilio), che è divenuto un caso internazionale nel panorama della cultura del nostro tempo. Infatti, con una forma letteraria inconsueta e una struttura narrativa particolare, il libro, diviso in dodici capitoli corrispondenti ai mesi dell’anno di cui si parla diffusamente, descrive quanto accade in quel periodo ricco di fermenti intellettuali che precedette l’inizio della Prima guerra mondiale. Nel primo capitolo del libro, Illies ricorda come nel mese di gennaio del 1913 dal Louvre di Parigi scomparve la Gioconda di Leonardo da Vinci. Subito dopo evoca la celebre definizione che Franz Kafka diede del secolo appena iniziato, designandolo con un’efficace espressione: il tempo della nevrastenia. Kafka, che ha già concepito e scritto alcuni dei suoi capolavori come La metamorfosi, è interiormente tormentato e scrive lettere d’amore struggenti e melanconiche a Felice Baur, la donna di cui è innamorato e che non riuscirà mai a sposare.
Nel libro il lettore viene colpito e rimane incantato dal modo straordinario e sorprendente con cui l’autore mostra quanti talenti artistici e intellettuali nel 1913, prima dell’inizio della guerra, erano impegnati a dare forma alle loro opere nel campo della letteratura, della pittura, della scienza, della musica e della cultura in generale. Un periodo di grande creatività artistica nel quale nessuno presagiva l’imminenza della catastrofe. In quell’anno fatale e importante Freud è impegnato a completare la stesura del suo libro Totem e tabù e ad elaborare la dottrina del parricidio, mentre il suo rapporto di collaborazione professionale con Carl Gustav Jung si incrina in modo definitivo. Oswald Spengler, che è rimasto turbato dopo che è avvenuto il naufragio e l’affondamento del Titanic, scrive il suo famoso libro Il Tramonto dell’Occidente, poiché constata che la cultura che ha prodotto tanta bellezza e profondità di pensiero è avviata ineluttabilmente verso il declino.
Max Weber, il padre della Sociologia moderna, mentre individua le categorie di pensiero per comprendere la modernità, in questo anno ha una intuizione che riassume nella formula “Il disincantamento del mondo”, per indicare come con il progresso tecnico e scientifico l’umanità sia destinata a superare l’epoca della magia e ad assistere al trionfo del processo di razionalizzazione. Adolf Hitler, escluso dall’Accademia di belle arti di Vienna, vive da uomo povero nel dormitorio pubblico e dipinge acquarelli nel tentativo di affermarsi come pittore. In seguito si trasferisce a Monaco. Nello stesso anno Iosif Stalin è a Vienna, esiliato dalla sua patria, ed è impegnato a scrivere il suo saggio su il marxismo e la questione nazionale. Senza conoscersi, come racconta Illies nel libro, sia Stalin che Hitler passeggiano a Vienna nel parco di Schonbrunn, sfiorandosi. Il grande pittore Franz Marc, mentre si inaspriscono nei Balcani le tensioni tra la Serbia e la Bulgaria intorno alla Macedonia, realizza un quadro memorabile intitolato I lupi.
In quell’anno è molto seguito il magistero della studiosa dell’arte Meier Graefe, autrice di un saggio in cui delinea la evoluzione della pittura moderna. Infatti nascerà la corrente del Meir-Graefismo, per indicare la predilezione verso l’arte impressionista e francese. Per questa studiosa i pilastri della pittura moderna sono costituiti dall’opera di autori quali Degas, Cézanne, Manet, Renoir. Non bisogna dimenticare che, mentre con l’opera di Picasso nasce e si impone la corrente del cubismo sintetico, nel 1913 si ha lo scioglimento del gruppo di artisti riuniti nella corrente del Ponte, fatto che genera una divisione tra i pittori espressionisti e quelli impressionisti. Nei suoi meravigliosi disegni George Grosz ritrae la desolazione della metropoli moderna, divisa dal contrasto tra la ricchezza e la povertà e mostra con rara profondità la solitudine dell’uomo nella dimensione della città in cui a dominare è l’indifferenza e l’insensibilità umana, fredda ed ostile.
Nel libro figura un ritratto indimenticabile del grande pittore Oskar Kokoschka che si era innamorato perdutamente di Alma Mahler, la donna rimasta vedova dopo la morte del marito, grande compositore. Kokoschka, pur di conquistarla, realizzerà in un grande quadro il suo memorabile ritratto intitolandolo La Sposa del vento, per dimostrare quanto sia vana e illusoria la pretesa di un uomo di possedere una donna per sempre, che per sua natura è inafferrabile e sfuggente come il vento. Kokoschka alla fine sarà abbandonato da Alma Mahler, che comunque continuerà ad amare fino ai suoi ultimi giorni di vita. Il 1913 è l’anno in cui Giorgio De Chirico dipinge il suo celebre quadro Piazza d’Italia, con cui assume una forma compiuta e viene a maturazione la sua pittura metafisica, destinata ad influenzare la cultura moderna. Per capire come la psicoanalisi nel primo Novecento sia stata capace di rinnovare la letteratura, è utile e necessario cogliere le analogie tra l’opera di Freud e quella letteraria di Arthur Schnitzler, autore del celebre libro Doppio sogno.
Anche Stravinskij con la rappresentazione del dramma Le Sacre Du Printemps al Theatre des Champs Élisées realizza la rivoluzione dodecacofonica nel campo della musica. Sono indimenticabili nel libro le pagine che rievocano l’anno difficile vissuto a Trieste da James Joyce, che per vivere era costretto ad impartire lezioni d’inglese. Proprio nel 1913, Ezra Pound, avendo compreso la genialità dello scrittore irlandese, lo invita a collaborare alla sua rivista. Joyce, grazie alla sollecitazione del grande poeta Pound, riprende a scrivere e completa i suoi due famosi libri: Il ritratto da giovane dell’artista ed “I racconti di Dublino”. Nel libro è bello e memorabile il racconto della fuga di Ernst Junger, destinato in futuro a divenire un grande scrittore e pensatore che, appena adolescente, dopo avere letto alcuni libri di avventura, fugge dalla sua famiglia e raggiunge l’Africa. Qui viene fatto prigioniero, e dopo un provvidenziale intervento del padre rientra nella sua famiglia. Il 1913 è l’anno in cui viene pubblicato il primo libro della grande opera letteraria di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto, un’opera che avrà un peso enorme nella cultura della avanguardia del XX secolo.

http://www.opinione.it/cultura/2013/12/28/talarico_cultura-28-12.aspx

E SE LE LENTICCHIE PORTASSERO IELLA?
di Karen Rubini, ilgiornale.it, 28 dicembre 2013
 
Meno tre a Capodanno, giorno magico di transizione. Dalla sera del 31 saremo alle prese con i soliti rituali scaramantici per assicurarci che l’anno che verrà sia migliore di quello che ci lasceremo alle spalle. Cucineremo lenticchie, simbolo di abbondanza e denaro, mangeremo 12 acini d’uva, consumeremo 7 tipi di frutta secca per esprimere buoni propositi. Cibi propiziatori. Alle ventiquattro in punto stapperemo spumante perché il botto servirà a tenere lontano il malocchio e gli spiriti maligni. Se invece sentiremo il bisogno di liberarci della tristezza potremo gettare dalla finestra un oggetto simbolico che la rappresenti. È scaramanzia, una forma di superstizione che consiste nel ritenere che frasi pronunciate, gesti o oggetti-feticcio possano attirare la fortuna o allontanare la sfortuna, anche se tra il repertorio scaramantico e gli eventi negativi temuti non esiste alcun nesso causale.
State pensando che questo discorso vi porterà iella? E allora siete molto superstiziosi. E se siete anche tra quelli che inventano riti scaramantici personalizzati e leggendo l’articolo per scongiurare la malasorte state toccando ripetutamente il vostro oggetto-feticcio potreste soffrire di un disturbo d’ansia ossessivo-compulsivo da superstizione eccessiva, dove l’ansia collegata a idee o credenze irrazionali e superstiziose si placa soltanto attraverso un rituale «anti-iella». E se durante la preparazione del classico cenone dovesse cadervi dalle mani la bottiglia dell’olio che farete? Un rito scaramantico adatto all’occasione potrebbe essere quello di sparare il triplo dei petardi consumati durante il capodanno precedente oppure procedere alla pulizia accurata del pavimento per poi gettare dalla finestra il liquido raccolto insieme alla possibile malasorte. Nell’opera Psicopatologia della vita quotidiana Sigmund Freud definisce la superstizione come un’attesa di disgrazia. Lo psicoanalista spiegò che la superstizione nasce da sentimenti repressi, ostili e crudeli, che abbiamo rigettato nell’inconscio per buona educazione ricevuta. Quando inconsciamente desideriamo qualcosa che riteniamo deplorevole, ad esempio il male di qualcuno, finiamo per aspettarci una punizione e cercheremo di evitarla con riti preventivi e riparatori, ovviamente inutili. Perché pensare non è peccato.  E così se non abbiamo fatto, agendo, del male a nessuno, evitiamo di fargliene gettandogli sulla testa la lavatrice rotta mentre passa sotto la nostra finestra o ferendolo con petardi illegali perché, oltre ad essere inutile, sarebbe davvero dannoso.
karenrubin67@hotmail.com

http://www.ilgiornale.it/news/interni/e-se-lenticchie-portassero-iella-978867.html
 
 
L’ANSIA DI RIEMPIRE IL VUOTO INTERIORE. Dietro questo fenomeno si nasconde un rischio il sentimento di non avere una personalità vera
di Massimo Recalcati, 29 dicembre 2013
 
In un film che ha fatto epoca titolato Zelig (1983), Woody Allen ha raccontato con la sua indubbia maestria tragica e ironica la patologia di un uomo che doveva assimilarsi all’ambiente e ai personaggi che frequentava per dare valore alla sua vita. Questa caricatura del soggetto- camaleonte impegnato in continui trasformismi per ridurre il suo senso di profonda estraneità trova un corrispettivo clinico preciso in una patologia che la psicoanalisi degli anni Cinquanta aveva definito con il termine di “personalità come se” (as if) (Helene Deutsch). Di cosa si trattava? Un soggetto senza mondo interiore, vuoto, staccato dall’energia vitale del suo desiderio, privo di un senso proprio dell’identità, poteva trovare una identità posticcia solo identificandosi a chi lo circondava, vivendo conformisticamente come fanno gli altri, adottando una maschera sociale rigida per colmare quel senso inestinguibile di superfluità che portava con sé. In questo caso la patologia mentale non consisteva più in una deviazione dalla norma, in una frattura con l’ordine costituito delle cose (come accadeva nella follia delirante studiata da Michel Foucault e da Franco Basaglia), ma in un eccesso di adattamento alla realtà, in una esasperata assimilazione alla normalità. In tutti questi nuovi quadri clinici in gioco sarebbe una patologia narcisistica con un fondo depressivo: il soggetto che sente di non avere alcun valore in sé (depressione) cerca di recuperarlo identificandosi a figure ideali che gli consentirebbero di edificare un Io più amabile (narcisismo). Ecco allora la ragione delle metamorfosi infinite di Zelig, che come un camaleonte cambia continuamente pelle. Di volta in volta, egli è un artista, un medico, un suonatore di jazz nero, uno psicoanalista….
Una versione aggiornata ai nuovi social network della figura di Zelig si può forse trovare nei cosiddetti “Selfie”, ovvero in coloro che tendono a fotografarsi di fianco a personaggi illustri o meno e in circostanze pubbliche di particolare valore storico o cronachistico, ma anche a riprodurre pubblicamente, grazie a Internet, i momenti più privati della loro vita per poi esibire a un loro pubblico questa specie di reliquia post-moderna. Tutto avviene “come se”: per un verso, i nuovi Zelig si autoriproducono con una solerzia incessante riducendo illusoriamente la distanza che li separa dal nome del personaggio o dall’evento ritratto come se facessero parte della loro vita; per un altro verso, provano a innalzare l’ordinarietà della loro stessa vita come se fosse il senso del mondo facendo degli spettatori una sorta di suo specchio ideale. Se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché essa porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico prevalente delle personalità come se: la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita.
Di nuovo troviamo al centro il binomio depressione-narcisismo che è, a mio giudizio, un binomio decisivo per intendere più in generale le mutazioni antropologiche del nostro tempo. La nostra immagine è tristemente vuota (gli ideali collettivi e soggettivi sono evaporati) e può essere riempita solo grazie al cemento narcisistico offerto da un valore aggiunto: il personaggio famoso, l’evento imperdibile, l’uso della vetrina di Facebook, la moltiplicazione anonima delle amicizie, ma anche la pura esibizione della propria persona di fronte al pubblico anonimo dei social network.
La dimensione autoreferenziale di questo foraggiamento narcisistico di un soggetto in realtà tristemente vuoto è evidente, già tutto contenuto nella parola “autoscatto”. Non si fotografa più il mondo, ma il mondo serve come sfondo per una iniezione narcisistica a un soggetto che si vive come insignificante. Non si tratta di psichiatrizzare una pratica che oggi ha assunto il carattere di una epidemia virale e che coinvolge anche figure come quella del Presidente degli Stati Uniti. Ma è indubbio che in molte di queste fotografie vediamo emergere un profondo senso di tristezza. È quella stessa sensazione che circonda la vita del povero Zelig di Woody Allen. Sotto la maschera non c’è niente: apparire prende il posto dell’essere rivelandoci che l’essere che esso ricopre è una realtà inconsistente. Esibire la propria vita non perché essa assume il valore universale di una testimonianza – è questo il punto di scaturigine di ogni opera d’arte –, ma perché senza questa esibizione essa correrebbe il rischio di non esistere, di essere solamente un’ombra senza vita. Il contrario siderale di quella “capacità di stare soli” con la quale Winnicott definiva la condizione minima della salute mentale.
 
http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2013/12/29/domenica-28-dicembre-2013-repubblica/
 
 
PEPPA PIG /1  ECCO UN ALTRO PAPÀ PASTICCIONE. CHE DELEGA TUTTO ALLA MAMMA
di Paolo Di Stefano, 27esimaora.corriere.it, 29 dicembre 2013
 
La letteratura — scientifica, autobiografica e creativa — sulla paternità è un fiume in piena. A dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che è la figura paterna, evanescente e antiautoritaria, l’anello debole della famiglia (e probabilmente della società). Come insegna Massimo Recalcati, Telemaco dovrà aspettare un bel po’ prima che Ulisse si rifaccia vivo per trasmettergli la sua testimonianza di vita come eredità a futura memoria per una crescita consapevole e armonica. Ma prima del futuro c’è il presente. Nel presente dei bambini, diciamo fra i tre e i sette anni, c’è per esempio un simpatico cartone animato britannico che trionfa ovunque. «Peppa Pig» racconta le minime avventure quotidiane di una famigliola di maiali che vive sul cucuzzolo di una montagnetta: Papà Pig, svagato e sovrappeso, la diligente Mamma Pig, il piccolo e timido George (2 anni) e la sorella maggiore, Peppa (4), vivace e a volte dispettosa. Una famiglia modello, in cui i piccoli ostacoli della vita vengono sempre superati in piena concordia e (soprattutto) in allegria.
Ci sono poi due nonni e diversi amici impersonati da altri animali antropomorfi (conigli, volpi, canguri…), che abitano nei dintorni. Mamma Pig non è solo una casalinga provetta, ma è occupata anche in imprecisato telelavoro al computer, portatrice di buonsenso e regole da rispettare, ma anche del sapere tecnologico. Papà Pig non sa cosa sia il digitale, lo si vede pochissimo al lavoro, ma si intuisce che è un impiegato vecchia maniera. A differenza di Nonno Pig, che è perfettamente radicato nella cultura fordista fino a essere un esperto di macchine e motori, Papà Pig non sa neanche piantare un chiodo al muro. E quando vi si dedica, combina disastri sotto gli occhi divertiti dei bambini e fortunatamente all’insaputa della moglie, che si è allontanata. È l’esemplare del padre delegante (alla donna) anche in fatto di educazione: imbranato, affettuoso e giocherellone, non ne combina una giusta, ama saltare nelle pozzanghere come i due figli. I quali non trovano di meglio che ridere bonariamente al cospetto di tante imperizie.
«Peppa Pig» è lo specchio esatto, semplificato all’osso, degli equilibri familiari del nostro tempo. Ed è forse qui la ragione del suo successo. Una fenomenologia che nella vita produce spesso risultati nefasti, squilibri, nevrosi, sul piccolo schermo si risolve nel lieto fine e nella gioia di rotolarsi, tutti insieme, nel fango.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/peppa-pig-1-ecco-un-altro-papa-pasticcioneche-delega-tutto-alla-mamma/
 
 
PEPPA PIG /3  LO GUARDO DA NONNA. SONO GENI DELLA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA
di Redazione, 27esimaora.corriere.it, 29 dicembre 2013
 
«Sono tre geni della scoperta dell’acqua calda». Così in tono lieve e spiritoso, la dottoressa Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta per i problemi dell’infanzia, della famiglia e della scuola, definisce Phil Davies, Mark Beker, Neville Astley, inventori del cartoon Peppa Pig. Vegetti Finzi conosce il fenomeno che ha conquistato i bambini di tutto il mondo anche in qualità di nonna di una nipotina di due anni. «La grafica non è bellissima — dice — ma piace perché vengono rappresentate situazioni quotidiane in cui i bambini si riconoscono, vedono realtà che loro sperimentano ogni giorno, dall’asilo alle feste di compleanno, e poi si rispecchiano nella famiglia, comune a molti bimbi: mamma, papà, due figli, nonni , parenti e amici». Vegetti Finzi sottolinea poi altri due aspetti più profondi che toccano le corde dei bambini. Il primo: «Tutto quel che vedono corrisponde al loro semplice vocabolario e così sono in grado fin dai due anni di commentare gli episodi e spiegarli ai genitori». Il secondo che nasconde «una conoscenza della psicologia infantile» da parte di chi ha inventato il cartone: «Peppa anche di profilo ha due occhi. E i bambini piccoli riconoscono la faccia proprio dagli occhi. Quindi il fatto che Peppa abbia gli occhi anche sul profilo rende tutto più facile ai piccoli». Insomma, «non c’è mai nulla di casuale in queste cose».

http://27esimaora.corriere.it/articolo/peppa-pig-3-lo-guardo-da-nonna-sono-geni-della-scoperta-dellacqua-calda/

SCHNITZLER SCHIAVO FELICE DEI SUOI SOGNI IN LIBERTÀ
di Leonardo Arena, ilgiornale.it, 31 dicembre 2013
 
Sogni 1875-1931 di Arthur Schnitzler (Il Saggiatore, pagg. 473, euro 38) è il diario onirico dello scrittore viennese, nonché un prontuario per memorizzare i propri sogni, stimolandone la produzione, nella cornice di una psicologia dinamica che, con e contro Freud, pone al centro dell’indagine non più l’inconscio, bensì la coscienza intermedia (Mittelbewusstsein).
Il tema era stato affrontato nel racconto o romanzo breve Doppio sogno dello stesso autore. Schnitzler, il quale ammira e osteggia Freud, sonda una facoltà umana che la psicoanalisi avrebbe sottovalutato. Se ne veda un esempio in Eyes Wide Shut, lascito spirituale di Kubrick e trasposizione filmica del romanzo, con la fantasia del ballo, rito iniziatico per un Tom Cruise attonito, incline a sbrogliare il problema dell’identità tra i sessi. Anche se indefinibile, se ne può dire che tale funzione costituisca la più ampia zona della vita psichica e spirituale, dalla quale le idee e le rappresentazioni mentali o salgono costantemente alla coscienza o sprofondano nell’inconscio. Nel Diario di Schnitzler dipende da tale funzione l’apparizione della coscienza nel sogno, quando ci si chieda se si stia sognando o meno. Il sognatore si sente al sicuro, sa di non potersi muovere fisicamente e permette alla fantasia di volare in libertà – forse in altri mondi?
Freud non poté o non volle ammettere il carattere mistico di ciò che altre culture definirono «il sogno dentro al sogno» o il «sogno lucido», l’intrusione di una voce critica, che seguita a sognare. Deviando verso Jung, e contrastando Freud, lo scrittore è convinto che il sogno non sia un mascheramento. Lo si evince dalle sue ricostruzioni oniriche, dai commenti, talvolta scarni ma illuminanti, dai quali non solo lo psicoterapeuta prende ispirazione.
Schnitzler attinge a un materiale copioso, distribuito nell’arco di mezzo secolo; se ne intravede lo sviluppo interiore, la ripresa dei temi letterari che gli furono cari. Ai critici che lo accusano di monotonia è pronto a replicare: «Parlo sempre dello stesso, che altro c’è, tranne la vita e la morte?». In stato di dormiveglia, ipnagogico, la Madre, che è la sua e anche l’archetipo, lo solleva dai costanti pensieri di morte (29-3-1891). In altri sogni egli si vede nel sarcofago, assiste al suo funerale, e dormendo incontra i suoi cari scomparsi: una vera e propria ossessione per la morte, da cui ricaverà trame e sviluppi narrativi. La sua descrizione dei sogni cozza con la logica, è imbevuta di tutte le incertezze e metamorfosi oniriche, i personaggi si convertono l’uno nell’altro, come sottolinea Freud nell’Interpretazione dei sogni; il titolo tedesco dell’opera è più vicino a Schnitzler, dove Traumdeutung indica un accenno al mondo onirico, più che una spiegazione.
Schnitzler rimprovera Freud: misconoscere gli stati intermedi tra conscio e inconscio spinge a voler chiarire l’incodificabile, a illustrare tutto. Come si può delucidare il sogno dove lo scrittore si vede trasfigurato dalla morte (18-2-1892)? O la consapevolezza dell’ineluttabilità del decesso, che trapela in un altro alla fine dello stesso anno? Schnitzler si mette a nudo, pur sapendo che i suoi scritti saranno consegnati ai posteri e, più audace di Freud, che pure se lo permise, riferisce di sogni malvagi, sempre sogni dentro al sogno, malgrado l’ostinata voce della censura. O si abbandona a sogni premonitori, altri che rammentano eventi che durante il giorno ha trascurato, o che producono un dolore inenarrabile, «molto più forte di quello provato nella realtà». Schnitzler ci spinge a dubitare della differenza tra sonno e veglia, portandoci davanti alla domanda essenziale: «cos’è la realtà?», che s’impone a lui e a tutti noi che dormiamo.
La sua risposta è nota: «Il sogno diviene vita, la vita sogno» (22-1-1897). Il sogno può aiutarci a vivere, ma soprattutto a morire, a non separare di netto i due piani, ad accogliere la piccola morte, anticipazione del sonno finale. Schnitzler si compiace dei suoi incontri onirici con Goethe ed Eckermann. Vi appaga le proprie curiosità letterarie, e si accosta all’uomo primitivo che dormendo sospende il senso del tempo e dello spazio, come osservò Nietzsche. La Grande Vienna dell’inizio del Ventesimo secolo testimoniò uno spiccato interesse per il sogno. Il recupero della memoria di Schnitzler ci fornisce una visione onirica alternativa alle più diffuse psicologie dell’inconscio, Lacan incluso, una mitopoietica che potrebbe diffondersi, e caratterizzare anche il nostro secolo.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/schnitzler-schiavo-felice-dei-suoi-sogni-libert-979387.html
 
 
VIDEO

Il video di Open Culture:
http://www.openculture.com/2011/03/jacques_lacan_speaks_zizek_provides_free_cliffs_notes.html
L'intervento completo di Lacan:

 
 
Massimo Recalcati sull'autoscatto a RNews, 29 dicembre 2013

 

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