Se vi trovate in Giappone e un vostro vasellame, prezioso o affettivamente significativo si rompe, non temete, esiste il kintsugi, una tecnica di riparazione molto particolare che anziché nascondere le linee di frattura dell’oggetto con una incollaggio perfetto e coprente, segue tutt’altro criterio, le stesse linee le rimarca con una riparazione particolare: vengono usati oro o argento fuso che sottolineano il motivo frastagliato della lesione trasformando l’oggetto in una nuova opera, ma che non snatura la forma precedente, solo regala all’oggetto una cicatrice luminosa in più (vedi la foto).
Il principio del kintsugi appare evidentemente opposto a quello che anima tutti noi allorquando avviene una qualunque rottura: pena, dolore, colpa, vergogna, fallimento, rovina, angoscia, perdita, lutto.
La riparatrice kintsugi invece dice:
“La vita è integrità e rottura insieme. La tua zuccheriera ora ha una storia ed è più bella. Il dolore ti insegna che sei viva, il solco che lascia deve essere valorizzato” (http://www.larivistaintelligente.it/letterature/racconti/kintsugi-il-dolore-si-ripara-con-loro)
Mostrare orgogliosamente le cicatrici sembra una modalità proveniente da epoche passate, fa pensare a certi rituali d’iniziazione delle tribù precolte. Fa pensare alternativamente a forme autopunitive o a forme esibizionistiche. Fa pensare, ad esempio, alla fierezza con la quale gli aborigeni australiani mostrano ai giovani iniziati l’orribile cicatrice sul proprio pene (Géza Roheim, “Gli eterni del sogno”). Insomma roba d’altri tempi oramai seppellita nella nostra memoria collettiva e lì destinata a rimanere. Assieme a ciò che è destinato ad essere sepolto dal tempo rischiamo quindi di seppellire anche le nostre capacità reattive o meglio le nostre possibilità resilienti.
Oggi piuttosto vulnerabilità o fragilità personali, per non dire di problematiche di salute più serie e invalidanti, ci iscrivono d’ufficio nelle categorie dei “diversamente qualcosa”, ci escludono in automatico dal market delle opportunità e della vita vissuta. L’esilio da pratica sociale è diventata pratica mentale diffusa e introiettata.
Il kintsugi ci indica viceversa che ogni storia, anche la più travagliata, è fonte di bellezza e che ogni cicatrice è la cosa più preziosa che abbiamo.
Cosa c’entra la psicoterapia in questo discorso?
C’entra eccome. Non riesco a trovare metafora più precisa e pregnante del kintzugi per descrivere il lavoro che quotidianamente svolge uno psicoterapeuta con i suoi pazienti.
Lo psicoterapeuta però non è quasi mai colui che esercita direttamente il kintzugi, casomai è colui che lo rende possibile, che lo mostra, solo in alcuni momenti e situazioni lo esercita direttamente. Lo psicoterapeuta è il manuale vivente di kintzugi, colui che mostra l’accessibilità all’oro fuso. Il kintzugi è al tempo stesso pratica artigianale, ma rimane comunque il modello filosofico di riferimento sullo sfondo.
Il kintzugi non è solo metafora di ri-storificazione e valorizzazione dell’esperienza, nonché metafora di cambiamento non-catastrofico, ma è anche metafora di articolazione delle parti col tutto, di trasformazione creativa della vita a partire dalla perdita di alcuni frammenti che non possono più essere reintegrati, di accettazione positiva di tale trasformazione che concepisce l’identità mobile e continua allo stesso tempo.
La zuccheriera di prima non c’è più, ce n’è una nuova che ricorda molto la precedente, che è fatta al 90% della stessa materia, ma ricombinata in un modo differente a partire dalla caduta. La vera differenza sta nel fatto che questa nuova zuccheriera è però un’opera d’arte.
Il principio del kintsugi è
Il principio del kintsugi è uno dei modi in cui possiamo alludere alla metafora della ferita come cicatrice creativa. Del resto non occorre andare lontano per ritrovare il pensiero di Aldo Carotenuto, la ferita come feritoia che apre a comprensioni nuove, o il pensiero di James Hillman sulle ferite non più soltanto come lacerazioni da rimarginare, ma come
cave di sale dalle quali trarre la saggezza…Credo importante, al di là dell’immagine o metafora che scegliamo per propensione personale o storia, che il terapeuta mantenga sempre memoria attenta della propria ferita iniziale… per porsi nei confronti del paziente come il ‘guaritore ferito’ postulato da Guggenbul Craig. Grazie Luigi..!
Eh si, la ferita feritoia…
Eh si, la ferita feritoia… me la ricordo, una folgorazione a lezione nei lontani anni ’80. Ciao Simonetta.
Contribuire ai beni che si
Contribuire ai beni che si usano non è un’obbligo è un’oppotunità e un segno per me di civiltà.
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