GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Gennaio 2014 III - Sogni, memoria, passioni e depressione; Lacan: l'amore e gli "Altri scritti"

Share this
27 gennaio, 2014 - 21:54
di Luca Ribolini

“E ORA NESSUNO PENSI A INVENTARE UNA MEDICINA PER STARE SVEGLI”

di Alessandra Baduel, la Repubblica, 15 gennaio 2014
 
«Dormire significa rientrare in contatto con la parte più ricca e tumultuosa di noi, quella meno logica e regolare. Servirà anche a pulire, diciamo così, il cervello — e le ricerche in tal senso sono più che benvenute, se aiuteranno a combattere le malattie neurodegenerative, ma il bisogno di sonno non è solo bisogno di “rimettere in funzione” la macchina». Lo psichiatra Luigi Cancrini accoglie le nuove ricerche sulle funzioni cerebrali facendo scattare un campanello d’allarme.
Professore, che effetto le fa la certificazione di una vera e propria funzionalità, la “pulizia” dei metaboliti, del dormire?
«Sappiamo bene che uno dei modi più efficaci per far impazzire una persona, portandola ad alterazioni anche gravi, è quello di non farla dormire. Ora, parlare di pulizia mi sembra un modo di dire fin troppo semplice, come sempre troppo semplice mi è sembrato il voler trasferire scoperte fatte sugli animali all’uomo: abbiamo differenze individuali, fisiologiche e psicologiche, molto superiori a quelle che ci sono fra i singoli topi».
Si ipotizza anche di trovare un farmaco che “pulisca” il cervello mentre siamo svegli, rendendo superfluo il sonno.
«Mi sembra un’idea assurda. Come spiega Freud, nel sonno l’attività cerebrale continua ma non è governata dai centri superiori di controllo dell’Io. I filtri critici si abbassano e c’è libera circolazione delle emozioni allontanate nella veglia. Le persone rientrano in contatto con una parte di sé, quella spesso anche più creativa, che ognuno di noi ha dentro. È una condizione non solo felice, ma proprio indispensabile all’equilibrio umano».
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/01/15/ora-nessuno-pensi-inventare-una-medicina.html?ref=search
 

VERSI D’AMORE COSÌ PERFETTI. MA COSA CI DICONO FRA LE RIGHE? Saffo vibra di passione, Catullo oscilla verso l’odio, Battiato si propone come un salvatore: poeti e cantautori di ogni tempo idealizzano l’innamoramento. Ma la partita vera, ci illumina Shakespeare, si gioca sul piano della realtà. Una psicoanalista ci guida tra strofe e carmi. Svelandoci il loro significato più autentico

Intervista a Laura Pigozzi di Gaia Giorgetti, F, 15 gennaio 2014
 
L’amore ha mille volti. Quelli che hanno dipinto poeti e pensatori. Brividi e farfalle nello stomaco, come cantava Saffo. Oppure odio e passione, un tormento al quale non ci si riesce a sottrarre, così scriveva Catullo. E se l’amore fosse, come intonava Jacques Brel, l’essere pronti a tutto, fino ad annullarsi? Oppure avere cura di lui, essere le sue salvatrici? Lo dice Battiato in uno dei suoi brani più belli. No. L’amore è azione, non parole vuote, ci illumina Shakespeare. Ma perché è così difficile svelare questo segreto antico quanto il mondo: che cosa è davvero l’amore? Forse ha ragione Lacan, quando dice che è l’impossibilità di incontrarsi, un mistero, una nota dissonante che scatena una magia? In quale di questi autori ci riconosciamo? E se provassimo a leggere questo nostro sentimento, per capire come siamo e che cosa stiamo cercando? In fondo, scrutare dentro un segreto può riservare molte sorprese. Magari aiutarci a realizzare un sogno: farlo perdurare, questo nostro amore. Crescerlo, accudirlo, fin quando ne vale la pena. Forse per sempre. Più che la mente, ci serve l’anima o il nostro sentire. Rilassiamoci, emozioniamoci con poesie e canzoni. E poi leggiamo le interpretazioni della psicoanalista Laura Pigozzi che ci condurrà, fra versi e citazioni, nel profondo significato delle più felici intuizioni dei nostri Grandi.

La passione di Saffo
Appena ti vedo, subito non posso
più parlare: la lingua si spezza, un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano,
un sudore freddo mi pervade, un tremore
tutta mi scuote: sono più verde dell’erba; e poco lontana mi sento
dall’essere morta.
Ma tutto si può sopportare.

«L’amore, nell’Ode alla gelosia della poetessa greca, è associato alla morte perché la domanda d’amore è totale: non accetta un sentimento temperato, ma la passione, l’abisso, la fusione. Le donne sono particolarmente portate a vivere l’amore in questo modo totalizzante, salvifico, simbiotico. Esattamente come un neonato che, senza parole, chiede alla madre di fondersi con lui. Quando si vive questo tipo di sentimento, si regredisce all’infanzia, quasi per ristabilire l’illusione di quel paradiso perduto: con la madre non si è creata la fusione, con il nostro amore ciò avverrà. E, questa volta, sarà per sempre».

Il tormento di Catullo
Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile:
non so, ma è proprio così e mi tormento.

«La spinta emotiva del poeta romano del famoso Carme 85 Odi et amo è analoga a quella di Saffo. Quando nell’amore c’è anche l’odio, siamo ancora nella dimensione dell’abisso, del sentimento totale. Anzi, l’odio permette di amare anche quando non siamo corrisposte, perché ci lega con più forza e più a lungo: il sentimento non ha bisogno dell’altro ma si alimenta da solo. L’odio, dunque, è la pulsione d’amore lasciato libero. Ecco perché diventa un legame fortissimo, dove davvero si può raggiungere la totalità cui aspiriamo».

L’annullamento di Jacques Brel
Non mi lasciare
Io ti offro
delle perle di pioggia
venute da paesi
dove non piove (…)
Creerò un regno,
dove l’amore sarà re,
dove l’amore sarà legge,
dove tu sarai regina (…)
Lasciami diventare
l’ombra della tua ombra,
l’ombra della tua mano,
l’ombra del tuo cane
Non mi lasciare

«In Ne me quitte pas, il cantautore belga dice che se lei lo riprenderà, lui sarà come l’ombra del suo cane. L’amante è disposto ad annullarsi, pur di restare nelle braccia dell’amata. Questo è lo schema tipico della dipendenza e, ancora una volta, come nei versi di Saffo e Catullo, è la descrizione di un sentimento che esalta la morte: io non esisto, non ci sono più. Sono questi i legami, sempre più diffusi, che rendono una donna schiava del suo legame. La dipendenza è in gran parte la cifra della nostra società. Siamo dipendenti dal cibo, dalle droghe, da internet, dalla carriera, dall’ossessione del corpo, e anche dall’amore. Sono tutte forme narcisistiche che escludono il confronto con l’altro. Direi che la canzone di Brel è l’ode della dipendenza affettiva. E torna la metafora del bambino che vorrebbe morire, naufragare nelle braccia della madre, pur di non separarsi da lei. Brel vuole essere l’ombra di un cane. Dunque è disposto a morire».

La salvezza di Battiato
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, 
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. 
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, 
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. 
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, 
dalle ossessioni delle tue manie. 
Supererò le correnti gravitazionali, 
lo spazio e la luce per non farti invecchiare. 
E guarirai da tutte le malattie, 
perché sei un essere speciale, 
ed io, avrò cura di te. 

«Il testo della canzone La cura ci riporta nella fase dell’illusione: è necessaria all’amore, ma poi va superata. è evidente che nessuno può salvare l’altro. Nessuno è in grado di non farci invecchiare, di guarirci dalle malattie. Se l’amore dovesse fermarci a questo stadio, ognuna di noi avrebbe tutto il diritto di dire all’uomo che dichiara questo amore: “Perché, visto che me lo hai promesso, non mi salvi?”».

La consapevolezza di Shakespeare
Non t’ama chi amor ti dice,
m t’ama chi guarda e tace

«Ecco un passo avanti: le promesse di quell’innamorato salvatore nell’aforisma del Bardo vanno testate alla luce della vita quotidiana, guardando quello che l’altro fa. Le frasi d’amore come “ti amo”, “mi manchi”, “non so vivere senza di te” sono in realtà mantra, nenie, pianti di neonato. Shakespeare centra il problema: attenzione all’idealizzazione, ci dice. Non è pericoloso solo che lei idealizzi lui, ma anche che lui la veda come una principessa intoccabile. è il mito di Pigmalione che si era creato una statua da adorare. Gli uomini che ci vogliono secondo i loro ideali sacrificheranno le loro dee sull’altare, per farle proprie eternamente. Amare, invece, è riconoscere la diversità dell’altro e accettarla. Il contrario dell’idealizzazione».

La sintesi di Jacques Lacan
Amare è donare quel che non si ha
a qualcuno che non lo vuole

«La riflessione di Lacan, contenuta nel Seminario Libro VIII, arriva alla sintesi di ciò che abbiamo detto: se l’amore è un dono e io voglio donare salvezza, dono qualcosa che non ho. Allo stesso tempo, se ciò che dono risponde a quello che l’altro chiede, si annoda un amore sbagliato che si fonda sull’illusione. L’amore, invece, è quando ci si lega per qualcosa che non si sa dire, a partire dall’odore del corpo. L’amore non è mai perfetto, prevede improvvisazione, dissonanze: assomiglia a una musica jazz, dove ciò che funziona è anche l’accordo strampalato. L’amore suona note blues».

Conclusioni
«Amare davvero e far durare l’amore è un lavoro. Lentamente, si cede un po’ di illusione in cambio di continuità, stabilità. L’amore, infatti, vede la compresenza di tre aspetti: immaginario, reale e simbolico. Nel primo esiste l’illusione: nessuno potrebbe innamorarsi senza. Nel piano del reale, entrano aspetti corporei: ci piace il suo odore, come si muove. Qui si gioca la partita vera. E, difatti, quando non si ama più, ci accorgiamo subito che il suo profumo non è così afrodisiaco. L’ultimo registro è quello simbolico, quando si stringe un patto, che è la regolamentazione, la fase nella quale si calmano le pretese illusorie e si ama accettando l’altro».
 
http://www.cairoeditore.it/index.php?option=com_flippingbook&Itemid=83&book_id=2310
 
 
FAENZA: «DOPO LA SHOAH RICORDARE È VIVERE»
di Luca Pellegrini, avvenire.it, 15 gennaio 2014
 
Ad Anita, nell’Europa sconvolta del 1945 – la guerra terminata da un mese così come la Shoah, lo sterminio del suo popolo –, su quel treno che la sta portando a Zvikovez nella neonata Cecoslovacchia conquistata dall’Armata Rossa e nel quale si accalca una «moltitudine babelica, che sapeva di miseria e di fame, di vita salvata», viene subito detto che ora lei è «niente».  Con questa immagine di umanità annientata, dove tutto dovrà faticosamente ricominciare e non senza nuove tragedie, inizia Anita B. che Roberto Faenza ha tratto dal romanzo autobiografico Quanta stella c’è nel cielo di Edith Bruck. Il 27 gennaio avrà l’onore di aprire le celebrazioni per la Giornata della Memoria allo Yad Vashem di Gerusalemme, mentre in Italia esce giovedì prossimo distribuito da Good Films in una manciata di sale, forse venticinque, forse meno.Elda Ferri, che lo produce insieme a Luigi Musini, lancia un grido d’allarme che tocca non solo il settore cinema, ma l’intero mondo della cultura. Precisa che non è un film sull’orrore dei campi di concentramento e del genocidio di un popolo, ma su quello che avvenne nei mesi successivi: «Un film che dovrebbe avere diritto di cittadinanza in Italia mentre subisce, forse per colpa di questo equivoco, forse per comportamenti gratuiti e violenti del sistema distributivo, di passare inosservato». Faenza è più sereno. Dopo l’ultimo Un giorno questo dolore ti sarà utile, storia di un inquieto adolescente, affronta ancora giovani e adulti in tribolato rapporto, scoprendo questa volta come un giorno tutta la memoria di Anita ci sarà utile. «Sarebbe stato un bellissimo titolo anche questo – commenta il regista – perché io penso che la memoria oggi sia un dovere che esercitiamo davvero poco, soprattutto nelle scuole. Facciamo poco i conti con il nostro passato, come se non ci appartenesse. Mi ha colpito un’idea suggestiva, colta in un libro letto di recente: il contrario del termine oblio è giustizia. È proprio così: ricordando, si rende giustizia alle persone che sono vissute, ai dimenticati, agli eventi. Certo c’è anche il diritto all’oblio, come avviene in psicoanalisi, fino a quando non sopraggiunge il momento della rimozione. Anita ha questa funzione: torna in un mondo in cui nessuno vuole ricordare più, in cui tutti vogliono rimuovere. Lei, invece, vuole esercitare il diritto al ricordo».
Sullo schermo Anita ha il volto candido e risoluto di Eline Powell. Si ribella a quel “niente” perché vuole esercitare anche il diritto a essere persona che vive, ama, prova felicità, pensa al domani.
«Lei non ha documenti, non sa quasi chi è. In quel periodo chi usciva da Auschwitz come lei, e da tutti i campi, non sapeva più da dove veniva, chi era. In quell’immediato dopoguerra il sopravvissuto era qualcosa da tenere nascosto. Era, appunto, niente. Direi che la forza di questo personaggio femminile è proprio quella di lottare per imporre, invece, la propria identità a fronte di coloro che non gliela vogliono riconoscere, che la vogliono cancellare, insieme al suo passato. Per questo è una figura bellissima per i giovani d’oggi: combattere e poi dare speranza. Uscire da un mondo così atroce e avere, nonostante tutto, la voglia di vivere e non solo di sopravvivere».
I rapporti di Anita nella famiglia che l’ha accolta non sono facili, non sono sereni: la zia Monika è molto dura con lei; Aron, il marito, è distratto; Eli, suo cognato – interpretato da un idolo dei teenager, Robert Sheehan – si aggrappa al suo fascino per nascondere molte insicurezze, diventando addirittura crudele. 
«Il momento più drammatico Anita lo vivrà proprio per colpa di Eli, di cui è sinceramente innamorata e dal quale alla fine aspetta un figlio. Lui le impone l’aborto, la porta a Praga. Ma l’illuminata saggezza e la profonda umanità di un medico le assicurerà la maternità. Questo splendido personaggio, l’unico ad avere ancora un cuore, è quello cui tiene di più la scrittrice, perché ha confessato di essere stata lei stessa salvata da un medico cattolico, cui deve la vita. Anita realizzerà il suo sogno, raggiungerà Gerusalemme. “Un viaggio verso il passato con un solo bagaglio: il futuro” è la frase con cui si chiudono gli ultimi fotogrammi. In tutti i sensi una donna forte, un personaggio sconvolgente».
 
http://www.avvenire.it/Spettacoli/Pagine/anita-b-dopo-la-shoah.aspx
 
 
ARTE E PSICOANALISI, UN INCONTRO POSSIBILE. Nel libro Hanno pensato le due discipline a confronto attraverso l’analisi di opere artistiche di tutti i tempi da parte di Sigmund Freud e dello psicoanalista Giacomo B. Contri
di Laura Lesèvre, ilgiornale.it, 16 gennaio 2014
 
Quanto volte ci siamo chiesti: cosa pensava Leonardo quando dipingeva la Gioconda? Cosa voleva esprimere con quel sorriso mezzo accennato? Difficile, se non impossibile, entrare nella testa degli artisti.
Ci hanno provato il padre della psicoanalisi Sigmund Freud e Giacomo B. Contri, psicoanalista, fondatore e presidente della Società Amici del Pensiero Sigmund Freud: il libro Hanno pensato è una raccolta dei commenti di Freud e del “suo modesto seguace” Contri, come lui stesso si definisce, su una sessantina di opere d’arte tra dipinti e sculture. A raccogliere i testi dei due psicoterapeuti Raffaella Colombo, curatrice e traduttrice dei testi di Freud. “L’idea del libro – spiega la curatrice – è nata quando mi sono accorta che nell’Opera di Freud, come in molte opere di Contri, accanto a quella letteraria, l’arte figurativa ha una presenza meritevole di essere indagata.”
Il risultato è un libro intrigante, che apre a diverse letture. L’arte e la psicoanalisi non appaiono più due realtà nettamente distinte e inconciliabili: rappresentano due momenti della storia del pensiero, una storia nutrita da iniziative personali, innovative e talvolta rivoluzionarie. Se la psicoanalisi è una scienza e come tale cerca di dare interpretazioni precise e definite, l’arte dice sempre di più, dice “oltre”, dice quello che la scienza non riesce ad esprimere e forse, talvolta, a comprendere. Due aspetti, quello dell’arte e della psicoanalisi, che cercano di investigare il cuore più profondo dell’Uomo, un cuore, come si evince da Hanno pensato, sempre alla ricerca di Altro, teso verso un Bene che sia l’amore eroticamente inteso o quello per Dio.
Non è un caso, infatti, che nel libro trovino grande spazio la vita amorosa e le vicende antico e neotestamentarie. Nel descrivere l’attività pittorica di Leonardo, Freud fa ricorso ad un amore rimosso, in particolare all’amore per la madre e a quello, mai vissuto, per il padre. “Potrebbe essere andata così, che Leonardo fosse avvinto dal sorriso di Monna Lisa perché questo aveva destato in lui qualche cosa che da molto tempo era latente nella sua anima, verosimilimente un vecchio ricordo… il sorriso di Monna Lisa del Giocondo aveva risvegliato nell’uomo il ricordo della madre dei suoi primi anni per la madre”. Un amore enorme, quasi fagocitante che non lascia spazio ad altri amori: “La povera madre abbandonata – prosegue Freud – dovette far confluire nell’amore materno tutti i suoi ricordi di tenerezze godute e la nostalgia per delle nuove; era spinta a questo non solo per risarcire se stessa del fatto che non avesse marito ma anche per risarcire il bambino del fatto che non aveva un padre che lo volesse accarezzare”.
Anche in Contri è fortissimo il tema dell’Amore e ci riserva  interpretazioni senz’altro rivoluzionarie. Esaminando La Maddalena penitente di Georges de La Tour Contri lo psicoterapeuta si richiama al carattere amoroso, pubblico e onorevole della nota scena evangelica in cui la donna entra nel luogo della cena, piange ai piedi di Cristo e li cosparge con un profumo prezioso. Contri riabilita così la figura della Maddalena da venti secoli rappresentata discinta come una prostituta. “E’ davvero grossa: – dice Contri – nel racconto evangelico non c’è nulla che anche solo vagamente alluda all’idea che questa donna fosse una prostituta”. Questa “grande donna” secondo Contri compie con questo gesto un atto di fede: l’affidamento totale a Lui, che diventa la ragione reale senza la quale si compie peccato. E’ in questo atto di Fede che si esprime  l’Amore, che solo salva dal peccato.
Ancora il tema dell’Amore è esaminato nell’Amore e Psiche di Canova: in questa statua, Contri vede l’unità e l’armonia di corpo (Amore) e pensiero (Psiche) dell’esperienza amorosa, definita come un “abbraccio”, un affetto, una “pace”. In quest’opera poi Contri rintraccia tutta la separazione tra eros e pornografia: se quest’ultima è un’iterazione a ripetere ossessiva e irrisolvibile, è nell’eros che si compie appieno la tensione, l’abbraccio dell’Uomo verso l’Altro.
Un libro sicuramente di non facile lettura, ma estremamente “umano”: leggendo Hanno pensato scopriamo che gli artisti, anche i più grandi, non sono poi così distanti da noi, “comuni esseri mortali”. Come noi vivono nevrosi, ossessioni, paure, emozioni, espresse o meno.  Un libro questo che ci fa sentire, forse, un po’ più vicini agli altri, nelle nostre debolezze come nelle nostre grandiosità di Esseri Umani.
 
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/arte-e-psicoanalisi-incontro-possibile-983176.html
 
 
“CONTRO IL GIORNO DELLA MEMORIA”. Un provocatorio pamphlet di Elena Loewenthal. Se solo si potesse dimenticare, la storia della Shoah…
di Elena Loewenthal, lastampa.it, 16 gennaio 2014*

Come si fa a scendere a patti con una storia così? Come si fa a farci i conti? A togliersela dalla testa, a non trasformarla in un’ossessione, a evitare che ti si aggrovigli dentro? A pensare che possa lasciarti in pace anche soltanto un momento, per tutti i giorni della tua vita? Niente da fare. Te la trascini dietro. Sai che ci stai dentro e non ne esci più anche se sei nata dopo. Forse, ogni tanto speri di poterla dimenticare. È pura illusione, è un auspicio che affidi, caso mai, alle generazioni successive. Ma altro che memoria, culto della memoria, celebrazione della memoria, moralità della memoria. Per te che sei nata dopo, cioè per me, il vero sogno sarebbe poterla dimenticare, questa storia. Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e dal mio inconscio, soprattutto. Smettere, ad esempio, di sentirmi l’intestino in gola ogni volta che vedo e sento passare un treno merci con il suo sferragliare pesante, la lentezza del moto e del suono che assorda, la parete impenetrabile dei vagoni.
Altro che GdM. Ci vorrebbe quello dell’oblio, per me. O almeno la possibilità di sistemare tutta quella memoria su una nuvola, come si fa adesso. Non perché sia vuoto, anzi. L’oblio non si fa con il vuoto, ma con il pieno, come il troppo pieno. È una forma di difesa dall’angoscia, una pulsione di vita, l’oblio: così spiega Simon Daniel Kipman in L’Oubli et ses vertus. Anche lui, che è psicoanalista, al dovere della memoria contrappone il diritto all’oblio e soprattutto il diritto alla trasformazione in tracce meno tossiche e più confortevoli dell’«iscrizione traumatica e traumatizzante del ricordo». Se solo la si potesse dimenticare, questa storia. Non i suoi morti, che poi sono miei, ma la storia in sé. Le leggi razziali, le persecuzioni, i treni con i deportati, le camere a gas, le torture, le fucilazioni di massa, le violenze assurde. Perché mai coltivarne la memoria, se non per continuare a star male? Ma l’autolesionismo non fa parte della mia identità, né del mio bagaglio morale o teologico. L’ebraismo è una cultura della vita, ha fede nella vita. Non coltiva la morte.
Pensare che gli ebrei ambiscano a celebrare questa memoria significa non provare nemmeno a mettersi nei loro panni. Quella memoria è scomoda, terribile, respingente. Ne farei tanto volentieri a meno, non finirò mai di ripeterlo. È la prima cosa da chiedere, appuntata nella mente, se mi capitasse di nascere un’altra volta, con la possibilità di opzione: grazie, questo no. Né prima né durante né dopo. Mettetemi in un mondo dove non c’è la Shoah. Anche per questa ragione, o forse in primo luogo per questa ragione, io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile. A un passo di lì ci sono quel dolore, quelle paure. Lo so, ma non posso far nulla per condividerlo, per sentirlo, per renderlo comunicabile. Non lo è né lo sarà mai. Come non è veramente condivisibile alcuna sofferenza al mondo, del resto. [...]
Ma ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile. Viviamo in un tempo che celebra la memoria come valore e l’oblio come difetto. Ricordare è un bene di per sé. Siamo portati a considerare questo come un assunto indiscutibile. Ma forse non è così. Forse anche le società hanno bisogno didimenticare – le ferite, i torti perpetrati e quelli subiti. Come l’individuo, che per riprendersi deve rimuovere i traumi almeno in parte, almeno per un certo tempo. Al di là di questo, il GdM sta dimostrando, purtroppo, che la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza. Come aiuta molti a capire, come fa opera istruttiva, così il GdM è diventato il pretesto per sfogare il peggio, per riaccanirsi contro quelle vittime, per dimostrare che sapere non rende necessariamente migliori. Di fronte ad alcuni, diffusi fenomeni, la reazione istintiva è ormai quella di rammaricarsi della conoscenza acquisita: se circolasse meno memoria, se di Shoah non si parlasse tanto e disinvoltamente, forse si eviterebbero esternazioni verbali – e a volte non solo verbali – che sono un insulto rivolto a tutti. Ai morti, ai sopravvissuti, ma soprattutto alla società civile contemporanea. In sostanza, in questi ultimi anni la memoria non si è dimostrata particolarmente terapeutica: se di certe cose si parla molto più che in passato, è anche vero che non di rado se ne parla offendendo la memoria – sempre che abbia senso, l’espressione «offendere la memoria»: caso mai si offendono i vivi, perché i morti, purtroppo per loro, non si offendono più. È quasi come se la celebrazione della memoria avesse autorizzato la sua stessa violazione. Per questo ogni tanto il silenzio sarebbe auspicabile.
Ma la violazione peggiore, quella più grave e sicuramente più gravida di conseguenze, è quella di considerare il GdM come l’occasione di un tributo agli ebrei, un postumo e ovviamente simbolico risarcimento. Non è, non dovrebbe essere nulla di tutto questo.  Il GdM riguarda tutti, fuorché gli ebrei che in questa storia hanno messo i morti. Che non l’hanno ispirata, ideata, costruita e messa in atto. Che non l’hanno neanche vista, in fondo: ci sono precipitati dentro. Era buio. Gli altri sì che hanno visto. È questo sguardo che dovrebbe celebrarsi nel GdM. Allora nel presente, oggi verso il passato. E non è uno sguardo nemmeno consolatorio. [...] Ma non certo per far sì che non accada mai più. La memoria non porta con sé alcuna speranza. La cognizione del male non è un vaccino. «Ricordare perché non accada mai più» è una frase vuota. Se anche non dovesse accadere mai più, non sarà per merito della memoria, ma del caso.

Il 27 gennaio al Circolo dei lettori di Torino  - Il brano che anticipiamo è tratto dalla pagine conclusive di Contro il Giorno della Memoria (sottotitolo Una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato), il pamphlet di Elena Loewenthal che esce oggi per Add editore (pp. 93, € 10). Nel libro l’autrice, scrittrice e studiosa di ebraismo, dà voce ai suoi dubbi intorno alla ricorrenza che si celebra ogni 27 gennaio, anniversario della liberazione del Lager di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa nel 1945, in ricordo delle vittime della Shoah. Del volume si discuterà lunedì 27 gennaio al Circolo dei lettori di Torino (ore 18), contestualmente alla presentazione dell’altro libro della Loewenthal, il romanzo La lenta nevicata dei giorni, appena edito da Einaudi. Con l’autrice parteciperanno Mario Calabresi,  Ernesto Ferrero e Angelo Pezzana.  
http://lastampa.it/2014/01/16/cultura/contro-il-giorno-della-memoria-GKkosn3Gh3Ddz5qNYBOQMJ/pagina.html

*Articolo segnalato da ilpost.it
http://www.ilpost.it/2014/01/16/cancellare-il-giorno-della-memoria/


OLTRE LA MENTE. L’OSCURO LACAN SPIEGATO DA SE STESSO. Arrivano in Italia gli Altri scritti: tutti i modi per illudersi di conoscere i misteri della psiche

di Antonio Vitolo, Il Mattino, 16 gennaio 2014
 
Altri scritti, titolo ad un tempo minimalista e filologico per 608 attraenti, oceaniche pagine (Einaudi, 34 euro): questa – a 12 anni dalla prima edizione degli Autres écrits, per la cura francese dell’autorevole genero J. Alain Miller e quella italiana di Antonio Di Ciaccia – la summa che include due testi postumi, tra cui spicca la Nota sul bambino, vera miniera di clinica e teoria in due pagine manoscritte date da Lacan a Jenny Aubry. Eccentrico nello stile argomentativo, stupefacente per l’irresistibile scrittura barocca, creativo e insieme oscuro, il pensiero di Jacques Lacan (1901-1981) possiede un inconfondibile spessore storico, ancora bisognoso di illuminazioni, pur dopo i fondamentali saggi descrittivi ed esplicativi di Elisabeth Roudinesco, J. Alain Miller, Juan David Nasio, Thierry Simonelli, Fabrizio Palombi. Oggi a Lacan si riconosce di buon grado, per dirla con Colette Soler, la reinvenzione della scoperta freudiana, radicata nell’Umanesimo, nella psicologia, nella - neuropsichiatria. Infatti – oltre Jung, Klein, Winnicott, Bion – Lacan ha creato un sistema aperto alla matematica, alla linguistica, all’antropologia, alla letteratura.
Nel repertorio dei discorsi possibili, quasi un canone dei codici culturali, Lacan registra il discorso del maitre, padrone più che maestro, quello dell’isterica, quello dell’analista, quello dell’universitario o dello scienziato. Ecco in quattro funzioni plurisecolari la serie di ruoli e tipologie che additano l’illusione umana di conoscere il mistero naturale della psiche inconscia e di arginare l’angoscia del nulla, della morte, dello schiudersi d’un senso ultimo, superiore ad ogni pretesa di parola piena. Il maestro/padrone è prepotente, l’isterica vuole spasmodicamente quel che non sa, l’analista esplora, forticato dal saper di non sapere, l’universitario o lo scienziato inseguono avidamente fuochi spesso fatui di conoscenza. Il discorso dell’analista resta così preminente, ma solo per il travaglio incessante che segna la costituzione d’un soggetto autentico, filtro consciamente vulnerabile nell’infinita ricerca delle verità. Per primo Lacan ha raccolto l’eredità dello strutturalismo di Ferdinand de Saussure, riconoscendo in ogni parola, sulla scia della pietra miliare freudiana Costruzioni in analisi, 1937, la compresenza di significato e significante e il primato del significante, un primato assoluto, che relativizza ogni dato conosciuto. Eco possente, questa, nel laico Lacan, allievo di scuola religiosa, d’una tensione all’Altro più forte d’ogni istanza positivistica. Chiaro e incisivo l’effetto epistemico dell’antologia.
Sul versante umanistico Lituraterra, elegante ouverture, privilegia James Joyce rispetto ad Allan Poe de La lettera rubata tradotta in francese da Baudelaire. Come dire che l’inconscio permanente sortisce non solo la tragicommedia «gialla» di fine ’800, ricerca estenuante dell’invisibile, ma anche il dramma d’esordio del ’900, ove Joyce s’avvolge alla psicosi della figlia, lui, padre schizofrenogeno, supremo artista della delirante Finnegan’s wake. Lapidaria l’asserzione lacaniana: Joyce vuol farsi donna. Sulla soglia dell’impossibile, Lacan rivela l’implicita antinomia scrittura-cancellazione che genera la creazione letteraria. Dispiegato nella dimensione storica, Lacan attinge maggiore autonomia nella lente darwiniana dei processi inconsci. Dalla scissione ogni individuo, fluttuante tra immaginario, simbolico e reale, s’affaccia al bordo dell’essenza matematica del tutto. E così apprende che la prima struttura d’identità è l’avvincente, terribile sfida dello stadio dello specchio, in cui prima della fioritura del linguaggio la consistenza della personalità infantile è fondata dall’incanto dello straniamento. Un essere tanto dipendente, qualora scampi alle sabbie mobili della psicosi, crescerà grazie alla buona introiezione della Cosa – nome heideggeriano della madre -, del Nome, del Padre. E diverrà soggetto solo se assimilerà la mancanza accanto alla presenza (con umiltà il soggetto nasce nell’oggetto a minuscolo quanto il neonato, appunto) e se non soccomberà al rischio di farsi sintomo. Il fallimento dell’individuo contemporaneo, ammonisce Lacan, è l’erosione del sentiero che porta al simbolo, la negazione o perdita del significante. Con merito, Recalcati ha connesso Lacan analista ed esteta con il Lacan politico. Lo stesso che ai contestatori studenti parigini disse «Volete un maitre, l’avrete», vedeva nel dipinto di Hans Holbein il giovane del 1533 – in cui un prelato/ambasciatore e un ambasciatore francesi campeggiano in una stanza, i cui emblemi capitali sono un teschio e la sagoma d’un Crocifìsso sullo sfondo – la centralità del credo, al limite della morte. Quel tratto ermetico ed ermeneutico iscrive Lacan nella cultura universale.
 
http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2014/01/17/antonio-vitolo-oltre-la-mente-loscuro-lacan-spiegato-da-se-stesso/#more-1472
 
IL COLORE DEL GATTO E LA DEPRESSIONE. La salute è una cosa seria. Ma Il Fatto fa disinformazione scientifica con l’ausilio di un prete, di una psicanalista e di uno psichiatra con poche idee e pure confuse
di Domenico Fargnoli, babyolonpost.it, 17 gennaio 2014
 
Deng Xiaoping riassumeva l’idea del Socialismo cinese nel famoso detto “Non importa se il gatto sia nero o bianco, purché acchiappi i topi”. Ciò che contano sono i risultati. La psichiatria contemporanea tenta anche essa di seguire la strada del pragmatismo. Non importano le costruzioni teoriche, le diagnosi, il rispetto della metodologia medica: ciò che contano sono i risultati. Per cui ben venga se uno sta meglio con la meditazione trascendentale se un altro si cura la depressione con le tisane e se un altro ancora fa affidamento sugli psicofarmaci e ritiene che a lui facciano bene. Quello descritto è l’atteggiamento cosiddetto post psichiatrico o post moderno. Non esistono verità assolute o concetti universali dal momento che di fronte al “disturbo mentale” (secondo l’ambigua formula dei vari DSM) ciascuno si arrangia come può.

Il giornale Il Fatto quotidiano in data lunedì 13 gennaio 2014 sembra aver sposato, come fanno alcuni psichiatri, la filosofia politico-economica dei cinesi. In ben quattro pagine di servizio è stata intervistata, sul tema della depressione, una psicoanalista junghiana, un monaco benedettino, il solito Vittorino Andreoli, ed è stata riportata l’esperienza di una scrittrice che sarebbe guarita spontaneamente. Tutto ed il contrario di tutto. Ma gli psicoanalisti junghiani non erano quelli che facevano i tarocchi ai pazienti o in alternativa l’”I-Ching”? Non erano quelli che si ispiravano ad un profeta-maestro che andò incontro a un vera e propria psicosi con tanto di allucinazioni fra una seduta e l’altra, con tanto di pistola sotto il cuscino pronta in caso di improvviso impulso suicida? Jung camicia bruna, Jung poligamico convinto, Jung maestro della new-age. Jung psicoguru.
Quanto a Vittorino Andreoli egli è insuperabile suggeritore di banalità assolute. Domanda: come si cura la depressione? Risposta: integrando la psicoterapia con l’uso degli psicofarmaci e della sociologia. Grazie tante: la psicoterapia agirebbe sul cervello plastico esattamente come lo psicofarmaco. Naturalmente non è assolutamente vero perché le sostanze psicotrope sono solo palliativi dall’effetto spesso imprevedibile data la diversità delle risposte individuali. Ancora più difficile mi rimane comprendere in cosa possa consistere l’integrazione di psicofarmaci con la sociologia. Per non dire che il termine psicoterapia è talmente generico che non significa praticamente nulla. Tant’è che il benedettino intervistato dalla giornalista è legittimato a dichiarare: «Alla chiesa non interessa valutare la depressione». Ma subito dopo: «Tra le cause della depressione (…), la mancanza di radici e di fede che invece sono importanti». Viva la coerenza. Come dire che tutti gli atei sarebbero depressi. La scrittrice Caterina Bonvicini poi suggerisce che l’uscita dalla depressione è un mistero, una sorta di miracolo che non si sa come avvenga anche se poi la donna dice di essere andata incontro a «un gioia furiosa» quando sarebbe guarita innamorandosi in modo maniacale di un uomo. Auguri.
Ciò che è tragico è che si utilizzano quattro pagine di un giornale per suggerire, più o meno apertamente, che non esiste la cura della malattia mentale: si va ben oltre la questione del gatto bianco o nero perché, dichiarazioni e discorsi a parte, nessuno degli intervistati sembra riuscire a prendere topi: i gatti dormono mentre i topi ballano. I rimedi suggeriti, in assenza di una metodologia e di una teoria che rispondano ad un minimo di criterio di scientificità, sembrano davvero peggio del “male”. O come come è più corretto dire della “malattia”.
Articolo originale pubblicato su domenicofargnoli.com
 
http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=95507
 
L’EDIPO DI RAMÓN MERCADER

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 17 gennaio 2014
 
Un Edipo sta­li­ni­sta è un capi­tolo del libro Freud’s Mexico di Rubén Gallo, pro­fes­sore a Prin­ce­ton. Il breve testo, pub­bli­cato in ita­liano e cor­re­dato di un’ottima pre­fa­zione di Luciana Castel­lina, è la rico­stru­zione appas­sio­nata e rigo­rosa del caso di Ramón Mer­ca­der assas­sino di Troc­kij per ordine di Stalin.
L’indagine, con diver­ti­mento del let­tore, segue il ritmo nar­ra­tivo del giallo ed è incen­trata sull’analisi inten­siva (durata sei mesi) delle moti­va­zioni psi­co­lo­gi­che dell’atto omi­cida di Mer­ca­der Que­sta ana­lisi con­dotta con metodi psi­coa­na­li­tici «sel­vaggi» da un’equipe di giu­ri­sti e cri­mi­no­logi mes­si­cani ha indotto il tri­bu­nale a sta­bi­lire come movente dell’assassinio «un com­plesso di Edipo mani­fe­sto». Come Gallo giu­sta­mente osserva, le moti­va­zioni edi­pi­che nell’assassinio di Troc­kij sem­brano fon­date al di là della loro inge­nua defi­ni­zione psico-giuridica. Il padre di Ramón era un indu­striale di Bar­cel­lona. La madre, Cari­dad del Río, una bella donna di ori­gini cubane a disa­gio nell’ambiente sociale del marito e legata ai cir­coli anar­chici della sua nuova città, ha rotto il vin­colo matri­mo­niale por­tan­dosi con sé i cin­que figli. Il suo incon­tro con Leo­nid Eitin­gon, fidu­cia­rio di Sta­lin per l’eliminazione fisica dei suoi avver­sari poli­tici, l’ha por­tata nelle file del par­tito comu­ni­sta spa­gnolo allon­ta­nan­dola dall’uso delle dro­ghe a cui era dedita. Ado­ra­trice di Sta­lin ha rico­perto impor­tanti inca­ri­chi nel par­tito e con Leo­nid ha esco­gi­tato il pro­getto di affi­dare l’assassinio di Tro­skij al figlio Ramón che era lega­tis­simo a lei. Ha sacri­fi­cato il figlio alla causa. Ramón Mer­ca­der ha affer­mato la cen­tra­lità asso­luta del suo legame con la madre negando con per­se­ve­ranza, dal momento della sua cat­tura fino alla sua morte, la sua vera iden­tità e con essa la sua filia­zione al padre. È restato in car­cere per vent’anni sotto il nome di Jac­ques Mor­nard, insi­stendo nella falsa iden­tità di trotz­ki­sta belga deluso anche quando quella vera è stata sve­lata. Dopo la sua libe­ra­zione, quando è emi­grato in Unione Sovie­tica, ha usato ancora una volta un cognome falso: Pavlo­vich López. Ha scelto di morire in Cuba, la terra della madre.
L’ipotesi che ucci­dendo Troc­kij (nella realtà) Ramón abbia ucciso il padre (den­tro di sé) non è arbi­tra­ria anche se segue vie più com­plesse della con­ce­zione freu­diana del com­plesso edi­pico. Cari­dad è il tipo di madre (fre­quente nell’esperienza cli­nica) che usa un pro­prio padre ideale per neu­tra­liz­zare il padre reale dei pro­pri figli e far valere nel rap­porto con loro una voca­zione auto­cra­tica. Nel suo legame con Ramón, a cui chiede di incar­nare l’oggetto ideale con cui lei si iden­ti­fica, è signi­fi­ca­tivo il fatto che il numero dei padri in gioco rad­dop­pia: a un padre reale adot­tivo (Leo­nid) asso­ciato a un padre ideale buono (Sta­lin) cor­ri­sponde un padre reale bio­lo­gico asso­ciato a un padre ideale cat­tivo e delu­dente (Troc­kij). Sullo sfondo di que­sta tra­ge­dia le figure, sup­po­ste ripa­ra­trici, di Leo­nid e di Sta­lin non reg­gono nel mondo interno di Ramón (per­ché non reg­gono nella madre). Il desi­de­rio del padre reale per­duto affiora, nono­stante il suo rigetto, sia nel nome falso belga (che è un ana­gramma del vero) sia in quello russo che ha una com­po­nente spa­gnola. In que­sta cor­nice Troc­kij diventa il capro espia­to­rio della delu­sione che in realtà viene da Sta­lin ma ciò non basta a spie­gare la con­vin­zione di doverlo ucci­dere. Ramón uccide per sacri­fi­carsi. Rimette in piedi la madre assu­mendo il suo destino di figlio cro­ci­fisso e diven­tando il mes­sia che la redime. Alza per sem­pre un muro tra sé e l’uomo (padre) che sarebbe potuto essere.
 
http://ilmanifesto.it/ledipo-di-ramon-mercader/

LE PASSIONI/1 LA RABBIA

di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 18 gennaio 2014
Perché ci si arrabbia? Per manifestare ciò che si sta provando in un certo momento e a dichiarare agli altri quali sono le nostre intenzioni
 
La rabbia, o l’«ira» come in passato veniva più frequentemente chiamata, è uno stato d’animo denso e totalizzante. Spesso disorienta per la sua intensità e per il fatto che non sempre sappiamo da dove proviene. È come se si aprisse un cratere, un varco nel nostro Io dal quale emergono umori sconosciuti e incontrollabili. Tutti conosciamo le reazioni quando ci arrabbiamo: il cuore batte più forte, la pressione sanguigna aumenta, il respiro accelera, i muscoli si tendono, le pupille si dilatano, i peli si rizzano. Queste cose hanno la loro funzione: essere attrezzati alla lotta. Perché la rabbia implica un attacco, uno scontro fisico o verbale e le risposte che si registrano nel corpo servono a mobilitare tutte le nostre energie. In questo caso l’ira, anche quella più «funesta» (nell’immagine, la rappresentazione dell’«ira funesta» di Achille, Iliade), quando è in relazione a un fatto specifico non fa male alla salute, anzi. Serve a manifestare ciò si sta provando in un certo momento e a dichiarare agli altri quali sono le nostre intenzioni. Molto più pericoloso e dannoso può essere invece trattenerla, negarla e reprimerla. Diverse ricerche hanno messo in evidenza i danni che ne possono derivare da un atteggiamento costante di repressione di questo sentimento. Arrabbiarsi, allora fa bene. Ma come per tutte le cose ci sono dei limiti. Un continuo e persistente stato di ostilità viceversa può essere dannoso perché espone troppo alla tensione e all’eccitazione che possono danneggiare alcuni organi messi in gioco nell’attacco di rabbia. Alcuni studi, ad esempio, hanno accertato quanto le manifestazioni continue di collera siano pericolose per il cuore che viene sollecitato in modo eccessivo. Ciò non significa che la rabbia da sola sia la causa delle malattie cardiache, ma che, tuttavia, uno stato emotivo caratterizzato da continue manifestazioni di ostilità non fa di certo bene. Ma perché ci si arrabbia? Da dove viene questa forte pulsione? Molte possono essere le risposte. Chi si arrabbia troppo spesso ha motivazioni profonde e intime che lo spingono a vedere nell’altro un nemico di cui non ci si può fidare. Ci si arrabbia per affermare se stessi. Molti non riescono ad esprimere il proprio punto di vista o non ci riescono a dire qualcosa che possa contrastare il pensiero degli altri. Poi la rabbia può nascere da un profondo senso di frustrazione e dalla sensazione di fallimento che alcuni provano nella quotidianità. Ad esempio presi dai ritmi così intensi con cui siamo costretti a vivere oggi, molti delusi e avviliti vanno in ansia se non riescono a realizzare tutto quello che si erano proposti di fare.
 
http://www.ladigetto.it/permalink/30745.html 

(Fonte: http://rassegnflp.wodpress.com)

 

 

 

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 3705