Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

Etica professionale e senso di colpa

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3 febbraio, 2014 - 16:04
di Sarantis Thanopulos

Un medico americano ha scritto a Chuck Klosterman, saggista che si occupa di questioni etiche su NY Times.
Anni fa un suo paziente che soffriva di mal di testa gli aveva confessato, sentendosi protetto dal segreto professionale, che aveva commesso un delitto serio la cui colpa era ricaduta su un altro. A confessione fatta il mal di testa era sparito. Il medico assalito dai dubbi si era consultato con il legale del suo ospedale  che l'aveva rassicurato: in assenza del rischio che il paziente danneggiasse altri o se stesso non c'era obbligo di denuncia. Egli è rimasto tormentato dall'idea di essere un codardo nascosto dietro il giuramento di Ippocrate.
Nella sua risposta Klosterman si barcamena come meglio può: il giuramento di Ippocrate, dice, non è adatto alla soluzione di problemi moderni. Consiglia al medico di esortare il paziente a confessare l'accaduto alle autorità e aggiunge: "Se lui si impunta tu dovrai dirgli che hai sbagliato a promettergli riservatezza, che il tuo desiderio di giustizia sociale è più forte della tua personale integrità come confidente professionale".
Klosterman, che ammette di sentirsi a disagio con il suo consiglio, aggiusta il tiro dicendo che la sua è la prospettiva di un "civile" che ignora la relazione tra medico e paziente. In realtà la sua è una posizione dettata dal senso di colpa, lo stesso che ha dettato la lettera del medico e lo stesso che ha spinto il paziente a confessarsi (in condizioni di sicurezza). Il paziente si è liberato del suo mal di testa trovando nel medico qualcuno con cui condividere la sua colpa (non di aver commesso un delitto ma di averne fatto pagare le spese a un innocente). Voleva sbarazzarsi del mal di testa e non di riparare il danno causato a un altro: ciò avrebbe comportato un danno per lui che non era in condizione di accettare.
Il medico costretto a condividere la colpa ha cercato, a sua volta, di condividerla con l'esperto di etica del NY Times (e i suoi lettori) solo per vedersela recapitare di nuovo a casa. Il suo è un conflitto morale: seguire la propria etica professionale o salvare un'innocente da una condanna ingiusta? Per lui come per Klosterman l'etica (roba rispettabile di epoche antiche) non può avere la precedenza su un'interpretazione della giustizia basata sul senso morale, che implica il senso di colpa. Essi non accettano che la relazione con il medico debba preservare il paziente da giudizi morali riguardanti i fatti che egli comunica. Eppure l'assenza di giudizio sulla sofferenza comunicata è necessaria perché il medico sviluppi un senso di responsabilità nei confronti del suo paziente.
Per il paziente il rapporto con il medico è esposizione e comporta un diritto inviolabile d'asilo. Il medico non confronta l'interesse del paziente con l'interesse dell'umanità ma, eventualmente, con un altro interesse del paziente: prevenire con una denuncia che egli danneggi se stesso o altri potrebbe rientrare in questo confronto. Denunciarlo, invece, per qualcosa che ha già commesso protegge il medico dal proprio conflitto morale ma danneggia le fondamenta etiche della medicina.   

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