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Riti individuali di passaggio

23 Feb 14

A cura di Leonardo Dino Angelini

 Nella sua inesausta ricerca sulla corporeità David Le Breton ha mostrato più volte interesse per il significato che per i govani hanno le “marques corporelles”, cioè il tatuaggio, il piercing, ecc.: da lui inquadrati come “riti individuali di passaggio”, o anche come “riti intimi paralleli”. Ed ancor oggi – dopo più di un decennio dalla loro esplosione fra i giovani – tatuaggi, piercing, così come in molti casi quelle condotte a rischio che mettono pesantemente in gioco il proprio corpo, non possono essere ridotti a fenomeni di moda; ma richiedono la nostra attenzione proprio perché riconducibili a quel che accade all’interno di quel lunghissimo stato di margine che separa oggi l’infanzia dall’età adulta.
Uno stato di margine che, per il prolungarsi – a volte sine die – del percorso formativo, tende sempre più ad avere “gli anni di Nestore e di Priamo”, all’interno del quale spesso questi segni, più che “riti intimi paralleli” appaiono come modalità compensative che aiutano il giovane a marcare il passaggio, in assenza di riti sociali condivisi.
O in presenza di entità sociali che oggettivamente svolgono funzioni cerimoniali collegate al passaggio, ma che soggettivamente sembrano non avere alcuna consapevolezza dei significati, o dei meta-significati di ciò che effettivamente stanno facendo con i giovani con cui vivono quotidianamente.
L’esempio della scuola e della funzione di “sacerdoti del passaggio” svolta dai docenti lungo il percorso formativo dei giovani loro affidati è paradigmatica in proposito. Ma ogni comparto di quell’”ecosistema adulto” (Pietropolli Charmet) che interagisce quotidianamente con essi spesso pare poco consapevole di compiere, a fianco alle funzioni per le quali manifestamente opera, anche funzioni sacerdotali legate al passaggio.
 
Noi sappiamo però – ce lo dicono gli antropologi ed i paleontologi – che in ogni cultura, da sempre e dovunque, il passaggio da una fascia di età ad un’altra, e in special modo il passaggio dall’infanzia all’età adulta va ritualizzato, poiché in questo delicato momento sia la comunità degli adulti, sia quella dei neofiti sono attraversate da ansie ed angosce che derivano da una parte dal timore che l’emergere della nuova generazione avvenga sotto il segno della discontinuità, dall’altra dalla confusa percezione di non essere più bambini e di non sapere cosa li attende dopo aver superato il “limitare di gioventù”. Sappiamo cioè che la cerimonializzazione del passaggio rappresenta una difesa sociale tesa ad esorcizzare questo doppio e convergente flusso di ansie e di angosce che tutte le culture avvertono.
Già le istoriazioni presenti nelle grotte di Lascaux secondo i paletnologi (Leroi-Gourhan) avevano una funzione iniziatica. Stessa funzione – ci dice Kern – era svolta dai vari labirinti in cui sia i popoli mediterranei che gli scandinavi svolgevano in epoca protostorica i loro pubblici riti di passaggio. Ciò rendeva quei luoghi dei veri e propri uteri sociali – aggiunge Kern – in cui i neofiti all’inizio della cerimonia entravano bambini per uscirne alla fine adulti, dopo avere appreso coram populo i segreti della vita dai “sacerdoti del passaggio” espressamente delegati a questo compito da tutta la comunità.
Ora è chiaro che in queste società semplici il passaggio all’età adulta era circoscritto (e lo è ancora nelle ormai sparute enclave studiate dagli antropologi) alla durata della cerimonia, cioè a poche ore o a pochi giorni. Ma a mio avviso sbagliano coloro che sostengono che in quelle culture non ci fosse (o non ci sia) un’adolescenza. Sbagliano perché non vedono l’adolescenza da un punto di vista funzionale: e cioè come luogo e tempo occorrenti, sia ai neofiti che alla comunità in cui essi stanno per entrare, per diventare adulti. Come luogo e tempo in cui -come suggerisce lo stesso etimo (adolescens, “colui che si sta nutrendo”)- il neofita si nutre per diventare adulto. Etimo che non a caso è lo stesso di “adulto” (“colui che già nutrito”), che è già cresciuto.
Se infatti – facendo un salto di millenni – veniamo alle cerimonie dell’apprendistato all’interno delle botteghe artigiane noi ritroviamo in esse le tappe di un percorso iniziatico, ora molto più lungo e cadenzato nel tempo, che conduce l’apprendista dalla condizione di bambino a quella di adulto competente, capace di porsi autonomamente sul piano della riproduzione sociale. Un percorso all’interno del quale in termini funzionali possiamo riconoscere – al di là delle diversità di contenuti e di tempi – la stessa esigenza di esorcizzare le ansie e le angosce di tutti i protagonisti attraverso riti sociali di passaggio fortemente connotati da un punto di vista ossessivo, esattamente come avveniva nella preistoria e nella protostoria.
Se noi partiamo da questi presupposti cominciamo a comprendere, a mio avviso, come mai oggi nascono questi “riti individuali di passaggio”. Come mai, al massimo, assistiamo a “cerimonie intime parallele” che i giovani evidentemente continuano a sentire intuitivamente come una esigenza impellente all’interno del lungo percorso della loro seconda individuazione.
La mia ipotesi è che, in assenza di un utero sociale capace di condurli lungo il cammino della rinascita in quanto adulti e di un “corpo” di sacerdoti autoconsapevoli di svolgere funzioni sacerdotali legate al passaggio, i giovani d’oggi tendono a costruirsi da sé percorsi che dal lunghissimo stato di liminarità li conducano verso l’età adulta. Percorsi che richiedono, come sempre, operazioni sul proprio corpo che cambia. Un neo-corpo che va marcato attraverso il piercing e il tatuaggio, poiché l’adolescente sente intuitivamente che deve sottoporsi a tutte le prove “morali, intellettuali e fisiche” (diceva la Calame Griaule) capaci di attestarne le nuove potenzialità.
Tutto ciò fa si che nel labirinto metropolitano odierno il neofita entra bambino e – dopo un lunghissimo e solitario percorso – ne esce adulto sottoponendosi a riti individuali di passaggio. Cioè di fronte ad adulti che sono assenti o ignari di ciò che effettivamente stanno facendo. Il risultato da parte dei giovani è quello di non essere accompagnati lungo il percorso di crescita, e perciò maggiormente esposti al fallimento. Da parte degli adulti quello di trovarsi “poi” di fronte ad una alterità angosciante che o viene lasciata ai margini (il precariato è anche questo); oppure viene esorcizzata attraverso quel tentativo di vera e propria incorporazione che è il giovanilismo e la negazione della differenza generazionale.

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