GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Marzo IV - Cinema e disegni; sport e fantasmi; paura e perdono

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25 marzo, 2014 - 13:55
di Luca Ribolini

JIMMY P. IL NUOVO FILM DI ARNAUD DESPLECHIN

di Marco Luceri, corrierefiorentino.corriere.it, 21 marzo 2014

Solo Arnaud Desplechin poteva realizzare un film così. Tra i più interessanti autori del cinema francese contemporaneo, con all’attivo commedie originali e imprevedibili come Racconto di Natale eRe e regina, il regista transalpino ha realizzato un adattamento dell’omonimo libro di Georges Devereux, etnopsichiatra di origine ungherese – ma naturalizzato francese – pioniere nella psicanalisi transculturale e specializzato nell’elaborata cultura amerinda. Ed è proprio Georges uno dei due protagonisti del film, alla prese con la «cura» di un paziente affetto da un inspiegabile malattia psicosomatica, Jimmy Picard, nativo americano reduce della Seconda Guerra Mondiale.

Il film è la storia di un percorso di analisi, di una reciproca scoperta, ma anche del tentativo di mettere in scena la necessità di spostare i confini della conoscenza. Affidato a due attori che più diversi non potrebbero essere (il febbrile Mathieu Almaric e il maestoso e malinconico Benicio Del Toro) Jimmy P. ripropone temi e motivi del cinema di Desplechin: le famiglie disfunzionali, i personaggi problematici, la rappresentazione dell’esistenza come giostra infernale, la precarietà degli affetti. Attenzione, però, a non scambiare Jimmy P. per un verboso film «psicanalitico» (Hitchcock diceva che i tempi del cinema e quelli della psicanalisi non coincidono mai), perché in realtà – e qui sta la bravura di Desplechin – pur concentrandosi sulla forza drammatica del dialogo tra analista e paziente, il regista francese orchestra la vicenda con un montaggio discontinuo, pieno di inserti surreali, di passaggi irrisolti.
E’ così che questo strano “western freudiano” mostra al contempo la sua profondità e la sua leggerezza, rifuggendo un realismo che avrebbe finito per trasformare il film in una vacanza esotica, per aprirsi all’orizzonte indeterminato di metafore fuori dal tempo e dalla spazio.
Regia: Arnaud Desplechin; Interpreti: Benicio Del Toro, Mathieu Almaric; Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Julie Peyr, Kent Jones; Fotografia: Stéphane Fontaine; Musiche: Howard Shore; Montaggio: Laurence Briaud; Scenografia: Dina Goldman; Costumi: David C. Robinson; Produzione: Why Not Productions, Wild Bunch; Distribuzione: Bim. USA, 2013, 116′.
In Toscana è in queste sale: Firenze: Astra 2.

http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/spettacoli/2014/21-marzo-2014/jimmy-p–2224249443297.shtml

 

TUTTI DA TULLIO SABATO SERA. Il ritratto-autoritratto dell’uomo che ha messo le facce alla cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Una storia che cominciò in un clib privé di Lambrate

di Antonio D’Orrico, Il Corriere della Sera, 21 marzo 2014*
 
Tullio Pericoli abita in una zona di Milano che nella mia personale toponomastica e geografia della città ho chiamato il quartiere Del Buono, nel senso di Oreste, lo scrittore, giornalista e tutto il resto, che viveva da queste parti in un appartamento sotto a quello del banchiere Enrico Cuccia (formidabili quegli anni). Lo studio di Pericoli è proprio come ci si immagina lo studio di un disegnatore: tanti tavoli e piani d’appoggio, tanto legno, finestre luminose, risme di fogli, strumenti di cartoleria. Il nome di Del Buono spunta subito nella conversazione quando Pericoli racconta i fumetti che cominciò a fare con Emanuele Pirella, grande firma della pubblicità. A quell’epoca l’Accademia dei Lincei del fumetto in Italia era la rivista 
Linus diretta da Del Buono. A lui, non senza qualche timore, si erano rivolti i due sapendo che a Linus non gradivano particolarmente i fumetti nostrani. Invece Del Buono si entusiasmò (era uno che sapeva entusiasmarsi ed entusiasmare) e li pubblicò sul primo numero raggiungibile. Cominciò così la seconda carriera di Pericoli & Pirella e si formò una coppia diventata proverbiale (come Garinei & Giovannini per il teatro di rivista e Fruttero & Lucentini per la letteratura) e che ha firmato tra tante cose anche le più belle tavole di satira culturale viste in Italia, quelle di Tutti da Fulvia sabato sera. «Però all’inizio non volevamo andare da Del Buono, ci sembrava chiedere troppo. Così portammo le nostre tavole a Mario Spagnol, editore di una rivista che voleva fare concorrenza a Linus. Spagnol le guardò e disse di lasciargliele perché magari sarebbero tornate utili come riempitivo per tappare qualche buco al momento dell’impaginazione. La sua risposta non mi piacque. Riempitivo? Così andai da Del Buono».
La storia di Tullio Pericoli attraversa molte storie dell’editoria, del giornalismo, dell’industria culturale e dell’arte a Milano a partire dal 1960 a oggi, ma lui finora non l’aveva molto raccontata. Era stato discreto, schivo. Poi tre anni fa è uscito un bel libro di Silvia Ballestra (
Le colline di fronte, Rizzoli), una biografia dell’artista ma pochi lo hanno capito e saputo anche perché i librai (che spesso, come mi capita di riscontrare con sempre maggiore e preoccupante frequenza, sono i più grandi nemici dei libri) non lo avevano esposto nel bancone delle novità o della narrativa o delle biografie ma nei periferici scaffali riservati ai volumi d’arte. È un errore ricorrente che ha penalizzato, anni fa, anche un altro, bellissimo racconto di memorie (I miei mostri del grande regista Dino Risi, Mondadori) che fu collocato nel settore delle pubblicazioni di cinema mentre si trattava di un esaltante romanzo italiano dal vero. Ora è uscito un altro libro di Pericoli, Pensieri della mano (pubblicato da Adelphi), che non è un libro di disegni (come lo splendido I paesaggi, uscito sempre da Adelphi l’ottobre scorso), anche se qualche disegno lo contiene, ma è un’autobiografia artistica in forma di conversazione con Domenico Rosa. Se uno mette assieme Le colline di fronte e Pensieri della mano ha un ritratto-autoritratto totale di Tullio Pericoli, «il pittore sui giornali» secondo una autodefinizione che gli piace molto. Ed è per fare questo ritratto-autoritratto che sono venuto a trovarlo nel suo studio di ringhiera in zona Del Buono.
Io alternerei, se è d’accordo, una domanda biografica a una artistica e comincerei il giorno che lei nel 1961, venticinquenne, sbarca alla stazione di Milano con una lettera in tasca come D’Artagnan al suo arrivo a Parigi nei Tre Moschettieri.
«La lettera era di Cesare Zavattini che ero andato a trovare, senza conoscerlo, a Roma. Io disegnavo da tempo, da quando ero bambino, poi avevo lavorato con i giornali (Il Messaggero, nell’edizione di Ascoli) e fatto anche una mostra di pittura. Sentivo che era il momento di tentare il grande salto. Zavattini fu generosissimo. Passò una giornata con me e alla fine emise il verdetto. Dovevo andare a Milano dove c’erano i giornali e le case editrici e non a Roma. E a Milano dovevo cercare di Giancarlo Fusco al quale scrisse una lettera che mi consegnò. Fusco era allora una delle firme del Giorno che era stato una rivoluzione nel mondo dei quotidiani. E così andai a casa sua. Mi aprì in mutande e, a una prima occhiata, mi prese per un giapponese o un vietnamita. Poi guardò, per modo di dire, i disegni e il suo commento fu “A Zavattini non si può dire di no”. Mi invitò a cena. In realtà, mi portò a Lambrate, in un club privé, l’Anthony, dove le entraîneuses lo accolsero come gli italiani avevano accolto gli americani all’epoca della Liberazione. Champagne, risate. Io mi guardavo intorno, venivo da Colli del Tronto, un paesino di nemmeno duemila abitanti, e adesso mi trovavo in un night milanese dove nell’ombra si aggiravano dei loschi tipi armati di rivoltella. Questa vita da nottambulo andò avanti per un paio di mesi finché Fusco una volta, quasi all’alba, mi portò al Giorno. Il caporedattore Angelo Rozzoni guardò i disegni e mi fece cominciare. Mi affidarono quasi subito i racconti che uscivano la domenica, racconti di Calvino, di Buzzati, di Mastronardi, e anche le inchieste leggendarie di Giorgio Bocca sull’Italia del boom».
Lasciamo per un attimo la vita e passiamo all’arte. In Pensieri della mano (bel titolo che allude a una certa autonomia, a un libero arbitrio, quasi, della mano quando disegna), lei celebra l’invenzione della linea.
«Per me la linea assieme alla ruota e al fuoco è una delle tre grandi scoperte o invenzioni primordiali. Cerco spesso di immaginare l’emozione dell’uomo che per primo fece un disegno. Ancora maggiore sarà stata l’emozione della prima persona che ha visto il primo disegno. Cosa avrà pensato? L’impressione deve essere stata fortissima, quasi uno shock. La linea in natura non esiste».
Come Flaubert disse di Madame Bovary, lei nel libro dice: «La linea sono io».
«È una battuta, ma non è solo una battuta. Ho cercato di ricostruire la storia della linea. Lo sa che ha anche attraversato un periodo di terapia psicoanalitica? È stato il grande Saul Steinberg, il disegnatore delle classiche e leggendarie copertine del New Yorker, che ha fatto distendere la linea sul lettino e l’ha confessata. La linea (come tutti noi) è nevrotica, fragile, insicura, ha le sue debolezze, non sa dove andare, non sa bene chi è».
A questo si riferisce nel libro quando parla, in una maniera che incuriosisce, della psicoanalisi delle immagini?
«Sì, perché non c’è stato un Sigmund Freud delle immagini. A differenza della scrittura, la pittura contiene qualcosa che non conosciamo. Noi sappiamo di più delle parole. Le parole galleggiano mentre le immagini stanno sotto. La psicoanalisi delle parole è stata fatta, quella delle immagini ancora non del tutto. Eppure dipendiamo moltissimo dalle immagini. Ormai quasi più che dalle parole».
Restando in ambito terapeutico, lei ha qualcosa da osservare sulla figura attuale del critico.
«Sempre più nel mondo dell’arte contemporanea invece di dire “critico” si dice, anglosassonamente, “curator”. Non è una scelta senza conseguenze. Se c’è un curatore vuol dire che nell’arte contemporanea c’è qualcosa da guarire, c’è una malattia. Le parole si vendicano sempre. Ce lo ha insegnato proprio Freud».
La leggerezza calviniana dei suoi disegni (e evoco Italo Calvino non a caso, sapendo della vostra lunga amicizia), la loro luminosità, può trarre in inganno. Dietro la sua linea ci sono zone d’ombra, c’è il buio. Lei cita Kafka a proposito del suo lavoro.
«Cito il racconto Nella colonia penale dove viene eseguita una condanna a morte con una macchina che incide lentamente il testo del comandamento trasgredito sul corpo del condannato. Un’immagine forte. In generale, credo sempre di più che noi terrestri ci comportiamo così: incidiamo sulla Terra come se la stessimo uccidendo, tracciando i nostri solchi senza nessun senso del rispetto e della pena».
Facciamo un passo indietro, come nei romanzi di appendice. Sbarcato a Milano, passati i primi tempi a tirar mattina con Fusco, entrato al Giorno, lei finalmente trova casa. Ma succede qualcosa alla maniera di Edgar Allan Poe, qualcosa che con una immagine ci restituisce in pieno il sapore di un’altra Milano, quella nera, scerbanenchiana. È l’immagine di un appartamento con le finestre sbarrate.
«Avevo affittato una casa in via San Gregorio. Era un quinto piano. Notai qualcosa di strano. Al primo piano c’era una casa con le persiane chiuse, dava l’idea di una casa sigillata in eterno. Mi informai ma nessuno seppe (volle) darmi una spiegazione. Alla fine lo scoprii: la casa era quella dove era avvenuto il massacro compiuto da Rina Fort, la belva di via San Gregorio, uno dei più efferati delitti del dopoguerra, raccontato magistralmente da Dino Buzzati nelle cronache del Corriere. Oggi, magari, il nome di Rina Fort non dice niente a nessuno ma allora era una cosa che sconvolgeva. Chissà che fine ha fatto Rina Fort?».
Le posso dare una mano. Quando ero cronista a Firenze una sera mi mandarono in una palazzina nei pressi di via della Mattonaia, dove c’era il carcere. Era una casa di accoglienza, tenuta da suore di carità, riservata alle ergastolane che, raggiunta una certa età, venivano trasferite dal carcere a quella residenza. Ero stato mandato lì perché una delle ospiti delle suore era morta. Si chiamava Caterina Benedet, un nome finto, si trattava in realtà di Rina Fort. Sarà per la sua influenza, caro Pericoli, ma chiacchierando abbiamo disegnato una specie di spirale e siamo tornati, attraverso la belva di San Gregorio, alla colonia penale di Kafka. Ma ora è il momento di parlare dei ritratti, la specialità per cui lei è più celebre. Parlando di ritratti in Pensieri della mano lei risolve uno dei grandi enigmi della storia dell’umanità.
«Oddio, a che cosa si riferisce?».
A quando spiega perché nel momento in cui ci viene presentata una persona non afferriamo mai bene il nome. Lei dice che succede perché davanti a una persona sconosciuta la nostra prima reazione non è di ascoltare le parole che dice ma di guardare la sua faccia, di cercare di imprimercela bene in mente.
«Credo che funzioni proprio così. Penso che sia un istinto atavico. Ci dimentichiamo i nomi perché stiamo cercando di guardare la faccia. Non facciamo caso all’anagrafe perché la relazione si crea con gli occhi. E questo mi fa riflettere su che cosa c’è nel nostro cervello che non sappiamo e un po’ mi spavento. Quando mi preparo a fare un ritratto cerco, disperatamente, il dettaglio che fa unica una faccia e la rende diversa da tutte le altre facce che ci sono al mondo. Quando non trovo quel dettaglio mi arrabbio perché non posso fare il ritratto. Ha presente quei giochetti che fanno i giornali d’estate quando pubblicano un particolare di un volto, la bocca, per esempio, uno spicchio di fronte, e bisogna riconoscere la persona dalle labbra, dal pezzetto di fronte? Quei giochetti sono la prova che è un dettaglio a fare di una faccia quella faccia».
Ma nei suoi ritratti non c’è solo il volto c’è anche, come dire, il corredo (materiale e spirituale) di una persona.
«È un tipico procedimento narrativo. Per rappresentare l’ansia sempiterna di Carlo Emilio Gadda, quella che gli infelicitò la vita ma forse gli felicitò la prosa, ho cercato di restituire nel mio ritratto una persona in perenne disagio, a partire dal suo modo di indossare i vestiti. Gadda dava l’impressione di essere infagottato dentro la sua giacca, il suo cappotto. E per rendere l’idea di come Samuel Beckett scrivesse, del suo stile, ho disegnato i suoi capelli come se fossero un vortice».
In Pensieri della mano lei accenna anche a due possibili modi di fare la storia dell’arte distinguendo i pittori in pittori che si devono guardare da lontano e pittori che si devono guardare da vicino.
«L’arte si è allontanata. Un quadro di Antonello da Messina si deve vedere da vicino da poche decine di centimetri, come tenendo in mano un libro. Un Vermeer si guarda da vicinissimo, se no non si capiscono tante cose (ma adesso a Bologna hanno messo La ragazza con l’orecchino di perla in una specie di catafalco e non ci si avvicina a più di dieci metri). Invece un taglio di Fontana si guarda da una certa distanza, è inutile avvicinarsi di più. Un’opera come Mozzarella in carrozza di De Dominicis, dove c’è una grande carrozza nera ottocentesca con dentro, sui sedili, una mozzarella poggiata su un piattino è quasi inutile vederla perché la carrozza è una carrozza, la mozzarella una mozzarella, il piattino che contiene la mozzarella è un piattino, e quello che conta è l’idea, non la realizzazione».
Lei ama anche distinguere i pittori in pittori orizzontali e pittori verticali.
«Un pittore orizzontale è Morandi, un pittore verticale è Canaletto. I quadri di Canaletto sembrano fatti veramente da un geometra, non senti niente della mano che l’ha fatto. In Morandi, invece, senti l’anima nelle dita, è questo che deve dare la pittura. La gente parla piano davanti ai quadri di Morandi, sembra quasi che a parlar forte qualcosa possa venir giù nel quadro».
A quanto ho capito leggendo il libro non le piace De Chirico.
«No, ho solo specificato che dal punto di vista tecnico De Chirico non era un grande maestro. Ha avuto delle visioni meravigliose ma la sua pittura è un po’ stentata, un po’ faticosa. Ha il cervello come Rembrandt ma ha la mano un po’ frenata. Se guardi certe figure, se guardi i piedi vedi che non ce l’ha fatta, ha lasciato le cose così. Non lascia libera la mano sulla tela dandole un po’ di cervello. Quando si disegna è come avere due motori, quello mentale e quello manuale. Mentalmente De Chirico è altissimo, straordinario, manualmente è assai più modesto».
Lei ama molto gli scrittori e la sua carriera ne è una straordinaria dimostrazione. Ha amato molto anche Lucio Mastronardi, un amore difficile visto il carattere dello scrittore di Il calzolaio di Vigevano.
«Mi piaceva quello che scriveva così, senza conoscerlo, andai a bussare a casa sua a Vigevano e nacque un’amicizia. Aveva aspetti buffi. Si era innamorato della figlia di un potente critico letterario e per regalo le mandò una cassetta di liquori, quelle confezioni natalizie, con la Vecchia Romagna Etichetta Nera, il brandy che creava un’atmosfera. Non era un regalo per una ragazza ma lui aveva comprato la cosa più costosa che aveva trovato in un bar di Vigevano. Un ricordo buffo di un personaggio assolutamente tragico. Penso ai suoi tentativi di suicidio fino a quello finale. Ora vedo che Luciano Bianciardi, un altro ribelle, un altro anticonformista di quell’epoca, viene spesso e giustamente citato. Mastronardi invece no. Silenzio. Non è giusto, fu uno scrittore straordinario».

*Segnalato da Simona Nocera (@onlysimo) che ringrazio (L.R.) 
http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/tutti-da-tullio-sabato-sera-pensieri-della-mano-lautoritratto-di-pericoli-che-attraverso-i-74049.htm

 

LA TRASGRESSIONE È SOLO PAURA DEL DESIDERIO

di Marina Valcarenghi, ilfattoquotidiano.it, 22 marzo 2014

 

Non è un’avventura finire a letto con il primo o la prima che capita o guidare ubriachi; qualche volta sono invece cure palliative di un desiderio di avventura frustrato. Le minoranze sono sempre esistite, ma molti si orientano oggi al rifiuto dell’avventura e dei rischi che inevitabilmente contiene. Va bene al cinema, ma nella vita spaventa. E non parlo delle avventure di Indiana Jones, ma di quelle che fanno parte della vita di tutti.

Si sente dire: “preferisco finire in una prigione cilena che in un aereo in partenza”, “col cavolo che vado in Egitto di questi tempi”, “potrei perdere la testa per quel ragazzo, ma cerco un tipo più tranquillo”, “detesto gli imprevisti”.

In un’atmosfera sociale di così pervasiva insicurezza, è comprensibile che si vogliano eliminare almeno i rischi possibili, ma il desiderio di avventura fa parte dell’istinto evolutivo e se viene sistematicamente represso produce due conseguenze di segno apparentemente opposto.

La prima si traduce in una minore vitalità, nella sordina posta all’entusiamo, in una paura travestita da ragionevolezza e quindi in una minore disposizione all’esperienza. Poco per volta se ne va l’esploratore e al suo posto vediamo il turista-tutto-compreso. Sono le persone che quando le incontri dopo vent’anni ti accorgi che niente è davvero mai cambiato nella loro vita, sono solo un po’ più spente.

Il rischio è allora nell’affiorare di indecifrabili malinconie, mano a mano che il tempo passa, di confusi rimpianti, qualche volta di cadute depressive. Ma può anche succedere che la vita passi così, senza avere provato a vivere di slancio. Che fine fa allora l’istinto avventuroso dopo essere stato respinto? Si trasforma in qualche modesto sintomo psicosomatico e ci si abitua a vivere a scartamento ridotto, ecco tutto. Ma questo non è già un sintomo?

La seconda conseguenza è nel dirottamento del desiderio di avventura che viene trasferito incomportamenti distruttivi. Il sesso estremo, per esempio, le moto impennate nel traffico, le risse collettive sono modi di rischiare la vita propria e altrui senza un perché che non sia il brivido.

Un comportamento autodistruttivo segnala un inconsapevole senso di colpa e la conseguente esigenza di punizione. Da dove viene in questi casi il senso di colpa? Credo soprattutto dall’abbandono di quelli che io chiamo i desideri profondi, che ci appartengono e che danno senso alla nostra vita. La latitanza del desiderio, infatti, attenua o annulla la tensione verso l’avventura: perché infatti rischiare e che cosa se mancano direzione e progetto?

Da lì, da questa lontananza da se stessi, ha origine un senso di colpa insidioso perché risulta quasi sempre inconscio delle sue ragioni: ci si sente in colpa perché non si è come si dovrebbe essere, non si fa quello che si dovrebbe fare.

Dal senso di colpa ha origine la punizione e allora può succedere che l’istinto avventuroso, scollegato ormai da un desiderio profondo, si riaffacci alla coscienza in modo disordinato, senza una direzione personale, carico di un’energia negativa fatta di rabbia, risentimento, violenza o disperazione.

Quando tutto questo succede, e senza una personale bussola che orienti l’energia vitale, si finisce ad affrontare l’avventura in modo distruttivo senza in fondo sapere perché, ma qualche volta credendo di saperlo. Questi comportamenti, pericolosi e asociali, sono non di rado confusi con una scelta trasgressiva rispetto alle convenzioni sociali. Ma la trasgressione parte sempre da un desiderio, un senso, un obbiettivo – e secondo me soprattutto dall’amore per qualcosa o per qualcuno – e prevede in ogni caso la capacità di pagarne il prezzo: Socrate, Rosa Luxemburg, Spartaco, Picasso amavano gli ateniesi, gli oppressi, gli schiavi e le nuove strade dell’arte e hanno saputo essere trasgressivi, non quelli che vanno a 200 all’ora sull’autostrada o che lanciano i sassi da un cavalcavia.

Ma allora – se l’istinto avventuroso e la disposizione al rischio possono sempre manifestarsi, sia pure in modo contorto – ne deriva che la vera paura forse non è nello sfidare l’ignoto, ma quella di desiderarlo.

E forse da qui, da questa paura del desiderio, si può riprendere il discorso per cercare una via di uscita.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/22/la-trasgressione-e-solo-paura-del-desiderio/922493/

 

PERCHÉ NARCISO NON VALE L’AMORE. Secondo il mito, quando amiamo chi non sa amare, dobbiamo attenderci le punizioni di Eros. Nella realtà, vuol dire imparare a non credersi onnipotenti

di Maria Luisa Campobasso e Umberto Galimberti, D Repubblica, 22 marzo 2014 
 
Sono una psicoterapeuta e insegno in una scuola di formazione in psicoterapia relazionale, dove le sue pagine sono un utile materiale di riflessione e di confronto per le discussioni con i miei allievi. Le scrivo a proposito del narcisismo, tema che più volte lei ha affrontato, e che secondo me oggi è di grande attualità. Vorrei interrogarmi e interrogarla circa la “relazione narcisistica”, ampliando lo sguardo sulla ninfa Eco che, nel mito, di Narciso è vittima – per intenderci – e tornare al “miracolo dell’amore” che Lei auspicava per il collega psicologo narcisista che in una lettera le sottoponeva i suoi tormenti. Nella mia esperienza clinica vedo tante donne spesso belle, intelligenti e affascinanti, che fanno a pezzi la propria vita rincorrendo questo “miracolo d’amore”. Non smetto mai di sorprendermi per la quantità di energia che sono disposte a investire in questa relazione “disperante” che, proprio nell’accanimento onnipotente a diventare “qualcuno” per il partner (per il quale sono invece solo estensione narcisistica del sé) trova la sua marca patologica. Quando pare che, ridotte ormai come Eco nel mito, si decidano a mollare, ecco che si riattiva il gioco del partner che, proprio nella conquista di donne così importanti, alimenta il senso del suo sé (il cosiddetto “amore”). Poiché poi il narcisista è un magnifico incantatore, ci riesce e tutto ricomincia, anche il dolore che si cronicizza in sofferenza. Vorrei che nelle sue pagine, che sono un riferimento per tante donne, lo scrivesse, che il miracolo dell’amore non consiste nel cambiare l’altro, semmai nella possibilità che, attraverso l’altro, ci è data di cambiare noi stessi. Per esempio facendo quanto è possibile per ritrovare in noi stessi il senso del nostro vivere, senza delegarlo al valore che l’altro è disposto a riconoscergli. 
Maria Luisa Campobasso
Narciso era un giovane bellissimo circondato dall’amore e dall’ammirazione di quanti lo incontravano, ma alle profferte d’amore, che pure lo gratificavano, restava indifferente. Un giorno, di Narciso si innamorò la ninfa Eco che, non ricambiata e respinta, si consumò di dolore fino a morirne. Di lei rimase solo il ritorno della sua voce, l’eco appunto. Questo è il destino che attende le donne che amano i narcisisti, spinte dalla persuasione, tutta femminile, di poter cambiare col tempo e con le loro premure gli uomini che amano. Questa convinzione, che penso abbia le sue radici nello sfondo di onnipotenza presente in ogni donna – forse derivato dal fatto che, in quanto generatrice, la donna ha il potere di vita e di morte – è tipico non solo di colei che ama i narcisisti, sopportando ogni sorta di frustrazione e delusione, ma anche di chi ama i violenti, subendo ogni sorta di brutalità, maltrattamento, abuso, sopraffazione, come ogni giorno le cronache ci riferiscono. E allora è bene che le donne ricordino che possono generare i bambini, ma non ri-generare gli adulti, ormai solidificati e direi anche pietrificati nella loro identità. L’amore, è vero, è una potenza che può trasformare gli uomini. Ma non i narcisisti, che sono tali proprio perché, oltre a se stessi, non sanno amare nessun altro. Lo stesso Freud riteneva che non ci fosse cura per loro, per il semplice fatto che, incapaci di una relazione con l’altro da sé, non sono in grado di instaurare una relazione emotiva neppure con il loro terapeuta. Eppure incontrare un narcisista e innamorarsi di lui non è del tutto inutile, perché la sofferenza che si accumula in questa relazione può indurre la donna, se saggia, a ridurre il suo vissuto di onnipotenza ed evitare così l’autoinganno che le fa credere che, insistendo, possa cambiare le cose. Capisco che l’idea di riuscire a cambiare le cose costituisce per la donna a sua volta una gratificazione narcisistica, ma siccome il tentativo non approda, è inutile sprecare la propria esistenza per gratificazioni narcisistiche che comunque non arrivano. E allora la conclusione è quella indicata dalla psicoterapeuta che ha scritto questa lettera, ove si lascia intendere che amore non è solo conoscenza dell’altro, ma innanzitutto conoscenza di sé, nelle regioni, mai frequentate, dove veniamo a trovarci quando ci innamoriamo. Nello scenario tutto nuovo che amore dischiude possiamo conoscere, oltre alle nostre virtù che prima ignoravamo, anche i nostri limiti che nessun desiderio, neanche il più spasmodico, può superare. E il primo limite che dobbiamo riconoscere è quello della onnipotenza che la follia d’amore alimenta in noi, lasciando il narcisista, che non sa amare, nella più assoluta indifferenza.
http://periodici.repubblica.it/d/

 

UN FANTASMA IN CASA FREUD

di Vittorio Lingiardi, ilsole24ore.com, 23 marzo 2014
 
L’opera di Pierre Janet può essere paragonata a una «grande città sepolta sotto le ceneri, come Pompei. Il destino di una città sepolta è incerto: può restare sepolta per sempre; può rimanere nascosta per essere saccheggiata dai predoni. Ma è anche possibile che un giorno sia dissotterrata e riportata in vita». La profezia di Ellenberger (
La scoperta dell’inconscio, Boringheri) si è avverata: negli ultimi vent’anni i testi dello psicologo francese sono stati riportati in vita e molte delle sue idee alimentano le riflessioni di importanti clinici contemporanei. Uno di questi, Philip Bromberg (Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina), arriva ad affermare che la posizione anti-Janet assunta da Freud «ci ha portato indietro di quasi cento anni», e paragona la «Janet renaissance» a un romanzo gotico a puntate dove il fantasma senza pace di Janet, scacciato dal castello da Freud cent’anni fa, oggi ritorna per tormentare i suoi discendenti. Per quelli italiani, l’ultimo tormento, a pochi mesi dalla pubblicazione di L’automatismo psicologico del 1889 (Cortina, a cura di Francesca Ortu, postfazione di Giuseppe Craparo, recensito su queste pagine il 24 febbraio 2013 da Chiara Pasetti) è la traduzione della conferenza londinese dell’agosto del 1913 (pubblicata l’anno successivo sul Journal de Psychologie Normale et Pathologique). Si tratta di La psychoanalyse de Freud, in italiano semplicemente La psicoanalisi, che Bollati Boringhieri affida alla cura di Maurilio Orbecchi, che la introduce con un argomentato e combattivo j’accuse antifreudiano. Se nei suoi primi scritti Freud fa riferimento ai lavori di Janet, riconoscendo l’importanza di alcune sue concettualizzazioni, successivamente gli muove critiche sempre più serrate, sottolineando le divergenze tra la sua «psicoanalisi» e l’«analisi psicologica» janetiana, fino a disconoscere ogni somiglianza tra i due approcci. E così, continua Ellenberger, «mentre su Janet cadeva il velo di Lesmosine, sul suo grande rivale, Sigmund Freud, si alzava il velo di Mnemosine».
Le belle pagine della conferenza di Janet ci restituiscono non solo le sue idee, ma anche le emozioni del suo conflitto col collega viennese. Parole a prima vista rispettose e cordiali si fanno ironiche e graffianti. Per tradire infine il dolente stupore di chi si è sentito privato non tanto, o non solo, del riconoscimento del proprio lavoro, ma di quel confronto che è al cuore di ogni percorso scientifico e intellettuale. «Con mia grande vergogna», afferma nel commentare la natura apparentemente rivoluzionaria delle scoperte freudiane, «devo confessare che all’inizio non ho per nulla compreso l’importanza di questo sconvolgimento e, ingenuamente, ho pensato che i primi studi di Breuer e Freud altro non fossero che una conferma dei miei lavori più interessanti». E aggiunge: «Freud e i suoi allievi sono partiti dai miei primi studi sull’esistenza dei fenomeni subconsci nelle isteriche e sulle loro caratteristiche, senza criticarli: mi dispiace un po’, perché queste ricerche avrebbero bisogno di conferme e di critiche».
L’obiettivo della conferenza di Janet è mettere in luce le differenze tra la sua proposta e quella di Freud. Lo fa attraverso tre argomenti principali: i ricordi di avvenimenti traumatici (reali, non fantasmatici) e il loro ruolo nel determinare i sintomi; i meccanismi sottesi alla loro azione sul funzionamento mentale; la discussione sulla natura sessuale di queste memorie. La sua lettura apre una finestra su un ambito di studio in costante evoluzione.
Le considerazioni di Janet sulla psicoanalisi vertono su tre punti fondamentali, a mio avviso ancora in grado di sfidare alcune posizioni e atteggiamenti contemporanei. Primo, mette in dubbio l’originalità di Freud, il quale, più che aver «scoperto» l’inconscio, avrebbe rielaborato il sapere del tempo, attingendo in gran parte al collega francese: «Potei constatare con piacere che le loro osservazioni erano simili alle mie. (…) Questi autori si limitavano a cambiare qualche termine nella loro descrizione psicologica», ma allo stesso tempo accettando «tutti i concetti fondamentali, per quanto ancora al vaglio della discussione». Secondo, mette in guardia dalla generalizzazione, dall’arbitrarietà e dalla semplificazione eccessiva dei metodi e dei principi tecnici analitici. Per non parlare dei limiti del linguaggio: «vago e metaforico». Molta psicoanalisi, afferma Janet, usa i pazienti per dimostrare le sue teorie: un caso eclatante è quello dell’interpretazione dei sogni, che l’analista metterebbe al servizio della dimostrazione delle sue teorie/dogmi. Terzo, insinua che la psicoanalisi tende a vestirsi di misticismo e religiosità, tanto da praticare pratiche di scomunica o espulsione degli «eretici».
Le ultime battute di questo scritto ci colgono di sorpresa. Con un colpo di teatro Janet capovolge la prospettiva affermando che «saranno dimenticate le spavalde esagerazioni e i simbolismi rocamboleschi» della psicoanalisi e «soltanto una cosa sarà ricordata: la psicoanalisi ha reso enormi servizi all’analisi psicologica», giacché ha portato l’attenzione su temi ingiustamente trascurati dalla ricerca. La storia non gli ha dato ragione. Dopo questo intervento, Janet sarà tacciato di eresia, emarginato e lentamente dimenticato. Alla sua morte, nota Orbecchi, dieci anni dopo quella di Freud, poteva essere considerato un sopravvissuto. Oggi, però, i più grandi esperti di trauma e dissociazione, da van der Kolk a van der Hart, da Nijenhuis a Liotti, non perdono occasione per ringraziarlo del suo lavoro e tributargli onori teorici e clinici. Janet, dicono, è il padre del disturbo da stress post-tramatico, il primo a studiare la dissociazione come processo psicologico fondamentale con cui l’organismo reagisce a esperienze soverchianti. Il primo a mostrare che le memorie traumatiche possono essere espresse come percezioni sensoriali, stati affettivi e ripetizioni di comportamenti. Il fantasma scacciato dal castello della psicoanalisi è tornato in circolazione e si sta togliendo qualche soddisfazione.
Pierre Janet, 
La psicoanalisi, a cura di Maurilio Orbecchi, traduzione Cristina Spingoglio, Bollati Boringhieri, Torino, pagg.168, € 13,00
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-03-23/un-fantasma-casa-freud-082014.shtml?uuid=ABd8B24
 

CHE BELLO MORIR DI PAURA ASSIEME AI PROPRI FIGLI. Alla Fiera del libro per ragazzi, la serie ispirata ai classici del terrore. Tra case infestate, stanze proibite e fantasmi 
di Alessandro Gnocchi, ilgiornale.it, 24 marzo 2014
 
L’orrore ha meccanismi simili a quelle delle favole. Stanley Kubrick, mentre preparava 
Shining, il film di recente votato come il più pauroso di tutti i tempi, leggeva avidamente Il mondo incantato di Bruno Bettelheim, un saggio in cui si mostrava l’importanza delle fiabe. Da un lato il bambino si misura per la prima volta con i grandi temi della nostra cultura. Dall’altro familiarizza con i processi interiori che lo accompagneranno per tutta la vita. Venendo all’orrore, il regista spiegava così il suo fascino in una famosa intervista proprio su Shining: «Una delle cose che le storie horror possono fare è mostrarci gli archetipi dell’inconscio: possiamo vedere il Lato Oscuro senza doverci confrontare con esso».
Tra le novità della Fiera del libro per ragazzi di Bologna (da oggi al 27 marzo) l’editore Piemme presenta
 Il castello della paura, una collana di horror per piccoli (ma esigenti) lettori. Il che non vieta ai genitori di divertirsi. Prendiamo subito uno dei primi quattro titoli, La mano di Thuluhc di Guido Sgardoli. Il fan di Lovecraft avrà colto il riferimento al maestro di Providence. Thuluhc è infatti l’anagramma di Cthulhu, il mostro più enigmatico e spaventoso uscito dalla penna dell’autore statunitense. La trama rimanda invece a una delle situazioni-tipo del genere horror, la Casa infestata da misteriose presenze. Difficile pensare che Sgardoli non avesse in mente anche Shining, sia il romanzo di Stephen King sia la pellicola di Kubrick, dal momento che i due eroi del racconto sono due fratelli che si chiamano Barry e Lyndon. In quanto alla molesta mano fantasma, beh, chi non ha mai visto La famiglia Addams? La bravura di Sgardoli, e degli altri autori della collana, sta proprio nel giocare abilmente con i cliché, re-inventandoli per un pubblico che vuole provare un brivido senza fare un brutto sogno. Del resto non è quello che hanno fatto, senza evitare l’eventuale brutto sogno agli adulti, anzi cercando di procurarglielo, lo stesso Stephen King e la sua principale fonte di ispirazione, quella Shirley Jackson autrice dello strepitoso romanzo L’incubo di Hill House (Adelphi)?
Fitto di citazioni, e altrettanto riuscito, è 
La notte della vendetta di Fabrizio Silei. Si parte con una festa in maschera in un castello, che potrebbe essere la versione «adatta ai minori» de La Maschera della Morte Rossa di Poe, e si prosegue con il padre dei protagonisti troppo simile a un antico ritratto nella biblioteca: sarà forse lo spettro del Caporale Hug assetato di vendetta? Ve lo lasciamo scoprire. Senz’altro è una ottima rivisitazione, a misura di bambino, di temi classici dell’orrore, dalla reincarnazione all’eterno ritorno dell’uguale.
L’intera collana, almeno in queste prime uscite, è un distillato degli «archetipi dell’inconscio» di cui parlava Kubrick sulla scia di Bettelheim (e di Freud). Cosa ci fa dunque paura e ci attrae? Ad esempio, la Stanza proibita di Barbablù. Quale bambino resiste alla tentazione di aprire una porta che dovrebbe restare chiusa? Nessuno. Così, in 
Un gioco pericoloso di Anna Vivarelli, Mathieu si accorge che quel capannone delle barche ha qualcosa di troppo strano. Ma vuoi non entrare? Sarebbe un peccato. E se poi in quella costruzione ci fosse un ragazzino scalzo, dallo sguardo spiritato e dalle mani fredde come il ghiaccio? Si correrebbe il rischio di non tornare più a casa, e di scoprire vicende di un passato che sarà difficile dimenticare.
Cosa ci fa paura e al contempo ci fa ridere? Ad esempio, il dubbio che un essere animato sia veramente vivo; o all’opposto che un oggetto privo di vita sia un essere animato. Tutto ciò che induce l’impressione di processo mentale automatico o di movimento meccanico, dietro l’apparenza ordinaria, ci terrorizza, almeno secondo Sigmund Freud. Ma può farci anche ridere, e questo Charlie Chaplin lo sapeva bene, come del resto il filosofo Henri Bergson: «Le attitudini, i gesti, i movimenti del corpo umano sono risibili nelle stesse proporzioni in cui esso corpo ci fa pensare a un semplice meccanismo». Ecco perché trovare oltre la botola sul soffitto un teatrino con marionette di bambini e bambine, come capita a Susie e Pete in 
Girotondo del terrore di Alessandro Gatti, può essere sia divertente sia l’inizio di un’avventura raggelante.
Chi ha un bambino, ed è abituato a leggere insieme con lui, sa già che la letteratura per ragazzi è spesso curatissima e molto intelligente, anche e forse soprattutto quando esce dalla logica del prodotto da collezione (una logica a cui è sensibile esclusivamente il genitore) e si rivolge a un mercato di massa. Questa collana ne è l’ennesima conferma.

http://www.ilgiornale.it/news/cultura/che-bello-morir-paura-assieme-ai-propri-figli-1004266.html

 

FILIPPO TIMI: «L’INCONSCIO CI IMBROGLIA». «Crediamo di rappresentare noi stessi in realtà stiamo recitando ombre del nostro Io»

di Roberta Schira, milano.corriere.it, 24 marzo 2014 
«Pronto? Sì, aspettavo la sua telefonata. Dunque parliamo di “Skianto”… »
«No, gentile Timi, mi perdoni, non vorrei parlare del suo nuovo spettacolo in scena al Parenti»
(Silenzio).
«Il suo successo come scrittore, attore, regista è risaputo, anche se Andrée Ruth Shammah dice che non bisogna sottolinearlo. Sostiene che in lei c’è del genio, ed è raro che si sprechi in lodi».
(Silenzio).
«Vorrei partire da una parola chiave: bocca. La bocca vista come porta dell’Io sulla realtà. Come cancello sul mondo. Simbolo archetipico femminile per eccellenza, la bocca come oscura cavità, pertugio dell’anima. Pensavo a tre strade: bocca come porta della parola, del cibo e dell’Eros. In fondo, cibo ed Eros sono i jolly dello psicoanalista, non crede?».
«L’immagine del cancello è perfetta. La bocca è il cancello che resta chiuso o si apre. A volte, anzi di frequente, l’Inconscio ci imbroglia, noi crediamo di rappresentare noi stessi, in realtà stiamo recitando ombre del nostro Io».
«Cominciamo dalla bocca come luogo del cibo, assaporato, pensato, accolto o sputato. Lei è un tipo che centellina o trangugia? È un mangiatore solitario o conviviale? Che cosa le fa venire in mente?».
«Mi viene in mente una scena del film Ludwig diretto da Luchino Visconti. Ho ben nitido davanti a me un fermo immagine sulla bocca del re di Baviera Ludwig, vedo i suoi denti tutti marci. È l’emblema del Tempo che passa e lascia il segno. Non è una visione di decadenza, è l’emblema del Tempo goduto, con il piacere del cibo e quindi della vita. Io inseguo piatti semplici dove riconosco immediatamente l’essenza dei sapori originari, primari. Mastico moltissimo e quindi mi prendo il mio tempo per mangiare. Non mi dispiace mangiare da solo o in piccole brigate. Sì, pochi è meglio».
«E invece la bocca come cancello dell’Eros a che cosa la fa pensare?».
«Al sesso. A volte è bello. Per me la congiunzione perfetta tra la bocca e l’Eros è il bacio, il gesto assoluto di intimità. La lingua del desiderio è muta. L’amore non parla. Si tocca, si guarda, si fonde nel bacio senza proferir parola. Subito prima della bocca, del tatto, nella mia scala dei sensi però c’è l’odore. È il senso assoluto per me. Attraverso l’olfatto avviene la mia prima fondamentale selezione tra gli esseri umani».
«”L’immaginata vita è lì nel bacio”, come dice il poeta. Non ci rimane che la bocca come luogo della parola, della voce. Quante voci ha Timi?».
«La bocca come parola è, per me, passione-ossessione. Io sono nello stesso tempo la voce della scrittura con la sua cifra, la voce del teatro che muta ogni volta rimanendo se stessa, quella del regista che guida. Le mie voci sono tante, il cuore è uno solo. Le singole voci sono la scrittura, la regia, la recitazione. La risultante è molto più che teatro: lo spettacolo è il coro dove tutte quelle voci sono andate a confluire. Far uscire le voci è terapeutico come il “fare”, il contrario del non fare, della non vita. Il “vocare” in senso latino è colmo di significati e vuol dire, tra l’altro, chiamare per far venire, chiamare per nome, invocare gli dei»
«E la bocca in Skianto?».
«Skianto e la bocca murata sono strettamente legati. È il racconto di un ragazzo disabile che ha il cancello sbarrato. Io spalanco quella bocca in un urlo di Munch. Da lì, dopo che ho fatto esplodere l’ingresso, esce un boato. Gli esseri umani sono disabili alla vita e siamo tutti un po’ storti, se ci confrontiamo alla grandezza della Natura. Esiste una disabilità non conclamata che è l’isolamento, l’incapacità di fare uscire le voci».
«Un po’ come la claudicanza esistenziale di cui parla l’ermeneuta Haim Baharier, che lei ben conosce. Ma come dice il poeta “finché si è inquieti si può stare tranquilli”, e sembra l’abbia scritto apposta per Filippo Timi».
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_marzo_24/filippo-timi-l-inconscio-ci-imbroglia-174cfd80-b335-11e3-a728-d65859a0bfab.shtml

 

I DEMONI DI JIMMY P. Arnaud Desplechin, tra i più interessanti autori del cinema francese contemporaneo, ha realizzato un adattamento dell’omonimo libro di Georges Devereux, etnopsichiatra di origine ungherese. Ed è proprio Georges uno dei due protagonisti del film, alla prese con la “cura” di un paziente affetto da un inspiegabile malattia psicosomatica, Jimmy Picard, nativo americano reduce della Seconda Guerra Mondiale

di Redazione, grr.rai.it, 24 mazo 2014 
 
Jimmy Picard (Benicio Del Toro) è un reduce dalla Seconda guerra mondiale, nativo d’America originario della tribù dei Piedi Neri, è tornato a vivere in campagna nel Montana, dopo aver combattuto in Francia. Soffre da tempo di incomprensibili attacchi fisici, come vertigini e, perdita dei sensi, cecità momentanea, sordità. Lo Stato americano, che cerca di risparmiare sulle pensioni di invalidità belliche, lo ricovera nell’ospedale militare di Topeka, in Kansas, ma non si riesca a capire la natura del problema. Picard sembra sano. Potrebbe essere schizofrenico, prova a scoprirlo il dottor Georges Devereux (Mathieu Amalric), antropologo francese, psicoanalista con la passione per la cultura indiana. Il tenace professore francese si occupa con dedizione del caso di Jimmy P: i due uomini sono molto diversi ma tra loro nasce un’amicizia improbabile.
Qual è il problema di questo film, nelle sale italiane da giovedì scorso? Non c’è il cuore della storia. Il film è legnoso, incastrato in certi meccanismi narrativi un po’ troppo tradizionali e stereotipati. La solita psicanalisi freudiana protagonista, dalla lettura dei sogni capiamo che il vero nodo da sciogliere nella mente di Jimmy sta nelle radici culturali dell’uomo, nelle sue ferite sentimentali e famigliari (dove i traumi sessuali hanno una parte consistente, soprattutto in tensione con la sua formazione cattolica) e nel rapporto coi ricordi bellici.
Il regista francese Arnaud Desplechin riprende il tema, a lui molto caro, delle dinamiche famigliari, e lo fa con una pellicola in concorso alla 66esima edizione del festival di Cannes e che ha ottenuto la candidatura al premio César come miglior film dell’anno.

http://www.grr.rai.it/dl/grr/notizie/ContentItem-cb53e03c-7b62-41a4-966f-629b3618030b.html

 

COSA FARE QUANDO I PADRI NON SONO ‘PATERNI’?

di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 25 marzo 2014
 
Se mentre fate la spesa, appena fatto l’ultimo acquisto, svoltato l’angolo della frutta, con le casse automatiche ormai in vista, notate un bancale carico di libri, tutti dello stesso titolo: 
Open. La mia storia, non domandatevi cosa ci faccia lì un’edizione Einaudi collana Stile Libero, neppure ribassata di prezzo. Prendetelo. È uscito a settembre 2011 e voi siete in ritardo, non solo perché a casa vi aspettano con il brik di besciamella che siete usciti a comprare, ma perché ancora non avete aperto Open.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri genitori! Si tratti di un lapsus genuino, fiorito sulle labbra di qualche bambino o bambina, più acuti di quanto non riescano poi a pensarsi da grandi, o il frutto arte-fatto di una meditazione non banale, poco importa. Questa variante del Padre Nostro è la traccia invisibile di Open, l’avvincente racconto autobiografico di un sorprendente Andre Agassi e bottega – fondamentale il contributo del premio Pulitzer J. R. Moehringer – che ricapitola trentasei anni di vita e di tennis: dal drago lancia palle escogitato dalla mente diabolica del padre, alla creazione, in società con la moglie Steffi Graf, della Andre Agassi Charitable Foundation (fondazione scolastica), dove i due coniugi riversano il proprio impegno e dove faranno affluire 40 milioni in dollari fruscianti: “Amo le nostre idee, i nostri progetti, ma quello di cui vado particolarmente fiero è l’impegno a sostenerlo con il denaro. Un sacco di denaro” (p. 430).
“Non tutti i padri sono paterni”: lo aveva ricordato Susan Vreealand nel suo romanzo migliore e più famoso, 
La passione di Artemisia, a beneficio dei distratti che poi si espongono a pericolose idealizzazioni. Ma l’interessante del racconto di Agassi – il surplus per così dire – è che il suo (di padre) era una vera e propria carogna: e per un figlio cavarsela con un simile “tizzone d’inferno”, richiede di usare tutta la dotazione di sette vite (come i gatti) che ogni bambino, nato almeno con un po’ di camicia, possiede. A volte neppure quelle sette bastano, ma questo non è il caso di Agassi, moderno Gatto con gli stivali, che ne ha comunque dovute utilizzare parecchie, se non tutte: “Una cosa che ho imparato in ventinove anni di tennis: la vita ti getta tra i piedi qualsiasi cosa, tranne forse il lavello della cucina, e alla fine anche quello. Sta a te evitare gli ostacoli. Se lasci che ti fermino o ti distraggano, non stai facendo il tuo dovere, e non farlo ti provocherà dei rimpianti che ti paralizzeranno più di una schiena malandata” (p. 11 ). Sul padre, Agassi è uno che non molla, anche se il suo, come Saturno, di figli e figlie se ne era già quasi mangiati due (il fratello e la sorella), e anche se lui, il terzo, era già ben indirizzato sulla stessa salita di Isacco, sul monte Moira del dio tennis.
Che Agassi fosse eccentrico è cosa nota, che avesse anticipato e molto la moda del mono-orecchino a pendaglio lo è altrettanto. Ora alzi però la mano chi sapeva che il famoso orecchino a pendaglio disegnato da lui e da lui commissionato a un artigiano di Las Vegas, rappresenta la Trinità. E alzi la mano chi sapeva del secondo orecchino, uguale al primo, di cui Agassi fece dono al suo possente preparatore, Gil Reyes, che lo adatta come ciondolo per la catenina, per non toglierselo più. Non credo che Agassi conoscesse il passo del 
De Trinitate dove Agostino informa i secoli a venire che Dio non è Padre in quanto Padre (in ordine alla sostanza) ma in quanto ha (saputo porre, aggiunta mia) una relazione con il figlio. Informandoci inoltre che la regola vale anche per il Figlio, ovvero che Dio non è Figlio in quanto Figlio (in ordine alla sostanza), ma solo se ha (saputo porre, aggiunta mia) una relazione con il Padre. Ad ogni modo l’informazione è chiara: non esiste il Padre in sé. E nemmeno il figlio in sé. Per ulteriori informazioni chiedere a Michele Serra (Gli sdraiati), che “sdraiato” (lui, non il figlio) per 19 anni sulla presunzione di paternità (e figliolanza) in sé, riuscirà a recuperare un inizio possibile di storia col figlio, giusto all’ultimo: in “zona Cesarini”, un istante prima che Cronos, l’arbitro delle nostre vite, fischi la fine della partita. Game over.
Agassi di padri non ne ha, e neppure li trova “precotti” in qualche istituzione surrogante la famiglia, scuola, parrocchia, squadretta, club ecc. Deve cercarseli, e una volta trovati nominarli lì per lì: arruolarli. Nel racconto di padri ne ho contati almeno tre (ovviamente al netto del suo), e se uno è Gil, vera e propria guardia del corpo di Andre (definizione che non stona neppure per lo psicoanalista, meglio di strizza cervelli…), l’altro è il secondo allenatore, Brad Gilber, che Agassi cerca e adotta, come aveva cercato e adottato altri ancor prima dello stabile rapporto con Gil: “La tensione è così spessa che mi raggomitolo sul sedile posteriore e chiudo gli occhi. Penso di saltare fuori, correre via, trovare Rudy e chiedergli di farmi da Coach. O di adottarmi” (p. 71 ).
Brad è un ex giocatore che a fine carriera si prende la briga di scrivere il libro 
Vincere sporco. Andre si incuriosisce, lo chiama, lo assume e poco alla volta, grazie a Brad, ricuce la scissione che da molto tempo aveva fatto breccia nella sua mente, tra colpo perfetto e colpo vincente: “La sua tesi che il perfezionismo è facoltativo mi dà serenità. Il perfezionismo è qualcosa che ho scelto, e mi stava rovinando e posso scegliere qualcos’altro. (…) Ho sempre pensato che il perfezionismo fosse come la calvizie o la mia colonna vertebrale ispessita. Una parte innata di me” (p. 243). Quando si dice l’ideale!
Il terzo è John Parenti, un pastore sui generis di “una specie di chiesa, una palazzina per uffici nella parte ovest di Las Vegas. È aconfessionale (…) Pare più un surfista che un pastore” (p. 1 57 ). “Ti rendi conto, vero − gli dice un giorno in auto mentre Andre sta guidando un bolide nel deserto di Las Vegas − che Dio non assomiglia affatto a tuo padre? Lo sai, Sì? − A momenti esco di strada. (…) − Quella voce che senti continuamente, quella voce rabbiosa. Non è Dio. È ancora tuo padre. − Mi giro a guardarlo: mi fa un favore? Lo ripeta” (p. 160).
Ora nel racconto di Agassi non c’è nulla di neppur lontanamente simile a un abbraccio stile figliol prodigo, neppure nella variante di Susan Vreeland, con Artemisia Gentileschi e il padre Orazio nei panni dei protagonisti della celeberrima parabola. Emerge però, sfogliando le 502 scorrevoli pagine del libro, un riconoscimento a distanza, tanto più vivido quanto più legato ai ricordi convulsi degli ultimi match, quando lo spazio-tempo prende congedo (come in una buona seduta con lo, non dallo, psicoanalista) e i pensieri sfrecciano dall’infanzia ai giorni nostri senza soluzione di continuità. “Devi fargli venire una vescica al cervello” era la massima del padre da seguire quando l’avversario appariva più forte, o sotto qualche aspetto effettivamente lo era: equivale a sfidarlo sul suo terreno facendogli perdere sicurezza. Nei match degli ultimi anni Agassi non è più il favorito. Non solo contro Sampras o Federer (“che non hanno punti deboli!”), ma con tanti altri; anche con i peones, con i parvenus ogni set diventa un’impresa.
Ecco allora, nel pieno del transfert agonistico, affiorare il ricordo del pensiero del padre: “devo fagli venire una vescica al cervello”: “Un avversario deve farmi muovere, scattare, costringermi ad affrontarlo, altrimenti giocherà alle mie condizioni. E le mie condizioni sono dure. Soprattutto da quando sto invecchiando” (p. 464). Oppure il pensiero con il quale Agassi onora la pazienza della madre: “ho scambiato il suo silenzio per debolezza, acquiescenza. (…) vuole che sappia che è più forte di quanto sospettassi (…) che sappia che io sono fatto della stessa pasta. Capisco (…) che è sopravvissuta a mio padre, come me” (p. 423). Agli Australian Open, dopo essere uscito a pezzi dal torneo di New York, Agassi incontra di nuovo Clément: “un match carico di rancore quattro mesi dopo che mi ha sbattuto fuori dagli US Open. (…) Commetto pochi errori e quelli che commetto li lascio rapidamente alle spalle. Mentre Clément borbotta tra sé in francese, io sono serafico. Il figlio di mia madre. Lo batto senza concedergli nemmeno un set” (pp. 223-224).
Lasciare cadere la fissazione sulle mancanze dei padri (madri incluse) è un passo di rilievo anche nel corso di una psicoanalisi. Se il padre era una carogna non lo sarà stato in quanto tale, semmai solo se avrà lasciato qualcosa in eredità, forsanche solo – si fa per dire − saper giocare a tennis. “I denti banchi del cane morto” avrebbe chiosato un prete ambrosiano di fama mondiale. Rileva qui notare l’importanza almeno “dei denti bianchi”, senza la presenze dei quali la parola padre non avrebbe alcun senso: “non ti chiamerò più padre” si direbbe in Umbria, dalle parti di Assisi.

http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2014/3/25/SCUOLA-Cosa-fare-quando-i-padri-non-sono-paterni-/485273/

 

PERCHÉ AMORE L’AVVERBIO PIÙ IMPORTANTE È «PER SEMPRE»

di Daria Bignardi, barbablog.vanityfair.it, 25 marzo 2014

Il dono più prezioso che ho avuto dal matrimonio è stato questo continuo impatto con qualcosa di molto vicino e intimo e tuttavia sempre e inconfondibilmente altro, resistente, in una parola, reale»: è la frase di C.S. Lewis, tratta da Diario di un dolore, che lo piscoanalista Massimo Recalcati ha messo in esergo al saggio Non è più come prima – Elogio del perdono nella vita amorosa.  L’ho letto pochi giorni dopo aver visto al cinema un flm che mi ha fatto piangere come una fontana, nonostante in teoria fosse una commedia, e mi ha spiegato perché avevo pianto.
***
In 
Noi 4, il nuovo film di Francesco Bruni, regista di Scialla! e sceneggiatore de Il capitale umano, insomma uno bravo, si parla di una famiglia – padre, madre e due figli – in cui i genitori si sono separati. La madre, ingegnere, interpretata da Ksenia Rappoport, è una donna rigorosa, ansiosa, responsabile; il padre, Fabrizio Gifuni, sedicente scultore, un uomo solare e un po’ cialtrone che vive il presente cercando soprattutto di godersi la vita. La figlia grande, ormai ventenne e aspirante attrice, lo adora e litiga con la madre, che il figlio tredicenne invece preferisce per la sua affidabilità.
***
Sono stati felici, quando erano uniti. Hanno condiviso la quotidianità e le sue gioie piccole e grandi: canzoni cantate in macchina, viaggi, prime volte. In moltissime famiglie il periodo dell’infanzia dei figli è un paradiso che non si sa che presto andrà perduto, se la coppia dei genitori non sarà in grado di crescere e diventare adulta insieme a loro. 
Noi 4 si svolge da un’alba all’altra, in una giornata in cui il figlio minore deve affrontare l’esame di terza media e una serie di eventi rimetteranno in gioco le relazioni familiari.
***
Non avevo capito perché un film in fondo divertente e leggero mi commuovesse tanto, fino a che non ho letto il saggio di Recalcati. La cosa più importante della sua riflessione sul matrimonio è legata alle sue premesse. Dove dice: «Questo libro vuole essere un canto dedicato all’amore che resiste e che insiste nella rivendicazione del suo legame con ciò che non passa, con ciò che sa durare nel tempo, che non si può consumare… Tratta di quegli amori in cui l’ebrezza non dilegua, ma investe il senso stesso del tempo rendendolo eterno».
***
Per chi si ama, l’avverbio più importante è «per sempre». In un matrimonio, l’altro è al tempo stesso la persona che più ci è vicina e quella che più ci mette in crisi, perché meglio ci conosce. Molto vicino e intimo eppure inconfondibilmente altro, resistente e quindi reale, come scriveva Lewis. Far durare un matrimonio, tener unita una famiglia – non a tutti i costi, ma fino a che è umanamente possibile – è una prova di maturità non tanto in quanto si tiene fede a una parola data, ma perché prova a se stessi che si è capaci di misurarsi con la realtà, che è sempre diversa da noi, da come la vorremmo, da come ci farebbe comodo che fosse. Persino da come sogniamo che sia. È la nostra capacità di misurarci con la realtà l’unica cosa che conta davvero, anche in amore. È la realtà, benché a volte pensiamo il contrario, la cosa più romantica. Per questo ci commuove.

http://barbablog.vanityfair.it/2014/03/25/perche-in-amore-l%E2%80%99avverbio-piu-importante-e-%C2%ABper-sempre%C2%BB/
 
NON TUTTI I TRADIMENTI VANNO PERDONATI.  Decima puntata di Tutto ciò che so sull’amore, la rubrica della scrittrice e filosofa Michela Marzano

di Michela Marzano, vanityfair.it, 26 marzo 2014
 
Si può conservare un amore e perdonare il tradimento? «Il lavoro del perdono è un lavoro che esige tempo», scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro Non è più come prima. «La memoria dell’offesa viene attraversata e riattraversata al fine di raggiungere un punto di oblio che rende possibile un nuovo inizio». Quindi, sì. Per Recalcati, il perdono è non solo possibile, ma anche necessario.
Anche se poi, per lo 
psicanalista, questo percorso sarebbe oggi molto raro, a differenza del passato quando si perdonava quasi sempre, soprattutto quando a doverlo fare erano le nostre nonne. Mentre oggi, all’epoca dell’effimero e del cinismo, sarebbero pochi a restare indenni di fronte alla «schiavitù del nuovo, del sostituto, dell’arbitrio scambiato per libertà di scelta». Ma in che senso il perdono dovrebbe opporsi alla schiavitù del nuovo? Perché perdonare? Perché farlo sempre?
Ho già più volte parlato dell’importanza e della fragilità della fiducia nell’amore. Ossia di come l’amore, per accadere, abbia bisogno di 
abbandono e di vulnerabilità. Anche se poi, inevitabilmente, il fatto di abbandonarsi al benvolere altrui rende sempre possibile il tradimento. Tanto più che l’essere umano, per definizione, tradisce ed è tradito. Anche semplicemente perché il desiderio sfugge al controllo, e accade a chiunque di sbagliare, di scivolare, di far male, di abbandonare. Nonostante l’amore. Nonostante la condivisione. Nonostante la pazienza.
Ho anche spiegato, però, che esiste un tradimento che non può essere perdonato. E che è
«imprescrittibile», come direbbe il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, senza che per questo si sia schiavi del nuovo. Ossia quel tradimento profondo e radicale che consiste a far credere all’altra persona che niente sia cambiato mentre, in realtà, tutto è diverso. Quello che porta a ripetere gli stessi gesti o a pronunciare le stesse frasi. Anche se vuote di senso.
Anche se prive di sostanza. Come «quegli «»che rimangono, lamentandosi dell’amore ormai da tempo svanito nel loro matrimonio» di cui parla Sören Kierkegaard. Quale gioia può esserci d’altronde nel restare all’interno del perimetro di quest’amore tradito? Quale libertà di essere se stessi può sopravvivere, quando l’altro non ha il coraggio dell’autenticità?
Non mi piacciono gli 
elogi del passato. Quando il sacrificio e la costanza erano considerati i pilastri del vivere-insieme. Quando si restava insieme perché era così che si doveva fare anche quando ci si sopportava appena. E questo, non perché io sia affascinata dalla mancanza di punti di riferimento o dal trionfo del narcisismo. Anzi. Sono profondamente convinta che uno dei problemi dell’epoca contemporanea sia proprio l’incapacità di uscire dal proprio mondo interiore per rischiare la condivisione e l’apertura. Ma credo anche che la costanza e il sacrificio del passato siano in parte responsabili di tanta sofferenza che si vede oggi. Tutto quel malessere che si prova di fronte alle menzogne e all’apparire. Tutti quei sintomi che gli adolescenti ci buttano addosso, perché sanno bene che, dietro la facciata della rispettabilità, l’“io” soffoca e muore.
Certo, non si tratta di cedere alle sirene del 
«nuovo», acculando gli oggetti d’amore prima di sostituirli e buttarli via. Anche perché nell’accumulazione, di amore, ce n’è molto poco. Si tratta solo di capire che l’amore non è perfetto, che l’altro può talvolta non essere all’altezza, che alcune volte può sbagliare e farci male. Ma che tutto questo, con il tradimento imprescrittibile, non c’entra niente. E che, in questi casi, il «non-perdono» del vero tradimento non è un problema. Anzi. È talvolta l’unico modo che troviamo per difendere la nostra soggettività dal falso idolo delle apparenze.
http://www.vanityfair.it/news/italia/14/03/26/michela-marzano-perdono-tradimento

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

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