Le scoperte dell'evidenza godono sempre di più degli onori della cronaca.
Fa comodo trasformare le banalità comuni in sapienza in cui tutti possono riconoscersi. Un anno fa due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet e Claudine Paque, hanno pubblicato "Il bambino preferito: chance o fardello?" Il libro ha avuto tanto successo da attirare l'attenzione mediatica. Nella settimana scorsa Sellenet è stata intervistata da "Le Monde" e in Italia il "Corriere della Sera" ha dedicato di rimbalzo alla questione ampio spazio.
Nell'intervista la studiosa afferma che la preferenza accordata a uno dei figli è un non detto, un tabù familiare la cui esplicitazione è incompatibile con il modello di famiglia ideale che è descritta nei libri per bambini. Contro un tabù invincibile basta ovviamente la buona volontà e la pazienza: l'80% per cento dei genitori intervistati da parte delle autrici nei 55 colloqui che fanno da base al libro ammettono dopo un'iniziale difficoltà che preferiscono uno dei loro bambini. È stato sufficiente convincerli che non si intendesse colpevolizzarli, che tutto questo facesse parte della complessità delle relazioni umane. Quanto è rasserenante la complessità quando la sua comprensione è elementare.
In realtà la predilezione dei genitori per uno dei figli è un segreto di Pulcinella: tutti lo sanno e tutti ne parlano. Non ne parlano volentieri i genitori stessi che spesso negano o sono riluttanti ad accettare ciò che tutti gli altri (a partire dai figli) vedono. La negazione o la riluttanza hanno due motivi: uno piuttosto scontato, l'altro molto più insidioso.
È risaputo, fa parte dell'esperienza comune, che i genitori possano preferire il bambino che nasce nel culmine del loro amore, quello che più somiglia a loro, quello attraverso cui pensano di veder realizzate le loro aspettative mancate, il primo figlio (il loro primo investimento) o l'ultimo (che ferma il declino della loro funzione), il figlio in cui per vari motivi rivedono una persona cara perduta. Rivendicare la preferenza non ha molto senso: sia perché non è un fatto immutabile né definito sia perché esprime un amore narcisistico vitale che convive con l'amore oggettuale (che tiene conto della differenza dell'oggetto amato) e non annulla il senso di giustizia nei confronti degli altri figli.
Diverso è il caso in cui un oggetto narcisistico del genitore che è privo di vita reale (esiste solo sul piano dell'idealità e della consolazione) è proiettato in uno dei figli che gode del privilegio, che è la sua rovina, di incarnarlo per farlo apparire vivo (prestandogli la sua carne e il suo sangue).
Qui il non detto -che non è fasullo ma vero, sia che i genitori neghino con determinazione il privilegio accordato al figlio sia che lo rivendichino sfacciatamente- è legato all'unico tabù familiare reale: l'incesto. L'incestuosità familiare deriva dalla persistenza da parte dei genitori in un forte investimento inconscio dei loro oggetti erotici infantili che loro idealizzano per garantirsi una sessualità autoerotica, autoreferenziale che li protegge dalle incognite della relazione coniugale.
La sessualità dei genitori si allontana dal reciproco coinvolgimento ed è rivolta silenziosamente, sotto forma di eccitazione non riconosciuta, a un figlio preferito (di sesso maschile per la madre, di sesso femminile per il padre) che deve far rivivere un passato morto (in questa cornice non essere preferiti è una fortuna che lascia l'amaro in bocca). Il bambino preferito può essere un paravento che nasconde, con la complicità di un sapere di superficie, la contaminazione della vita dalla morte.
Fa comodo trasformare le banalità comuni in sapienza in cui tutti possono riconoscersi. Un anno fa due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet e Claudine Paque, hanno pubblicato "Il bambino preferito: chance o fardello?" Il libro ha avuto tanto successo da attirare l'attenzione mediatica. Nella settimana scorsa Sellenet è stata intervistata da "Le Monde" e in Italia il "Corriere della Sera" ha dedicato di rimbalzo alla questione ampio spazio.
Nell'intervista la studiosa afferma che la preferenza accordata a uno dei figli è un non detto, un tabù familiare la cui esplicitazione è incompatibile con il modello di famiglia ideale che è descritta nei libri per bambini. Contro un tabù invincibile basta ovviamente la buona volontà e la pazienza: l'80% per cento dei genitori intervistati da parte delle autrici nei 55 colloqui che fanno da base al libro ammettono dopo un'iniziale difficoltà che preferiscono uno dei loro bambini. È stato sufficiente convincerli che non si intendesse colpevolizzarli, che tutto questo facesse parte della complessità delle relazioni umane. Quanto è rasserenante la complessità quando la sua comprensione è elementare.
In realtà la predilezione dei genitori per uno dei figli è un segreto di Pulcinella: tutti lo sanno e tutti ne parlano. Non ne parlano volentieri i genitori stessi che spesso negano o sono riluttanti ad accettare ciò che tutti gli altri (a partire dai figli) vedono. La negazione o la riluttanza hanno due motivi: uno piuttosto scontato, l'altro molto più insidioso.
È risaputo, fa parte dell'esperienza comune, che i genitori possano preferire il bambino che nasce nel culmine del loro amore, quello che più somiglia a loro, quello attraverso cui pensano di veder realizzate le loro aspettative mancate, il primo figlio (il loro primo investimento) o l'ultimo (che ferma il declino della loro funzione), il figlio in cui per vari motivi rivedono una persona cara perduta. Rivendicare la preferenza non ha molto senso: sia perché non è un fatto immutabile né definito sia perché esprime un amore narcisistico vitale che convive con l'amore oggettuale (che tiene conto della differenza dell'oggetto amato) e non annulla il senso di giustizia nei confronti degli altri figli.
Diverso è il caso in cui un oggetto narcisistico del genitore che è privo di vita reale (esiste solo sul piano dell'idealità e della consolazione) è proiettato in uno dei figli che gode del privilegio, che è la sua rovina, di incarnarlo per farlo apparire vivo (prestandogli la sua carne e il suo sangue).
Qui il non detto -che non è fasullo ma vero, sia che i genitori neghino con determinazione il privilegio accordato al figlio sia che lo rivendichino sfacciatamente- è legato all'unico tabù familiare reale: l'incesto. L'incestuosità familiare deriva dalla persistenza da parte dei genitori in un forte investimento inconscio dei loro oggetti erotici infantili che loro idealizzano per garantirsi una sessualità autoerotica, autoreferenziale che li protegge dalle incognite della relazione coniugale.
La sessualità dei genitori si allontana dal reciproco coinvolgimento ed è rivolta silenziosamente, sotto forma di eccitazione non riconosciuta, a un figlio preferito (di sesso maschile per la madre, di sesso femminile per il padre) che deve far rivivere un passato morto (in questa cornice non essere preferiti è una fortuna che lascia l'amaro in bocca). Il bambino preferito può essere un paravento che nasconde, con la complicità di un sapere di superficie, la contaminazione della vita dalla morte.
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