Giovanni Franchini, capitano medico del Regio Esercito, che operava nella località di Brak-Zella, nel Fezzan, nel Sud desertico della Libia, pubblicò su l’ «Archivio italiano di scienze mediche coloniali» un articolo dal titolo Il Tabib, il Fighì, il Marabutto. Malattie mentali e metodi di cura. pregiudizi[1].
A proposito delle malattie mentali e dei relativi trattamenti praticati dai libici scriveva:
Nelle malattie mentali non si pratica nessuna cura, così che esse esulano dai compiti del Tabib (il medico) per entrare nelle competenze del Marabutto (il santone). Sono frequenti difatti esorcismi e manovre fanatiche basate sulla superstizione.
Dei malati mentali viene fatta un’unica distinzione: malati non pericolosi e malati pericolosi.
I malati non pericolosi, abbandonati a se stessi, si aggirano nei dintorni degli accampamenti e dei paesi come cani randagi, vivendo di elemosina. Quando vedono altri consumare i pasti, si avvicinano e nessuno nega loro una parte del proprio cibo. Tutti li compatiscono e nessuno li disturba poiché la loro follia è considerata dagli arabi come qualche cosa di misterioso e di soprannaturale. I deficienti, gli idioti e gli epilettici vengono rispettati in particolar modo e tenuti conto di creature privilegiate. Infatti, in arabo, con la stessa parola bahalul, si indica lo sciocco come chi ha ingegno eletto sovra ogni altro.
Il pazzo è il mahabul. Verso i pazzi pericolosi solo vi è opera del Marabutto se non efficace, per lo meno ritenuta capace di qualche benefica influenza; e vi sono marabutti che godono larga rinomanza per virtù quasi miracolistiche nel trattamento della follia. Ahimè! Si tratta di una superstiziosa e credula fiducia che non crolla nemmeno alla prova dei costanti insuccessi. Il pazzo agitato e pericoloso, immobilizzato e legato, viene dai parenti condotto al marabutto più famoso e più autorevole, talora costringendolo a viaggi di parecchie giornate di marcia o di cammello. Uno dei marabutti più notoriamente apprezzati nella cura della pazzia è il marabutto Sidi Lamuri che abita a Buhissa, presso Zavia, ad un centinaio di chilometri da Tripoli. A lui si ricorre da tribù lontanissime, dalla Ghibla e dalla Sirtica, e talora gli furono condotti malati, a traverso le carovaniere del deserto, da più di 500 chilometri di distanza. Presso la casa del marabutto Sidi Lamuri vi è una grotta naturale profonda, con pareti a picco come quelle di un pozzo; il malato vi vien calato fino al fondo a mezzo di una corda, e questa pure vien cacciata dentro. La ragione di tale procedimento ha la sua radice nella superstiziosa credenza secondo la quale il pazzo agitato e pericoloso è considerato come un indemoniato, come un individuo cioè dove è penetrato Satàn, (il diavolo).
Per liberarsene, il malato deve lottare col suo dominatore e ciò può avvenire solo in fondo al pozzo, ove, al buio e sottoterra, il demonio è costretto a farsi vedere e ad affrontare la lotta. Il poveretto è lasciato nel fondo fino al giorno dopo, talvolta, per consiglio del marabutto, anche due notti; spesso smaniando, nelle furie e nella agitazione morbosa e sotto lo spavento del luogo e del buio, o muore di shok o finisce con lo sfracellarsi il cranio contro le pareti della roccia. Così che al mattino il marabutto conclude che, nella lotta per liberarsi dal satàn, il disgraziato ha perduto il combattimento ed ha dovuto soccombere.
Se sopravvive, il che accade ben raramente, allora gli si prolunga di 24 ore la «cura del pozzo» prima di farlo uscire, e per estrarlo, si cala con una corda uno dei parenti più giovani, più forti e più animosi.
Se, riportato alla luce, appare abbastanza tranquillo, deve sottostare a un complemento di cura; cioè mangiare, senza saper di che si tratta, il cervello cotto di un individuo morto pochi giorni prima. E mi si assicura che tale prativa sia spesso scrupolosamente seguita.
Se persiste l’agitazione e la pericolosità del malato, può essere ripetuta la calata nel pozzo; anche diverse volte… fino alla morte . ma di solito la provvida natura libera più rapidamente questi sventurati i quali, per le sofferenze cui sottostanno durante il lungo viaggio, strettamente legati e completamente digiuni, poiché ad essi nessuno somministra né un cibo né un sorso d’acqua, o muoiono prima di giungere alla meta o muoiono dopo poche ore di permanenza nel pozzo, per lo stato di esaurimento in cui arrivano al marabutto. Questo sistema di trattamento delle malattie mentali è abbastanza comune nel deserto, e non pochi sono i marabutti che hanno un pozzo a loro disposizione[2].
E concludeva:
E’ qui tutta le medicina araba; la sapienza e la esperienza dei Tabib, dei Marabutti e dei Fighì sono esposte in queste poche pagine. L’Arabo indolente, apatico e fatalista non dà grande importanza alla propria vita né si preoccupa della propria salute; quando s’ammala si rassegna e spontaneamente non si adopera in alcun modo per lenire le proprie sofferenze o per attenuare le conseguenze dell’affezione morbosa.
Le cure cui viene sottoposto sono più dirette a dimostrargli riguardo e rispetto che a combattere il male.
«Si muore una volta sola; e una volta si deve morire!». Ecco uno dei principi fondamentali della educazione morale e religiosa dell’Arabo, per il quale la vita è un passaggio doloroso, ma necessario, onde raggiungere le gioie del Genna (paradiso).
E nessuno reputa necessario prolungare per proprio desiderio una esistenza che ha così poche attrattive.
Forse è in ciò la ragione principale per la quale la medicina presso gli Arabi è tenuta in così poco conto e per la quale essi accettano passivamente qualsiasi cura e non cercano di perfezionare i mezzi destinati a conservare e a prolungare la vita[3].
Commovente, mi ricorda
Commovente, mi ricorda d’impatto i numeri della tombola 22 il pazzo, 23 lo scemo, che hanno praticamente lo stesso significato dei termini arabi… ma tradotti dalla fantasia napoletana in cabala….