A Settembre arrivavano le mareggiate.
Le aspettavamo dall’inizio dell’Estate, studiando ansiosi ogni minimo rinforzo di vento, certi comunque di dover attendere settembre.
Settembre: con le sue giornate terse e la tramontana che schiaccia con i suoi spifferi tesi un mare da bere e secca il sale sulla pelle rabbrividita; con la fragranza dell’uva ormai matura delle passeggiate sui monti alla ricerca di un Far West sassoso a due passi dal golfo dove inventare battaglie con le cerbottane costruite con tappi di sughero e spago e i missiletti di carta preparati con Vinavil e cura degna della sfida all’O. K. Corral; con l’odore dei suoi acquazzoni improvvisi e violenti, i cui primi enormi goccioloni evaporano sull’asfalto ancora rovente; con la luce limpida dei suoi giorni più corti e le ombre più lunghe dei suoi tramonti e le sere, agli ultimi spettacoli del cinema all’aperto, col golfino sulle spalle che sa ancora di naftalina e l’aria che si fa ogni volta più frizzante, annuncio di un autunno che non tarderà ad arrivare; con gli ultimi gelati che più che rinfrescare sembrano voler trattenere nello stomaco il sapore di un’estate che non tarderà a finire; con le sue giornate epiche e le grandi ondate alzate dallo Scirocco.
Misurando con gli occhi il ritmo delle onde e il coraggio di ognuno nell’essere il primo a buttarsi, ci mettevamo in fila sulla battigia giusto dove, la mattina, le ultime propaggini di schiuma depositavano e alimentavano una striscia tortuosa di relitti rifiutati dal mare e ungevano il pietrisco finissimo cancellando le impronte delle mamme che andavano avanti e indietro, a testa bassa, ad accompagnare i più piccoli, con i sandali di plastica traslucida e il secchiello, alla ricerca, tra la sabbia bagnata voltata e rivoltata dai cavalloni tenuti a prudente distanza, di tesori di prezioso vetro colorato, conservati gelosamente, durante l’inverno, dentro contenitori trasparenti che si portavano dietro il sapore salmastro del mare della lontanissima estate del tempo allungato di un’infanzia che corre via e ha i colori sbiaditi e bruciati degli spezzoni iniziali degli otto millimetri Kodachrome a fuoco fisso con la carica a molla, dove tutti fanno ciao, ciao con la manina.
In alto, sul pennone dei Bagni Punny, sbatteva la bandiera rossa di pericolo che il bagnino Giovanni aveva issato alla mattina.
Ora, seduto nel terrazzo a cavalcioni di una seggiola, dopo avere ritirato tutte le sdraio e gli ombrelloni, il bagnino Giovanni, col mento perplesso appoggiato sugli avambracci abbronzati, ci guardava scuotendo il capo e bofonchiando, sotto i baffi grigi, rimproveri in genovese stretto.
Si arrivava alla chetichella, a volte dopo un giro di telefonate, «Hai visto il mare?», «Ma non sarà troppo grosso?», «Onda lunga, fa anche la schiuma, ogni tanto. Grandioso!», «Che scusa racconti, tu?», «Alle quattro?», sembrava una cerimonia, ci si sentiva quasi dei toreri in slip.
Ci lasciavamo trascinare dalla risacca, scivolando, a pancia in giù, fino al gradino di sabbia dove l’acqua batteva fragorosa, infilandoci proprio sotto l’ondata che ci sorpassava massaggiandoci la schiena, per riemergere più al largo, trasportati dalla corrente limacciosa con cui dovevamo lottare, aspettando un momento di maggiore calma per tornare a terra a ripetere il gioco, agitando i piedi all’impazzata per restare a galla in un continuo saliscendi, ora sulla cresta ora nel seno precipitato tra marosi che strozzavano in fondo alla gola riarsa dal salino l’urlo di meraviglia e soverchiavano col frastuono il reciproco incitamento; a volte, un po’ per fatica, un po’ per eccesso di confidenza l’indispensabile sincronia cronometrica dei gesti si inceppava e, presi dal gorgo, venivamo scaraventati a riva dal mare e a casa dal bagnino Giovanni stufo di preoccuparsi per noi; se qualcuno era in vena di temerarietà, entrava in acqua di corsa tuffandosi, direttamente, nel torbido muro liquido che si parava innanzi minaccioso, proprio come facevano i ragazzi più grandi, che se ne fottevano dei rimproveri del bagnino Giovanni e che, tante volte, avevamo studiato, bevendo Oransoda al salsoiodio seduti sulla scaletta di legno che portava alla cabine, a guardare le loro imprese.
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