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LE COSE CHE NON SI POSSONO RACCONTARE

14 Dic 17

A cura di kharban@virgilio.it

Ieri sera, poco prima di addormentarmi, ho ricevuto un SMS. Era di M., un giovane asiatico fuggito dal proprio paese e da una famiglia oppressiva. M. mi scrive spesso: per lui, incapace di comprendere il significato tutto occidentale di incontrare settimanalmente un terapeuta, la comunicazione assume toni e tempi difficili, non di rado impossibili. Spesso mi scrive dei lunghi WhatsApp per raccontarmi ciò che non ha potuto o saputo dirmi di persona, perché ha dimenticato di venire, perché il bisogno irresistibile di comunicare con me è scattato proprio nel momento esatto in cui ha constatato che l'ora da lui prenotata era trascorsa.
In realtà, mi capita di rado di incontrarlo, perché spesso non viene, e quando viene è in libertà vigilata, come un ostaggio che può esprimersi soltanto in maniera criptica, monca, o in codice. A volte soltanto con un gesto sconsolato, come di rinuncia, per non saper trovare sufficienti parole per esprimere l’inesprimibile. Altre volte mi manda le immagini dei suoi quadri. Quella di ieri sera rappresentava una donna che si sporge da una balaustra. Quel balcone, di una casa che non si vede, si affaccia sul vuoto interstellare, e su quel vuoto la donna tiene sospeso il corpo di un bambino molto piccolo. Un bambino che sembra totalmente devitalizzato, o morto. O forse è un fantoccio di pezza. Sullo sfondo, nella direzione verso la quale si protendono le braccia della donna, la terra.

Mi sveglio con quell’immagine negli occhi. Ho visto molti quadri di M. C’è sempre la terra, laggiù, lontanissima. Di solito il significato dei suoi quadri mi appare più chiaro di quello delle sue parole. Ma questa volta, ho l’impressione che sia più eloquente del solito: lui vive in un luogo scisso, lontano anni luce dal mondo nel quale vorrebbe vivere, trovandovi pace. Lui vive in un luogo separato e inseparabile dalla madre che lo ha per tutta l'infanzia crudelmente abusato, sessualmente e psicologicamente.

Ora lui, per la maggior parte del tempo, è la madre, dalla quale non può separarsi, in una dolorosissima fusione simbiotica che lui eternamente maledice.

Soltanto durante le sedute, dice, riesce a essere per un po' qualcosa di diverso dalla madre, un sé distinto. Ma questo non capita sempre, non in tutte le sedute in cui è presente. Perché spesso non viene affatto, perché sente che qualcosa glielo impedisce. O glielo proibisce. La madre, che vive in un altro paese, ovviamente non sa che egli viene nel mio studio, ma é come se lo sapesse. Lui ne avverte la presenza pervasiva: è dentro di lui, in forma di angoscia e di impotenza sessuale, nonostante le ragazze lo cerchino.

 

Stamattina, alla radio, si parlava dell'articolo di uno scrittore che ha molto viaggiato, e che parla di luoghi di cui non si può raccontare. Ecco, penso: in un percorso psicoterapeutico eterno, in cui la dimensione del tempo si espande a dismisura per tentare di coprire distanze siderali, tutto ciò che vi è di vero, vivente e narrante è in quei quadri. Che non posso, o che non sono capace  di raccontare.

 

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